di Mauro Gervasini
Le vite degli altri e The Good Shepherd – L’ombra del potere. Due film che in modi differenti riflettono sul medesimo tema: lo spionaggio. Non solo inteso come pratica di un apparato organizzato (Stasi, Cia) ma come funzionalizzazione di un sistema delatorio e mistificatore che ha la stessa finalità sia in un regime totalitario (la DDR di Le vite degli altri) sia in uno capitalistico-democratico (gli Usa di The Good Shepherd). Vale a dire il mantenimento dell’ordine costituito e del potere di chi ne gestisce il controllo.
Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmark racconta la storia di un alto funzionario della Stasi, Wiesler, chiamato a spiare un drammaturgo apparentemente organico al regime, Dreyman, in realtà molto invidiato dal ministro della cultura che vorrebbe toglierlo di mezzo per poi dedicarsi alla sua prim’attrice, nonché amante, Christa-Maria Sieland.
L’integerrimo Wiesler matura però una decisa empatia ideale con il controllato fino a falsificare le prove che lo condannerebbero all’interdizione e alla prigione. The Good Shepherd di Robert De Niro (scritto insieme allo sceneggiatore di Munich, Eric Roth) è invece la cronaca a ritroso della nascita della Cia (si comincia dal flop della Baia dei Porci e si retrocede per flashback fino all’inizio della Seconda guerra mondiale). La formazione dell’agenzia d’intelligence americana è vissuta attraverso gli occhi di uno dei suoi più alti funzionari, Edward Wilson, la cui storia personale fatalmente va a intrecciarsi con quella più occulta del Paese.
C’è un’interessante differenza tra i due film. In Le vite degli altri lo spionaggio e le pratiche annesse, come la delazione, sono istituzionalizzate. Non sono segrete in sé perché connaturate ad uno stato di polizia, tanto da essere materia scolastica o funzione ufficiale della burocrazia. Il rigido schema esistenziale che permette a Wiesler di essere la migliore tra le spie salta per aria (in modo troppo repentino) solo quando entra in contatto con un mondo privato, quello del drammaturgo, ricco di sfaccettature sentimentali, quasi una pièce teatrale, un mélo cinematografico o un reality televisivo. La cosa importante è che la spia si realizzi nel guardare, nell’essere spettatore: non vuole necessariamente fare parte di quel mondo, non invidia Dreyman come il ministro, all’inizio non sono motivazioni morali a fargli coprire il sospettato: solo la preservazione e la continuazione dello “show”, contano.
Lo spionaggio di The Good Shepherd è di tutt’altra natura. È segreto in sé perché uno stato di diritto, almeno ufficialmente, non può istituzionalizzare la delazione e il controllo occulto (il Patriot Act, lo sappiamo, contraddice il principio). Le ripercussioni della pratica spionistica si riflettono prima sul privato dei controllori che su quello dei controllati. Mogli, figli, parenti devono essere tenuti all’oscuro di tutto. Al contrario della DDR di Le vite degli altri, dove il servizio segreto ha una scala gerarchica ma è socialmente allargato (come dimostra la bella sequenza della mensa), quello americano del film di De Niro è un sistema di classe, chiuso «agli ebrei e ai negri e possibilmente con pochi cattolici» come afferma il generale interpretato dallo stesso regista. Ma il sospetto, o meglio la certezza, è che le pratiche dell’organizzazione, gli intrallazzi dei singoli membri, debbano essere segreti ai vertici stessi dello Stato. Di fatto un corpo collaterale ma estraneo all’istituzione democratica. Il personaggio che si ritaglia De Niro, nel momento in cui prevede un seppur effimero “controllo” civile della Cia, contro l’opinione dello stesso Wilson, denuncia l’ambiguità stessa dell’organizzazione, necessaria per far fronte alla Guerra fredda ma contraddittoria verso i principi costituzionali.
La cosa davvero riuscita di The Good Shepherd è il modo in cui l’ambiguità della segretezza viene declinata in senso tragico. Se il primo lavoro di De Niro regista, Bronx (1994), era un evidente omaggio al maestro originario, Martin Scorsese, ora è al suo secondo riferimento, Francis Ford Coppola, peraltro produttore esecutivo, che si guarda con insistenza. In questo senso il film riflette su un nucleo primario della società, l’istituzione politico-militare (quale per definizione è la Cia) così come nel Padrino parte seconda si ragionava sulla famiglia. Vista come modello, in quel caso criminale, di organizzazione delle relazioni sociali ed economiche, quindi politiche.
Le analogie tra le due opere sono molte, in particolare è simile la deriva dei due protagonisti, Michael Corleone e Wilson. Entrambi partiti da motivazioni idealistiche (l’appartenenza americana prima della famiglia di matrice italiana per Michael; l’interesse dello Stato prima della Cia per Edward) e poi travolti dalle ragioni di “casta” e dal meccanismo compulsivo del potere. Entrambi arriveranno a perdere definitivamente l’innocenza tradendo per interposta persona se stessi. Corleone farà ammazzare il fratello, Wilson la moglie del figlio il giorno delle nozze.
Dove i due personaggi si smarcano è nella morale della favola. Il primo infatti è già di per sé figura tragica votata al male, quindi anche l’apice di empietà ha una sua coerenza ontologica. Il secondo, invece, si presuppone funzionario del bene, quindi il suo rinunciare all’etica, ci dicono De Niro e Roth, sottolinea drammaticamente l’ambiguità del ruolo e dell’istituzione. Se Wilson è vittima di se stesso, non lo sarà il popolo americano della Cia e l’idea di democrazia della sua esigenza di segretezza?