di Valerio Evangelisti
“Carmilla” è fatta da redattori diversi, autonomi fra loro, e con visioni differenti. Così può capitare che un redattore pubblichi articoli non condivisi da un altro. Senza scomuniche né espulsioni, in quel caso potranno aversi repliche all’interno dello stesso sito.
Personalmente, non avrei pubblicato stralci dal libro Contro il ’68, di Alessandro Bertante. Per carità, conosco Bertante ed è persona dabbene (idem per il firmatario della prefazione, Marco Philopat). Se ho ben capito, da pochi stralci pescati in rete, Bertante se la prende con gli intellettuali di punta che, emersi dal ’68, successivamente si riciclarono e presero la testa dei mezzi di comunicazione. Fin qui posso essere d’accordo. Il compagno Guy Hocquenguem, purtroppo deceduto, dedicò ai sessantottini francesi rinnegati un pamphlet spettacolare (Lettre ouverte à ceux qui sont passés du col Mao au Rotary), più volte ristampato. I Finkielkraut, i Kouchner, i Bruckner francesi potrebbero benissimo essere gli Adriano Sofri, i Gad Lerner e gli “Straccio” italiani. Sessantottini finiti altrove, ma con il vezzo di parlare.
Dove non seguo Bertante è quando limita la sua invettiva agli intellettuali, e a una minoranza tra essi. Come se il ’68 fosse stato un fatto solo studentesco, limitato a qualche università. Sono spiacente, fu molto di più. Anzitutto fu un fatto internazionale. Sul ’68 influirono la morte del Che e la rivoluzione culturale cinese. Vi furono, accanto al ’68 italiano, uno francese, uno tedesco, uno spagnolo, uno messicano, uno argentino ecc. Persino uno palestinese.
E poi, in Italia, fu un fatto operaio, anzitutto. Altrimenti non si spiegherebbe il ’69. Se poi si aggiunge surrettiziamente il ’77, quello fu tutt’altro. Una rivolta principalmente di precari, molto simili a quelli di oggi.
Per far comprendere la faccia reale del ’68 riporto un brano da Valerio Evangelisti, Salvatore Sechi, L’autunno caldo: l’offensiva della classe operaia, in AA. VV., “Storia della società italiana”, vol. XXIV, Teti Editore, 1991 (il testo che cito è solo mio).
D’accordo, in un pamphert come quello di Bertante, lodevolmente indirizzato contro il neoliberismo e la vigliaccheria di certi intellettuali, non si pretende documentazione. Però un minimo di conoscenza storica sì, sennò cosa si parla a fare?
Confido. Bertante è molto più lucido di certo Da Empoli (Giuliano? non ricordo il nome), a suo tempo pompato da tutti i media per avere evidenziato un conflitto non di classe, ma generazionale. Attualmente questo da Empoli scrive sociologia divulgativa, tipo Severgnini. Bertante merita un destino migliore. (Sono state soppresse le note)
L’ORGANIZZAZIONE DELLA SPONTANEITA’
Nei primi mesi del 1968 i moti di insofferenza e di insubordinazione che, pur contenuti e disorganici, si erano sporadicamente manifestati nelle fabbriche fin dall’inizio del decennio cominciano a precisarsi e a distendersi in una serie di azioni di lotta. In febbraio uno sciopero di tre giorni alla Pirelli vede una partecipazione operaia talmente compatta da sorprendere e turbare gli stessi sindacati. In marzo uno sciopero generale sul problema delle pensioni è sorretto da mobilitazione inattesa per estensione e per intensità. Tra marzo e aprile scioperi a oltranza, accompagnati da picchettaggi, infrangono la pace sociale all’ Autobianchi, all’Ercole Marel1i, alla Magneti Marelli e all’Innocenti di Milano, stabilimenti in cui la presenza sindacale era tradizionalmente priva di incisività. Nello stesso periodo scende in lotta la Marzotto di Valdagno, fabbrica a gestione paternalistica, collegata a una comunità operaia votata al culto della dinastia tessile. Gli operai affrontano la polizia davanti ai cancelli, dilagano in città, si congiungono al resto della popolazione e per ore sfogano la loro rabbia sui simboli del precedente asservimento (facendo a pezzi, tra l’altro, l’effigie benevolente del fondatore).
Quasi contemporaneamente alla Fiat, regno di «anime morte», una vertenza aziendale viene gestita dalla nuova leva operaia con inedita durezza, ponendo le basi per l’ingresso in fabbrica di gruppi di estrema sinistra fino ad allora a predominante composizione studentesca.
Analoghi momenti di scontro si verificano nel corso dell’anno in tutti i maggiori centri industriali. Tra tutti, il più gravido di anticipazioni sulle caratteristiche del biennio successivo è quello che, dall’autunno in poi, vede ancora una volta protagonisti gli operai della Pirel1i. La frettolosa chiusura dello sciopero di febbraio è accolta con un diffuso malcontento, che non tarda a tradursi in una serie di di fermate di reparto improvvise e devastanti. Al centro delle rivendicazioni operaie è la limitazione del cottimo, e in prospettiva la sua abolizione, quale supremo strumento di costrizione a produrre. Arma di lotta, e al tempo stesso suo obiettivo, è l’autodeterminazione dei ritmi.
(…)
C’è di più. Il giovane proletariato {alla Pirelli sono state effettuate duemila nuove assunzioni nell’arco di due anni) contrappone alla razionalizzazione dei metodi produttivi la razionalizzazione delle forme di conflitto, cercando i punti deboli dell’organizzazione aziendale e sferrando i propri colpi là dove il danno è minimo per gli operai e massimo per il padrone. Lo sciopero prevedibile e programmato, attuato dopo essere passato al vaglio delle centrali sindacali, perde importanza, mentre la conflittualità diffusa diviene il modo “normale” di stare in fabbrica. L’estraneità all’azienda e ai suoi fini raggiunge livelli tangibili ed estremizzati.
Nascono, dapprima collateralmente e poi contro i sindacati, i Comitati unitari di base, diretta espressione della volontà operaia di autogestire le vertenze. La loro incidenza raggiungerà i massimi livelli nella primavera-estate del 1969, quando ben pochi saranno i grandi complessi industriali del Settentrione privi al loro interno di organismi di massa extrasindacali. E’ curioso osservare come gli elementi su cui riposano la forza e la capacità d’attrazione dei Cub siano gli stessi che ne rappresentano la sostanziale fragilità e che, a partire dalla seconda metà del 1969, ne determinano il crollo. Sorgendo dalla base ed essendo estranei a ogni forma di istituzionalizzazione, i Cub riescono a muoversi con estrema duttilità entro la fabbrica, cogliendo reparto per reparto e squadra per squadra le istanze collettive e persino individuali, fino a condensarle in rivendicazioni globali e in articolazioni tattiche la cui stessa gestione (al di là quindi del risultato contrattuale) sposta i rapporti di potere a favore dei lavoratori. Non è un caso se i volantini dei Cub offrono spesso un quadro assai più dettagliato della condizione di fabbrica di quello offerto dalla pubblicistica sindacale e di partito.
Tuttavia – e qui è il limite fatale dell’esperienza – i Cub finiscono per attribuire alle lotte fabbrica per fabbrica un valore strategico globale, senza riuscire a cogliere pienamente i nessi che uniscono operaio e condizione operaia, azienda e territorio, tempo di lavoro e tempo libero. La stessa unità operai-studenti che i comitati perseguono, non essendo per lo più basata su precise analisi sociali ma su mere considerazioni politiche (gli uni al servizio degli altri, o gli uni in posizione di guida rispetto agli altri), non sfocia in una fuoriuscita dai cancelli, ma anzi in una più stretta chiusura entro gli stessi. E poiché all’interno della fabbrica il momento della risoluzione delle vertenze è saldamente in pugno alle rappresentanze sindacali, i Cub devono limitarsi a un’opera di pungolamento e di sollecitazione, agendo sulla quotidianità senza poter gestire il lungo periodo.
Finiranno con l’appoggiarsi al supporto non sempre disinteressato di alcune organizzazioni extraparlamentari, mentre altre organizzazioni (Lotta Continua in particolar modo) preferiranno scavalcarli assumendo in proprio compiti a un tempo politici e sindacali.