di Tito Pulsinelli
[Anche il nostro corrispondente dal Venezuela, Tito Pulsinelli – che di ’68 se ne intende – interviene nella discussione sul libro di Alessandro Bertante Contro il ’68, iniziata su Lipperatura e proseguita su Carmilla, su Georgiamada e in vari altri siti.] (V.E.)
E’ immaginabile che si possa scrivere un pamphlet intitolato “Contro il 2001”? Semplicemente no, perchè è senza densità, privo dei significati e delle evocazioni simboliche che il ’68 ha emanato. E, nonostante le smisurate fatiche negazioniste, continua ancor oggi a essere un punto di snodo. Non è ancora una moneta o una medaglia per le bancarelle dei rigattieri.
Rimane pur sempre un momento unico di rottura generalizzata, forse “il” momento, magico per la sua simultaneità trans-geografica, scaturita dal grembo di una sola generazione, forse nemmeno intera…
Questo è il suo limite assoluto, che l’ha trattenuto sul terreno epidermirmico della politica, condannandolo al vuoto della rappresentazione. Nessun cambiamento profondo e multivalente è possibile senza che prendan vita i sogni dell’arcobaleno, di tutto l’arco in un baleno: dei nonni, dei padri e dei bimbi.
Il ’77 è stata la sfida temeraria, giocata al rialzo, da una frazione ancor più minuscola di una generazione, accampata nelle maggiori città industriali e nelle sue periferie sociali, quando l’innocenza si era già perduta da tempo.
Rivoluzione o sovversione, politica o socialità, rappresentazione o vita quotidiana. Infine, perchè stupirsi se la rivoluzione si rivela come un percorso ciclico che riporta immancabilmente al punto di partenza? E’ la verità della luce che ogni giorno si trasforma in ombra. Qualcuno disse che ribaltare la clessidra del tempo non produce il cambio del ritmo.
Tuttavia non è la medesima cosa l’aumento automatico del salario e il ritorno trionfale del lavoro infantile; non sono nemmeno lontani parenti la “contingenza” o l’ergastolo sociale del contratto a termine. Anche le ombre non sono identiche a se stesse, nè sono seriali, soprattutto quando le vene non irrorano di droga solo le migliori menti della mia generazione…
La guerra chimica ha inquinato il terreno della vita quotidiana, ha paralizzato e distorto l’onda lunga del cambiamento creativo. Le periferie sono state trasformate in favelas dai narcourbanisti della disertificazione, così gli adepti del nichilismo economico regnano come notabili di una religione monoteista intollerante.
Se sotto il pavé s’è trovata poca sabbia, che senso ha fare l’apologia del catrame? Qual è il senso di evocare e fustigare i tristi presenti delle vedettes sessantottine? Ha il sapore sterile delle grida compiaciute contro gli idoli infranti. Risentimento contro gli dei di argilla che hanno fallito.
I curricula additati come riprova provata del mito che inganna, sono solo tracce viventi della lunga transumanza “all’interno delle istituzioni” (Rudy Dutchske). A cui han finito per richiedere la cittadinanza onoraria. Come tutti gli arrivati dell’ultima ora, con l’etremismo dei neofiti senili.
E’ troppo riduttivo fissarre la complessità di uno squarcio che apriva gli orizzonti, sui due fotogrammi stilizzati: zombi e yuppies, droga e potere. Lo sguardo dovrebbe dirigersi dove i riflettori non illuminano, e scrutare dove sono assenti microfoni e telecamere. Scrutare i molti, quelli che sicuramente erano più numerosi della élite che li rappresentava, e che ancor oggi continua a parlare, ricordare, codificare, banalizzare e rinnegare.
Scrutare quelli che non hanno rinnegato nulla, perchè non c’era niente da rinnegare, né da biasimare, e che sono grati alla vita per aver attraversato la stagione in cui i sogni erano leciti, e si pretendeva l’impossibile. Lo Stato non si è estinto, ma nemmeno coloro che ritengono che il cambiamento sia una faccenda sempre all’ordine del giorno, coniugata al tempo presente.
Scrutare quelli che non si sono aggrappati al feticcio della barricata, che non hanno scambiato l’icona con la realtà; gli inconsolabili che continuano a credere che il presente non va sacrificato sull’altare di nessuna ideología. La vita non è un purgatorio per garantirsi l’accesso a paradisi diluiti nel futuro remoto.
La sfida era alta, e in ognuna si perde o si vince, o ci disperde. Poi gli smarriti, i disertori e i disincantati, ma anche quelli che hanno continuato a esplorare e a mettersi in gioco. Il diritto di parola sul ’68, sinora è appartenuto a quelli che sono riusciti a smentire persino il savoiardo Cavour: sbirri precoci, nonostante a 18 anni siano stati rivoluzionari.
Ne scrivono quanti hanno trasbordato – senza periodo di transizione – dal disincanto al cinismo, per farsi esporre sugli scaffali della politica e fruire la seduzione sguaiata della merce in vetrina, in tutte le Ámsterdam della passione rimasta insepolta.
E’ tempo che si esprimano quelli che, dopo aver divelto i pavé, non avendo
trovato la spiaggia, hanno continuato a desiderarla. Non era già bell’e pronta? Forse no, ma continuano ancora a cercarla. Contro il 2001.