di Monica Mazzitelli
Addis Abeba è una città speciale e contagiosa, istilla un ritmo di vita che veloce si inocula e poi ti resta lì, dove non l’hai messo.
Non è una cartolina africana; è un mondo a parte, con cose uniche e splendide che non trovi altrove, e situazioni che danno fastidio. Una città tropicale in quota, dolcezza solare di giorno e freddo di notte, soprattutto se stai sotto una lamiera e poi piove. Qui ci sono i mesi delle piogge. Il clima dopo El Niño ha perso un paio di venerdì e a volte l’acqua travolge tutto. Ora no, è novembre e la pioggia è finita. Ho una settimana da passare qui, per lavoro.
Le strade di Addis Abeba sono piene di giovani ragazzi e ragazze con occhi fondenti e pelle al latte, un po’ timidi. Alcuni ce l’hanno quasi fatta, hanno stipendi da 150 dollari al mese. Ci tengono a non passare per poveracci, si vestono di conseguenza e a volte sono un po’ pacchiani. Stanno tutti a smanettare con cellulari dalle suonerie pop, comprati tramite amici che sono riusciti a andare a Dubai a fare un carico di una ventina di pezzi, venduti poi a 30 dollari l’uno.
30 dollari sono una bella cifra qui. Woubit li guadagna in un mese. Woubit ha finito solo le elementari e vive con una famiglia benestante ma non ricca, facendo la governante/cuoca/sguattera/sarta/baby sitter tutti i giorni della settimana giorno e notte. Non che la sua prestazione serva per 24 ore, i suoi padroni per fortuna escono e dormono. Ma dovesse servire, lei è a disposizione. Finché la figlia dei padroni era piccola toccava a Woubit alzarsi quando piangeva, poi magari dormiva qualche oretta di giorno, se non serviva altro. Ogni tanto va a trovare sua madre. Padroni gentili. È stata da sua madre quando le hanno trovato un cancro al seno. Con delle erbe le hanno fatto il taglio, con altre erbe le hanno tolto il tumore, e ora è fasciata. Non capisco come funzioni questa cosa delle erbe che fanno il taglio, ma orrore e disgusto mi bloccano la lingua e non chiedo di più. Meglio non sapere di queste pratiche mediche perché verrebbe voglia di bruciare tutto, sterilizzare, affidarsi a tavoli operatori gelidi su sfondo di camici turchese scuro che impensierirebbero Woubit, la spaventerebbero ancora più a morte. I padroni gentili le danno poco da fare in questi giorni di convalescenza dall’“operazione”. Sta lì a mangiare e dormire come sempre, con i suoi 30 dollari mensili comunque pagati, nonostante faccia poco; la vedo con le braccia conserte sulla sedia di cucina a guardare la zuppa che bolle. Padroni gentili. Legata alla casa come una lumaca con la chiocciola, per soli 30 dollari al mese. Meglio dell’altro servo di casa, il guardiano, che dorme dentro il garage, su una rete arrugginita. Di giorno la richiude e la appoggia al muro, che non dia fastidio, con accanto il materasso arrotolato, tenuto fermo con uno spago. Ha un suo angolo, dove tiene qualche cianfrusaglia in un armadietto e in un piccolo cartone. Se lo dividono il garage, lui e la macchina del padrone. Il suo compito è aprire e chiudere il cancello, badare al giardino, ma soprattutto fare la guardia alla casa, Melampo.
Sempre meglio che vivere per strada, dicono loro; e così dicono anche i loro padroni.
130 dollari, in Costa d’Avorio. Me lo dice una donna di Abidjan con occhi da cerbiatta e portamento da regina, la donna più bella che abbia mai visto. Lì gli schiavi di casa costano di più, ma è tutto proporzionato a stipendi e costo della vita. Credo che lei prenda sui 450 dollari al mese, cioè ha un buon lavoro, e anche il marito, insegnante. Chissà come curano il cancro le chiocciole-schiave ivoriane.
Qui 130 dollari invece sono già quasi status. Cellulari e suonerie pop. Gennet mi invita a prendere un aperitivo. È il caffè più cool di Addis, mi dice. C’è una folla così, mi dice. Le propongo di arrivarci a piedi al locale, ho voglia di sgranchirmi un po’ le gambe. Le indico una scorciatoia, che immagino meno piena del traffico asfissiante delle arterie principali. In effetti è una strada in costruzione: tutta la strada. Il manto stradale, le fogne, i palazzi. Giganteschi quasi-edifici di cemento scurissimo, colossei color antracite, con intorno aggrappate palizzate di lunghi bastoni di eucalipto, l’albero che cresce alla velocità della luce, impoverendo mortalmente il suolo in cui radica. Lo consuma, lo corrode, ma la richiesta di legname è fortissima e lo stanno piantando ovunque tutto intorno alla città, con frenesia. Ponteggi di eucalipto aggrappati ai colossei neri, inutili teli bianchi sfilacciati lassi al vento, ed omini senza nessuna protezione che ci si arrampicano, formiche su King Kong, a un soffio dal cadere. Piccoli omini che si muovono lenti, equilibristi della morte bianca. Braccia tolte dalla strada, soggetti smarriti da chissà dove che nessuno reclamerà, funzionali alla richiesta esplosa di immobili. Chi può costruisce o compra, tanto che si fa fatica a trovare anche il cemento, mentre la città si allarga senza un piano e senza risorse, con le strade piene di buche. Le foto della Roma primi anni ’50, con ragazzini sfrontati e straccioni.
Arriviamo al caffè. Non è così pieno, Gennet è un po’ imbarazzata. Ma ci sono quasi una decina di camerieri e cameriere con l’aria un po’ svampita, con addosso una brutta divisa beige. Chiedo a Gennet quanto guadagnano. Le pare sui 30 dollari, più le mance. Ma le mance sono basse in Etiopia, bassissime! Eh già, fa lei.
Siamo sedute a un tavolo esterno, sulla strada. Sto bevendo un succo tropicale denso come un purè, e a un tratto mi rendo conto che al contrario di tutte le altre volte in cui sono stata a Addis Abeba, questa volta non c’è quasi nessun bambino che chiede l’elemosina per strada. L’ultima volta sarebbe stato impossibile prendere un tavolo all’aperto, o camminare per i marciapiedi. Andare a piedi era come muoversi in un branco di pesciolini. Pesciolini affamati e straccioni con visi da foto missionaria, scivolati in città come palline di un flipper nella buca. Belli e fastidiosi, ti sbattono la coscienza in faccia anche se sei uno che ogni tanto se la candeggia. Gennet non sa dirmi nulla dei bambini spariti, la vedo in difficoltà, questo argomento non le piace. Ma mi ricordo quella limousine bianca che avevo visto al mio arrivo all’aeroporto, inutilmente lunga, come due macchine e mezzo attaccate. Ne ho vista una anche a New York una volta. Scivolava sulla quinta come su una rotaia, Moby Dick che guadagnava il Plaza, immacolata e altera come il cero della processione. Era impossibile non notarla. Ma all’aeroporto di Addis era di più: una scogliera pulita come la neve sullo sfondo di taxi laceri in sosta, lamiere rugginose di vetuste FIAT anni sessanta coi segni di mille percosse, le portiere che si sbloccano tirando un fil di ferro, se si aprono ancora. Un pugno nell’occhio del viso lacero del mondo. L’avevo notata la limousine. Allora ho chiesto ancora, a un amico: dove sono finiti tutti i bambini di Addis Abeba? E mi ha spiegato della visita ufficiale del tal capo di stato africano. A tutti gli straccioni era stato detto di farsi più in là, di andarsene un po’ in periferia per qualche giorno, che era meglio per loro, che i finestrini neri della limo non erano scuri abbastanza da proteggere l’orgoglio governativo. La polizia aveva saputo trovare le parole e il branco era scodinzolato via, per qualche giorno.
Per quello dunque c’erano anche i federali in giro, a tenere sgombre le strade… I federali sono quelli in mimetica, mi dice il mio amico, non quelli con la divisa blu scuro che vedi di solito. È la prima volta che li vedo, dico. Infatti, si vedono solo nelle occasioni importanti. Quando li vedi vuol dire che è meglio stare alla larga. Cattivi da far scappare i bambini di strada cenciosi, quelli che se gli va bene qualcuno prima o poi li farà prigionieri a casa sua, per 30 dollari al mese.
Le foto di questo articolo sono di Gianni Faluomo