di Mauro Baldrati
Esodo, di Dio – Antiche Edizioni Bibliche, probabilmente Giudea, circa VI secolo a.C. – a cura di Gian Ruggero Manzoni, Raffaelli Editore, Rimini 2010, pagine 280, € 10
Secondo alcune teorie la redazione di Esodo, il grande libro della Torah ebraica, è stata completata intorno al VI secolo a.C. in ebraico antico, poi tradotto in greco antico e quindi in ebraico moderno. Sarebbe stato scritto da un pool di autori ignoti che hanno assemblato storie, leggende, tradizioni orali che provenivano da varie zone delle terre mediorientali, mesopotamiche, babilonesi, egiziane, greche. Ma, un’altra teoria sostiene che Esodo sia stato scritto sotto ispirazione di Dio, che ha guidato la mano e la mente del suo redattore, o dei suoi redattori; oppure, secondo una terza teoria diciamo ancora meno laica, Esodo sarebbe stato scritto direttamente da Dio, che quindi ha fatto di Sé un autore in prima persona.
Noi, considerando le tematiche narrative, ma soprattutto lo stile, le tecniche del racconto, insomma, la natura stessa della narrazione, propendiamo decisamente per l’ultima ipotesi. Esodo è un’opera straordinaria, di grande potenza narrativa, che anticipa tutte le moderne tecniche del romanzo, in particolare del romanzo storico e di fantascienza. E sinceramente dubitiamo che, considerando i tempi e i luoghi, una persona “normale”, un umano, abbia potuto calarsi fino a tal punto della mente e nella personalità di Dio, con tutti i filtri narrativi del caso; insomma, solo Lui, solo Dio in persona può avere rappresentato Se stesso in quel mondo: scrivendo un romanzo.
Il Suo romanzo. Che diventerà un super bestseller.
Esodo narra la storia della grande migrazione degli Ebrei dall’Egitto verso la terra che lo stesso Jahvè aveva promesso, in tempi molto antichi, ai patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe. Israele, questo il nome che fu dato a quella terra, aveva i confini dal Mar Rosso fino al “Mare dei Filistei” (identificati con gli antichi palestinesi), cioè il Mare Mediterraneo, e dal deserto del Sinai fino al fiume Giordano. Tutta la prima parte del romanzo spiega, con grande chiarezza, i motivi che avevano spinto il faraone, nel XII secolo a.C. (tradizionalmente identificato con Ramses II, 1279-1212 a.C.), a imprimere un “giro di vite” nei confronti degli Ebrei: stavano diventando troppo numerosi e potenti, il rischio era che si sostituissero addirittura agli stessi egiziani. Così ordinò una enorme strage degli innocenti: tutti i primogeniti degli Ebrei dovevano essere sterminati. Ma uno si salvò. Un bambino sfuggì alla strage, perché fu abbandonato dalla madre in un cesto di giunchi sul fiume Nilo. E qui la raffinatezza narrativa di Dio (diciamo pure la malizia) già emerge superba: la figlia del faraone trova il cesto, riconosce immediatamente l’origine ebraica del bambino (non sappiamo perché: forse i caratteri somatici?) ma si commuove, lo protegge. Allora la sorella del bambino, che era nascosta tra i cespugli, si fa avanti e chiede alla principessa se deve chiamare una balia per nutrirlo. La principessa acconsente, il bambino crescerà sotto la sua personale protezione. La ragazza va a chiamare la madre, che sarà la sua balia. Quindi, un complesso meccanismo ne farà “Il salvato dalle acque” che potrà godere del nutrimento e della cura della sua vera madre.
Poi, come sappiamo anche dal film I dieci comandamenti, Mosè diventa un uomo importante in Egitto, una sorta di spin doctor dello stesso faraone. E qui molti studiosi concordano sulla verosimiglianza di questi eventi: ammesso che effettivamente gli Ebrei fossero presenti in massa in Egitto (cosa non incontrovertibilmente dimostrata), erano in realtà gli appartenenti di un popolo libero: lavoravano come salariati, possedevano case e terre proprie, pare addirittura che godessero del diritto di sciopero. Questo, per esempio, è uno dei policentri della pentalogia Ramses di Christian Jacq. Alcuni di loro potevano anche salire ai massimi livelli della gerarchia egiziana. Ma l’autore ha tutti i diritti di mescolare e rimescolare le carte, di piegare ai suoi scopi la realtà, perché è un’altra forma di realtà quella che sta narrando: forse più reale della realtà stessa, perché sottoposta al filtro letterario, alla ricerca della verità. Così gli Ebrei, nel romanzo, sono stati ridotti in schiavitù, sotto la sferza crudele degli egiziani. Dio, l’Autore che spesso parla in prima persona con dialoghi diretti, ha deciso di liberarli, per condurli alla terra promessa. Lo elegge come Suo popolo, il popolo che lo serva, che lo adori e lo celebri su tutta la Terra. Questo sembrerebbe, infatti, lo scopo dell’Autore: affermare, con forza apocalittica, la propria onnipotenza. E, di nuovo, la finezza narrativa del primo grande prosatore della storia entra in azione: sceglie Mosè, che nel frattempo è fuggito dall’Egitto perché ha ucciso un egiziano che maltrattava un ebreo, come suo portavoce e plenipotenziario. Ma c’è un problema, che potremmo definire ironico, in un testo arcigno, completamente privo di ogni forma di ironia o sarcasmo: Mosè non sa parlare bene, è un oratore scarso, si impappina (e di questo Dio ne terrà conto quando gli chiederà di parlare agli Ebrei, a esodo avvenuto: dirai con parole tue, oppure con voce tua; insomma, sembra dire Dio, fa’ quello che puoi), per cui sarà il fratello Aronne (che diventerà il primo sacerdote di Israele, colui che indosserà la primissima versione della veste sacra, l’elegantissimo e sgargiante efod) a parlare per lui col faraone. Quindi abbiamo Dio che parla attraverso Mosè il quale parla attraverso Aronne. Insomma, potremmo sostenere che il più antico dei grandi scrittori di narrativa abbia inventato, 2700 anni fa, il principio di sussidiarietà!
Iniziano le missioni del duo presso il faraone, che nel frattempo è cambiato (ora è subentrato il figlio di Ramses, Merenptah), che avanza sempre la stessa richiesta: lascia libero il Popolo di Israele, perché possa andare nel deserto e adorare L’Onnipotente, il Liberatore, Colui che è, Colui che sarà, Colui che parla ai prescelti (sono solo alcuni dei nomi dell’Autore, che ha in grande considerazione il concetto stesso di “nome” come identità, come memoria, e di nuovo si rivela un acuto precursore letterario). Ma la situazione non è così semplice. Pur essendo, Esodo, un grande romanzo di genere, l’Autore non si tira indietro quando si tratta di mandare segnali “forti”. Non manca di coraggio quando fa entrare in campo la psicologia: rivela che sarà Lui stesso, Dio, a “indurire” il cuore del faraone perché neghi il permesso. Potrebbe fare il contrario coi suoi poteri, potrebbe obbligare telepaticamente il faraone a concederlo, invece lo obbliga a rifiutarlo. Perché? Non cessa di stupirci, l’Autore. Nel cap. 9 c’è forse la spiegazione più esaustiva (che verrà più volte ripetuta): “Se fin dal principio io avessi steso la mia mano destra (la mano che agisce, la mano pura è sempre la destra ndr) per colpire te e il tuo popolo con la morte, sareste ormai cancellati dal mondo, invece vi ho lasciato vivere per dimostrare a te e alla tua gente la mia potenza e per manifestare il mio nome perché esso riecheggi su tutta la terra.”
Dimostrare a te e alla tua gente la mia potenza. Ora, qui non vogliamo in alcun modo urtare la sensibilità di chi si sente devoto di una religione, che merita il massimo rispetto. Però in quanto lettori laici, come sempre devono essere i lettori, ci sentiamo in diritto di considerare le parole per quello che sono, e non secondo i complicatissimi simbolismi attribuiti dagli esegeti e dai sacerdoti a quelle stesse parole. Più volte Jahvè rivela una volontà incrollabile di affermare la propria onnipotenza: “Dimostrerò la mia grandezza al faraone e a tutto il suo esercito, così gli Egiziani sapranno che sono l’Unico e l’Invincibile!” (cap.14).
Verrebbe da chiedersi: un Dio megalomane? Oppure un Dio insicuro? Tra l’altro la liberazione degli Ebrei dalla schiavitù non avviene per la schiavitù stessa, che è prevista nel testo. Non possiamo certo definire Dio un uomo del suo tempo, perché tale non è; però è un autore del suo tempo, con le sue regole, le sue usanze. E la schiavitù in sé non è assolutamente un problema. Quando gli Ebrei sono quasi arrivati alla meta, Dio scrive decine e decine di pagine di regole, scendendo nei particolari con una meticolosità kerouchiana e una cura dei dettagli che lascia stupefatti. Redige anche elenchi, di nuovo anticipando una certa moda letteraria dei giorni nostri. E sulla schiavitù, detta le norme nel cap. 21: “Se ella (la schiava ndr) non piacerà al padrone, così che questi non la prenderà come concubina, il padrone la potrà cedere a un altro; comunque egli non potrà venderla a gente straniera, agendo con frode verso di lei, perché gli Ebrei saranno solo schiavi agli Ebrei; se però il padrone la vorrà dare come concubina al proprio figlio, si comporterà nei confronti della donna secondo il diritto che hanno le figlie, cioè il non giacere col padre.”
Affermazioni di onnipotenza, minacce, anatemi, lapidazioni, stragi, pestilenze, invasioni di cavallette e di mosconi, pidocchi, apparizioni apocalittiche di Dio tra lampi e terremoti, il Mar Rosso che si apre in una delle scene di fantascienza più famose della storia, schiavitù, sacrifici, sangue che scorre: sembra di intuire una volontà molto precisa tra le pieghe della narrazione, di molto superiore alle banali considerazioni sulla megalomania e sull’istinto di superpotenza. Sembra quasi che Dio, nel suo romanzo, voglia applicare una delle intuizioni di William Burroughs, sempreché lo stesso Burroughs non si sia ispirato proprio alla complessità letteraria del più antico autore di romanzi della storia: vale a dire che la scrittura fa accadere le cose. Le fa realizzare. Le completa. Rende più reale la realtà, che spesso è involuta, fallita, incerta e disseminata di errori. La scrittura la perfeziona, la rende conforme alle aspettative.
E quindi torniamo alla nostra domanda: perché?
Perché Dio rende superbo il faraone, in modo che rifiuti il permesso dell’esodo e quindi possa scatenare le dieci terribili piaghe?
Un’ipotesi affascinante – del tutto arbitraria, sia chiaro – è che Dio, in tempi antichi, più o meno durante l’era dorata di Ramses II, abbia sostenuto una guerra, molto dura, coi suoi dei. E’ probabile che l’esito sia stato incerto, perché gli dei egiziani erano a loro volta molto potenti, e quindi la guerra per il predominio non si sia conclusa con una vittoria certa. Le piaghe, per esempio, potrebbero essere state neutralizzate proprio dall’intervento degli dei egizi. E’ possibile che Dio sia stato costretto a ridimensionare le sue mire, ridefinire al ribasso il suo progetto di dominio assoluto sul grande impero egiziano. Quindi, ha dovuto ricorrere alla letteratura per fare accadere ciò che doveva accadere, ma non è accaduto. Oppure è accaduto in modo imperfetto. Così ha creato il “suo” popolo, che lo serve, lo adora, rispetta le regole da lui dettate. Un popolo che una volta arrivato alla terra promessa scaccerà i popoli che la abitano, uccidendoli se si oppongono, distruggendo tutti i loro simboli e i templi, la memoria, impedendo ai suoi figli di sposare le figlie degli altri, e di negare ogni credibilità ai loro falsi dei, pena la morte. Perché Lui, Dio, è Geloso, il Dio Geloso (cap. 34).
Insomma, è arrivato con la scrittura là dove non ha potuto farlo con le azioni e i prodigi.
Il che è proprio una delle prerogative della letteratura, uno dei suoi diritti.
Anche per questo dobbiamo ringraziarlo.
Sì, dobbiamo ringraziare Dio per essersi cimentato in questa formidabile avventura letteraria, che ha spalancato le porte a infinite potenzialità del meschino e limitato uomo di raccontare se stesso e le proprie avventure.
E di essere, in fondo, nel suo piccolo, grande.
[Immagini: due quadri di Guido Reni (1575-1642) e Il passaggio del Mar Rosso di Cosimo Rosselli (1439-1507)]