Pierfrancesco Majorino – L’eterno giovedì – Baldini Castoldi Dalai – € 16
Dopo l’esordio folgorante di Dopo i lampi vengono gli abeti, Pierfrancesco Majorino non stabilizza per nulla, anzi dissesta al parossismo, la sua forza prosastica: una narrazione memoriale e politica, fantastica e realistica, una capacità di fare deflagrare bombe lessicali, una prosodia e un ritmo trascinanti, nel raccontare una vicenda che copre più di un secolo – tutto il Novecento, fino agli anni Sessanta del nuovo millennio. E’ un a ricerca della memoria del passato e (per dirla con Bion) del futuro, Proust in quarto smontato e rimontato con personalissima visionarietà, compressa come il carburo nei barattoli che esplodevano durante la guerra. Uno scavalcamento reciproco tra passato e futuro, che soltanto apparentemente si configura come saga familiare: è la storia e il modo in cui alla storia può guardare la narrazione contemporanea.
La trama è praticamente impossibile da descrivere, se non a grandi linee. In un futuro prossimo, italiano e occidentale, tecnocratico, orwelliano, affollato di masse diseredate, Riccardo cerca di ricostruire, per ragioni esattamente riconducibili ai meccanismi di 1984, la propria vicenda familiare. Dopo decenni avere abbandonato il padre da decenni, diventato padre egli stesso, recupera il genitore, Vincenzo, vedovo, solo, nei giorni in cui un incredibile, debordante (anche nel senso delle mobilitazioni debordiane) e allucinogeno sciopero mette a dura prova le istituzioni vigenti, un sistema di intreccio tra controllo poliziesco e sottosviluppo imposto che sembra uscito dalle pagine di Foucault. Vincenzo è il collettore di una storia familiare che si dipana, per derive e accavallamenti, a partire dal fulcro della morte, nel secolo precedente della piccola Josephine, mentre personaggi auratici ed eroici, antifascisti memorabili, gente che viene da fuori, strutture familiari di fronte a cui i DICO si sbriciolano – un teatro umano amplissimo e parlante, insomma, muove storie affascinanti, connesse in una rete magnetica: di questa rete, di questa tela, il lettore diventa mosca.
I personaggi sono tutti una porzione irrinunciabile di memoria collettiva. Padre Alvarez, nonno del protagonista, raccoglitore di profughi e clandestini, inseminatore che dà continuità a una stirpe di cui Gregorio, in fuga dalla guerra civile spagnola e in fuga poi anche dalle ramificazioni nere del conflitto mondiale a piedi da Milano fino a Ginevra passando le Alpi, insieme a Pedro, grande regista di reportage rivoluzionari e realistici, sono i poli maschili di questo romanzo che poteva continuare all’infinito, nel suo concatenare storie a storie; Manuela, Eleonora, Cristina, la stessa piccola Josephine a cui sarà intestata una villa che somiglia alla casa in decadenza dei Buendìa a Macondo (e infatti il titolo originale di Cent’anni di solitudine era La casa), sono il polo femminile del libro – motrici e matrici di ulteriori vicende, di continui spostamenti di destino, dove il secolo passato appare per scorci decisivi e potentemente allegorici: conflitti, boom, povertà, rivoluzione – potenze della storia che si ritrovano intatte nella narrazione di un presente/futuro in crescita prevedibile nell’area che, fino a oggi e credo non per molto, si è definita “avanzata” o “sviluppata”.
I ragionamenti da compiere su questo romanzo sorprendente per forza vibratile e struttura innovativa sono essenzialmente due. Il primo riguarda la forma. Possiamo definire L’eterno giovedì un romanzo storico? O un romanzo fantascientifico? E’ indubbio che tutto il Novecento e il nostro oggi ci appare, fulmineamente, davanti. Nessun fondale di cartapesta, con storie in deriva che servono a fare rimbalzare lo sguardo del lettore su quello sfondo. Tutti noi italiani siamo quella storia, tutti i racconti dei nostri nonni e dei nostri genitori sembrano coagularsi nella saga e negli scorci di mondo che Pierfrancesco Majorino [a destra] dinamicizza in maniera fotografica, sì, ma di un fotografo che scatta impazzito le sue istantanee, attraversando un secolo e più. Il progresso di una società, l’occidentale, viene qui dimostrato come uguale al presente attuale, il che in effetti è, contro l’ideologia oggi trionfante che isola elementi come fossero unicum nella storia umana: le migrazioni, i conflitti, i rapporti incrociati, le famiglie non ortodossamente borghesi e dunque in conformazione impazzita e incerta. La solita storia dell’umano: l’universale scontro tra bene e male umano, tra necessità e libertà di scelta, tra eroismo e pavidità. E, anziché scegliere il passo lento della saga, questo archivio familiare immenso viene compresso in 250 pagine, con una sapienza compositiva che non fa perdere nulla alla leggibilità eppure stravolge ogni legge del mémoire, ogni protocollo del romanzo socio-familiare, mantenendo intatti e pulsanti i nuclei della potenza stessa della vicenda, e cioè il politico e l’emotivo, la Storia e le sottostorie. Il romanzo è sorprendente per questa velocità che non impedisce di seguire l’arabesco, che di scena in scena sorprende, anche grazie a una ricchezza di fonti che, più che studiate, sono effettivamente sentite come proprie dall’autore (penso soprattutto alla mutuazione da Antifascismo e Resistenza. Niguarda e dintorni dal 1921 al 1945 di Masi e Allori).
Questa compressione formidabile è mantenuta sotto controllo narrativo da una cifra che era evidente già nell’esordio di PF Majorino: si tratta di una lingua espressiva più che espressionista, cruda fino alla violenza, che cerca lo scarto praticamente a ogni frase, densa di immagini e di accostamenti lessicali inediti e sorprendenti, di battute folgorantemente gnomiche, di umorismo e sarcasmo che dovrebbero uscire dalla bocca e dalla penna di chi ha vissuto ben più dei 34 anni che ha l’autore. Lingua e immagini sono la medesima entità, la medesima violenza tesa a strappare, dal tendaggio dei cliché della memoria, il brandello di realtà che sanguina, indviduando la breccia attraverso cui passare:
“Il raggio di un sole fresco mi ha accecato gli occhi. Sono caduto disteso mentre i soldati si guardavano attorno e ho trascinato il corpo oltre la corriera posteggiata nello spiazzo per arrivare all’imbocco del canale. I tubi del motore cadono per terra e mi graffiano sul petto e le tubature sono strette, bagnate e scure.
La fogna è un fiume di topi che cercano le mie parole, ho i topi in bocca e morirò di colera.
La collera del fumo attraversa l’aria verso l’alto. C’è una casa che brucia e un vecchio bambino che piange davanti e sta sdraiato a terra a imprecare, scoprirò anni dopo in un libro di uno scienziato che si tratta di sindrome di Matusalemme, quella che fa invecchiare la carne, anticipandone l’estinzione.
E’ una paratassi che è identica all’ipotassi, è un accavallarsi di metafore che coincidono col reale (i topi cercano le parole del fuggiasco e subito la metafora è superata dal dato fisiologico: i topi sono in bocca e causeranno un contagio di colera), microspostamenti (il vecchio bambino che impreca: è uno di quei bambini che invecchiano precocemente e impreca, quando i bambini non imprecano – ci si sposta dal fisiologico all’emotivo, con un salto immediato), scene contratte in frasi (il semplice movimento di nascondimento sotto la corriera dovrebbe essere chiarito, espanso, secondo norme romanzesche che sono ormai a pezzi, come il motore della corriera stessa). L’autore de L’eterno giovedì cerca il corpo a corpo con la lingua, che è lingua d’immagini: ed è un corpo a corpo che significa conflitto e, contemporaneamente, amplesso. Proprio questo atteggiamento, che funziona per accelerazione di sistole e diastole ritmico-linguistiche, dà agio a Majorino di accavallare iperbolicamente immagini che sono azioni e di contrarre la saga in un diorama che si vede istantaneamente. E’ un passo in avanti notevole per chiunque approcci un genere, quello storico memoriale, che ormai non tiene più.
Questo atto di violenza e pietà, poiché L’eterno giovedì è un cantico all’umano che promana violenza e pietà, è una militanza indispensabile quando si affronta, tanto più oggi, la scrittura che avoca a sé i residui di un’aura politica, non massimalista, bensì totale nella rappresentazione del mondo. La declinazione panica del sentimento della natura (le pagine finali della fuga di Gregorio per le montagne, questo percorso irto di abrasioni da roccia scabra e profumato di resina di sempreverde, sono semplicemente indimenticabili) è al pari intensa della visione della metropoli e dei suoi labirinti e delle sue maglie larghe o rotte, da cui promana il lerciume che salva (il mitologico scantinato di Padre Alvarez, trasformato in cava buia e a sua volta labirintica, che accoglie profughi di ogni specie e nazionalità, ne è l’emblema più memorabile). Majorino, come in tempi sospetti, vuole tutto dalla propria scrittura e ottiene tutto con uno slancio che lo conduce ai confini, a una migrazione interna per strappi immaginali, spesso lirici, altrettanto spesso narrativo-sociologici, tutti comunque fulminei, lampi veritativi che segnano la memoria del lettore, incantano, commuovono, indignano. E’ una sommossa: è la sommossa della letteratura, coincidente con la sommossa continua che è la materia stessa del racconto.
Solitamente bisogna diffidare dei secondi libri di un autore: l’autore stesso affronta il secondo libro con mano più tremula, perché più autogiudicantesi, rispetto a quanto accaduto all’esordio. Non è il caso de L’eterno giovedì e, direi, di Pierfrancesco Majorino, che sta scalando una vetta molto diversa da quelle a cui guardano scrittori tesi all’istituzionale del genere consolidato. La progressione di Majorino mi pare inarrestabile, la sua crescita continua e violenta: bisogna seguire la sua scrittura, la sua capacità di creare aggregati in espansione di storie di storie, la sua mitopoiesi che è comunitaria e idiosincratica – segno certo che sta toccando universali umani, sta toccando nell’intimo tutti i lettori.