[Pubblichiamo un capitolo del romanzo Rogo di Giacomo Sartori, in uscita per l’editore Carta Canta, Forlì 2015, pag. 192 € 11,90. Il testo è preceduto da una introduzione scritta dall’autore per Carmilla. Sartori vive a Trento e a Parigi ed è redattore di Nazione Indiana.]
[Intro] Ho sempre scritto su cose che non sapevo. Forse proprio per impararle, per sondare nelle parole gli abissi che non sospettavo, e che invece erano lì che mi aspettavano, immobili e ialini come larve addormentate. Mi confrontavo con quei mostri che finivano per soggiogarmi, facendomi capire che erano parte essenziale del mio essere più profondo, sfidandomi a battermi per capirci qualcosa. Ogni narrazione si rivelava un viaggio non più procrastinabile in me stesso, una rischiosa esplorazione. Non scrivevo di me, ma si trattava pur sempre delle mie fondamenta. E certo allora si può dire che racconto anche per mettere ordine in me stesso, per inventariare e archiviare i relitti degli scatoloni (virtuali) del mio fondo personale. Un casellario in fieri affastellato di rimandi e connessioni che beninteso è solo un lenitivo, perché più mi armo di conoscenze e sistemi più mi perdo. Ma che mi permette pur sempre di continuare a vivere.
Ho scritto per lo più storie di donne, credo perché non le ho mai davvero capite (a cominciare dall’essere femminile che è in me), forse sotto la maschera dell’ammirazione non le ho mai davvero accettate. Sono spesso partito da vicende reali, per poi allontanarmene, per essere trascinato in plaghe sconosciute che si rivelavano essere ben circoscritti nuclei incandescenti, bocche di vulcani, soglie di prove iniziatiche. In genere c’erano eventi cruenti, ma appunto erano solo lo sfogo di superficie di forze abissali, per certi versi epifenomeni, sui quali non dovevo soffermarmi più di tanto. Mi è capitato con la morte di mio padre, la quale mi ha trascinato mio malgrado a documentarmi sul fascismo. Al fascismo che è anche in me e negli italiani, e che è prima di tutto un rapporto malato con le emozioni, e conflitto con la femminilità. Mi è successo con alcuni casi di omicidio, con il loro corredo di follia, malessere e dolore. Il fattaccio pubblico ogni volta si sfilacciava, diventava richiamo segnaletico per ritrovare le vicissitudini di individui intenti a spiegare a se stessi quello che succedeva loro, a arginare l’assurdità della propria esistenza. Queste vicende di sudore e sangue si svolgevano in genere nei fondovalle delle montagne alpine, nel grigio della pioggia, con odori di muschi e di pietra fredda, ravvivando legami che pensavo estinti e che invece permangono.
Per quest’ultimo romanzo il nucleo di cristallizzazione è stato l’omicidio di un figlio assurto a drammone nazionale, e che ho cercato di riscrivere con i miei mezzi. S’è rivelata una falsa partenza. Tutto era stato detto e mostrato, e certo la mole di letture specialistiche che avevo fatto erano confluite in una grammatica troppo rigida, troppo deterministica. Credevo quindi che si trattasse di uno dei tanti testi morti prima di vedere la luce. Anni dopo il mio progetto è stato invece resuscitato da un altro figlicidio, avvenuto nella regione dalla quale si è originato – come un cancro ineluttabile – il mio dispatrio. Un evento di una sordidezza domestica, quotidiana, in un quadro agiato e legato alla cultura, e proprio per questo enigmatico, incomprensibile. Ma anche esemplare, per certi versi necessario. Questa volta era pronto, e avevo tutte le armi che mi servivano. Si trattava dei sobborghi della mia adolescenza, degli orizzonti sbarrati dalle pareti di roccia, delle notti intrise di umido vegetale e di odore di asfalto, di quelle tipologie di persone burbere e orgogliose che non sono riuscito a dimenticare: non potevo non metterci mano. Nel frattempo si erano peraltro innestate altre due storie, una germinata dai documenti sui processi alle streghe nelle valli più interne, in piena Controriforma, e una di invenzione, che cova e esplode alla fine degli anni settanta, con tutta l’efferata follia di quel periodo di sogni e ingenuità (su questo non avevo bisogno di documentarmi).
In ognuna delle tre vicende c’è quello sconvolgimento che vivono le donne nel diventare madri. Quella rivoluzione che ci presentiamo come felice e istintiva, e che invece nasconde in genere insidie e sofferenze, e qualche volta diventa discesa negli inferi e calvario. In qualche caso mortale, perché le ansie e le fissazioni della madre non lasciano spazio all’essere vivente che piange e vorrebbe farsi un posto nel mondo. E certo i legami tra le tre epoche non erano solo razionali, come dimostrava anche il tessuto esoterico che le univa nella narrazione. Anche questa volta scrivere è stato esaltante, e anche doloroso. Si trattava come sempre di evacuare dalle frasi tutti i loro significati correnti, di torcere la lingua costringendola a parlare in un altro modo, tra fruscii di umori corporei e echi di spazi senza ossigeno. Ma forse scrivere non è la parola giusta, perché pure questa volta è stata una farragine di letture, riflessioni, tuffi in me stesso, e appunto lunghe distillazioni nel corso di quell’atto di incredibile concentrazione che chiamiamo scrivere. Quell’attività solitaria che è appunto pensiero e sintonia con le sensazioni, ma anche soprattutto ascolto, traduzione di rivelazioni in linee di parole con una loro verità e una loro grazia. Parole uscite dal mio cervello ma che sono anche degli altri, o forse soprattutto degli altri, e quindi a loro devono tornare.
[Rogo]
ottobre 1627
La Gheta è ormai un cumulo informe di carne. Ha la testa affossata nel collo, come risucchiata dal torace, e i piedi ruotati all’interno. Nel bugigattolo trasformato in cella si guarda attorno come una bestia ferita, una bestia morente. Ansima.
Quando le guardie la sollevano da terra per trascinarla in tribu¬nale geme e si contorce. Dei lamenti brevi e molto acuti che fanno pensare ai versi notturni in una foresta. Vedendola in sogno Lucil¬la sente quello che prova, sente che i supplizi nelle varie parti del suo corpo voluminoso si fondono in un bruciore diffuso, un unico strazio che le ottunde la mente. Qualcosa in quella fiera anziana si rifiuta però di gettare la spugna, si aggrappa a quel mozzicone di vita che le resta. Nella sua esistenza ha aiutato tante persone, le sembra impossibile che adesso nessuno aiuti lei. E che anzi debba pagare perché ha aiutato gli altri. Qualcuno finirà per darmi una mano, si dice.
Il giudice Jakob von Kolz decide di appenderla di nuovo: vuo¬le che parli ancora. Ha confessato che è stata lei a provocare la tempesta che ha distrutto la segale e le patate l’anno precedente, ha ammesso di essere una medichessa, e che sbarazzava le don¬ne gravide usando le erbe, adesso deve riconoscere anche il resto. Deve confessare che il suo figlioletto non è morto per caso: lo ha ucciso lei.
Ordina quindi di sollevarla di nuovo con la corda, ma senza pesi. È evidente a tutti che morirebbe subito, con i pesi. Non deve morire, deve prima parlare. Al limite potrà crepare nella sua cella, raggomitolata per terra, come ha fatto la Dorotea Zompa, non lì davanti a tutti. È però meglio che muoia durante l’esecuzione. Il Principe Vescovo Cristoforo Madruzzo lo ha scritto nero su bian¬co: non vede di buon occhio che troppi imputati decedano duran¬te il processo. Troppi morti, ha scritto.
Appena la legano la Gheta biascica che lei voleva molto bene al suo figlioletto. Era bello come un vitellino, e buono come un ange¬lo del cielo. Erano le voci che lo facevano piangere sempre. Le voci lo infastidivano e gli facevano paura, gli impedivano di dormire. E gli davano pizzicotti sui polmoni e all’interno delle cosce, povera creatura, facendolo contorcere nella culla. Parla sempre più velo¬cemente, come lottando contro il tempo.
Quando la sollevano i suoi lamenti lacerano le orecchie e fan¬no fremere la schiena: non sono parole umane, sono vibrazioni sonore che grondano sofferenza animale. Ma riesce pur sempre a spiegare che le voci tormentavano anche lei. Le dicevano che do¬veva far smettere suo figlio di piangere, che era lei la responsabile se non la piantava. Nello stesso tempo facevano strillare lui e ri¬versavano su di lei la colpa dei suoi strilli. Lei però non le ascoltava quelle voci. Suo figlio è morto perché s’è soffocato sotto il cuscino, lei non gli ha fatto del male. Non avrebbe potuto torcergli un ca¬pello, bello com’era.
Lucilla naturalmente non è presente, trattandosi di quattro secoli prima, ma vede tutto in sogno, stesa accanto a Caramella, muta anche nel sonno. Ogni settimana, o quasi, il sogno riprende da dove s’era interrotto la volta prima. Notte dopo notte si susse¬guono le varie sedute del processo, gli spezzoni di quel calvario: è come se la sua guida avesse deciso di aprirsi completamente a lei, adesso che sta meglio, adesso che comincia a pensare a quello che farà quando uscirà dal penitenziario. Quella donna martirizzata vuole mostrarle che anche a lei è successa quella cosa terribile, vuo¬le dirle che anche lei potrà aiutare gli altri, ma non deve aspettarsi niente in cambio.