di Andrea Spotti
Se non si fossero ribellati, incrociando le braccia e bloccando l’autostrada che collega la Baja California agli Stati Uniti, i braccianti della valle di San Quintín, al sud del municipio di Ensenada, avrebbero continuato ad essere invisibili: uomini, donne (e bambini) usa-e-getta, senza diritti né voce, in balia della mano invisibile del mercato. Una voce invece ce l’hanno, e l’hanno fatta sentire forte e chiaro lo scorso 17 marzo, con una mobilitazione che ha sorpreso governo, forze dell’ordine e impresari del settore, squarciando il velo di silenzio sulla condizione di semichiavitù che i braccianti stagionali sono costretti a vivere nell’estremo nord del Messico e non solo, e che sta alla base degli ampi margini di profitto che ottengono le imprese nazionali e straniere che investono nella regione. La valle di San Quintín è tra le più importanti del Paese per volume di esportazione e numero di lavoratori. È formata da sei paesi (Punta Colonet, Camalú, Vicente Guerrero, Lázaro Cárdenas, El Rosario e San Quintín) e si trova a circa 300 km da Ensenada. I principali prodotti della valle sono il pomodoro e la fragola, ma vi si coltivano anche zucchine, cetrioli, cipolle, asparagi e frutti di bosco. L’80% della produzione si esporta negli Stati Uniti per un mercato che genera centinaia di milioni di dollari all’anno.
Il conflitto è scoppiato alle tre del mattino di martedì 17 marzo, quando migliaia di contadini sono entrati in sciopero piazzando decine di barricate, fatte di pali, pietre e pneumatici in fiamme, sulla più importante via di comunicazione della penisola bajacaliforniana; la sola connessione esistente tra le città di La Paz, Baja California Sud, e Tijuana, Baja California, nonché la principale porta di accesso al mercato statunitense per frutta e ortaggi prodotti in loco. Lanciata giusto all’inizio delle redditizie raccolte di fragola e pomodoro dall’Alianza de Organizaciones Nacional, Estatal y Municipal por la Justicia Social (AONEMJUS), costutita nei mesi scorsi dai jornaleros (“lavoratori giornalieri”) della valle, la mobilitazione è stata un successo, una dimostrazione di forza che non ha precedenti negli ultimi decenni. L‘adesione allo sciopero e ai blocchi è stata massiccia e determinata. Più della metà dei 70mila braccianti presenti nella valle ha partecipato alla protesta, paralizzando, dall’inizio della mobilitazione fino a mezzogiorno di giovedì 19, non solo il lavoro nei campi ma anche buona parte delle normali attività economiche e amministrative della zona a sud di Ensenada.
Oltre ad aver impedito il passaggio dei 300 trailer che quotidianamente esportano le merci verso i grandi magazzini USA, il blocco ha infatti provocato la chiusura di centri commerciali, ristoranti, banche, scuole, uffici pubblici e distributori di benzina. In più, stando a quanto dichiarato alla stampa da Marco Antonio Estudillo a nome degli impresari della valle, le due settimane di sciopero hanno causato perdite tra gli 80 e i 100 milioni di dollari. Dopo 26 ore di blocco della circolazione, il governo statale guidato da Francisco Vega, del destrorso Partido de Acción Nacional (PAN), con il pretesto di alcuni casi di saccheggio a negozi e distributori, ha dato il via alla repressione. Questa si è inizialmente sviluppata durante la nottata del 18 marzo, con la polizia statale attiva in una serie di retate nei domicili di diversi braccianti e in una caccia all’uomo che ha prodotto l’arresto di 30 persone. Successivamente, alla fine di una giornata di mobilitazione, conclusasi di fronte al Centro di Governo di San Quintín per chiedere la liberazione degli stagionali arrestati e malmenati nelle ore precedenti, la polizia statale, la federale e l’esercito hanno caricato duramente i manifestanti, allontanandoli dalla sede dell’amministrazione locale a suon di manganelli, proiettili di gomma, gas lacrimogeni sparati ad altezza uomo e colpi d’arma da fuoco. Il bilancio finale è stato di 170 arresti, per un totale di 200 detenuti con accuse di vandalismo, danneggiamenti, ostruzione alle vie di comunicazione e furto.
Per quanto sia stata descritta come spontanea, la protesta è partita dopo mesi in cui i rappresentanti dell’Alianza hanno inutilmente cercato di riaprire un confronto con il governo statale e gli impresari del settore, raggrupati nell’Asociación Agricultores Baja California, dopo il fallimento delle negoziazioni dell’ottobre e del gennaio scorsi, durante le quali le richieste dei braccianti furono ignorate. Il 13 marzo, inoltre, i lavoratori avevano avvisato la popolazione locale perché potesse organizzarsi in vista dell’imminente blocco della circolazione.
Alla radice del conflitto stanno le inumane condizioni di sfruttamento vigenti nelle agroindustrie della valle, all’interno delle quali i braccianti lavorano fino a 16 ore al giorno per un salario di 120 pesos (tra i 7 e gli 8 euro), congelato dal ‘94 grazie all’accordo firmato dalla Confederación de Trabajadores de México (CTM) e dalla Confederación Revolucionaria de Obreros Mexicanos (CROM), sindacati complici delle imprese e considerati come una controparte in più dai lavoratori mobilitati. La stragrande maggioranza dei jornaleros lavora senza contratto né sicurezza sociale. I maltrattamenti da parte dei caporali sono all’ordine del giorno, e, nel caso delle donne, che rappresentano il 45% dei lavoratori, molestie e violenze sessuali sono costanti. I braccianti denunciano inoltre lo sfruttamento del lavoro minorile da parte delle agroindustrie in questione, dove adulti e bambini lavorano a contatto diretto con le sostanze tossiche presenti in funghicidi, pesticidi e fertilizzanti senza nessun tipo di protezione.
Insalubre è anche la loro condizione abitativa. I braccianti vivono in piccole abitazioni precarie costruite con legno e lamiera sui terreni dell’impresa, e pertanto sono esposti ai veleni degli agrochimici anche al di fuori dell’orario di lavoro. Il più delle volte, inoltre, non hanno nemmeno accesso a servizi elementari come acqua, gas, luce, e drenaggio. Al contrario di vegetali e ortaggi, per i quali acqua, risorse e tecnologia si sprecano.
In particolare, sono 12 le imprese accusate di usare metodi schiavistici, tra queste spiccano le transnazionali Driscoll e BerryMex, e le aziende Los Pinos e Rancho Valladolid, di propietà, rispettivamente, dell’ex assessore al Fomento Agropecuario dello stato, Antonio Rodríguez, e dell’attuale, Manuel Valladolid. Altri propietari, hanno raccontato i braccianti, fanno in realtà da prestanome per impresari di diverse nazionalità: argentini, cileni e arabi, ma soprattutto statunitensi, attratti a sud del Rio Bravo dal ridottisimo costo del lavoro e dalla tolleranza delle autorità messicane – che spesso e volentieri diventa complicità – rispetto agli abusi nei confronti dei contadini o dell’ambiente.
Gli uomini e le donne che stanno portando avanti la vertenza sono soprattutto contadini e indigeni provenienti dagli stati più poveri del Paese e diretti verso nord perché espulsi dai loro territori a causa di trent’anni di politiche economiche neoliberiste che hanno profondamente indebolito l’agricoltura messicana, colpendo modo in particolare i villaggi e le comunità indigene. Nella maggioranza dei casi si tratta di indios di etnia mixteca e triqui originari degli stati di Oaxaca e Guerrero. Senza entrate sufficienti per tornare a casa alla fine delle stagioni, molti di loro hanno costruito nel corso degli anni delle piccole comunità ai margini dei campi su cui lavorano, all’interno delle quali hanno iniziato ad organizzarsi secondo i metodi e le forme proprie dei popoli indigeni di cui sono parte, tanto è vero che la consistenza organizzativa dell’attuale movimento si fonda più sull’elemento etnico che su quello propriamente sindacale.
Molte delle richieste dei lavoratori e delle lavoratrici in lotta sarebbero già previste dalla Legge Federale del Lavoro, la quale però viene sistematicamente violata dalle imprese della zona. Il primo punto consiste nella revoca del contratto stipulato da CTM e CROM con l’Associazione degli Agricoltori, seguito dall’affiliazione all’Istituto Mexicano del Seguro Social (IMMS) e dal pagamento di straordinari e contributi. L’organizzazione dei braccianti esige inoltre il diritto al giorno di riposo settimanale e alla retribuzione dei giorni festivi, la fine dei maltrattamenti e delle molestie sessuali, per le quali si domanda un castigo, nonché il diritto alla maternità retribuita e alla libertà sindacale. Infine, per quanto riguarda il salario, i braccianti rivendicano inizialmente un aumento di 300 pesos (circa 18 euro) per i lavoratori di tutta la regione.
Uno dei primi risultati della mobilitazione è stato costringere padronato e amministrazione locale a sedersi ad un tavolo e a negoziare con i portavoce dell’Alianza, riconoscendoli di fatto come rappresentanti dei contadini. Durante il dialogo, accompagnato da una costante mobilitazione, i braccianti sono riusciti ad ottenere il riconoscimento del giorno di riposo settimanale, l’affiliazione all’IMMS e il pagamento dei contributi, nonché la liberazione di quasi tutti i dentenuti (ne restano in carcere ancora 14, accusati di furto). Le trattative si sono però arenate sul salario. Ai 300 pesos richiesti dai braccianti, scesi in seguito a 200, i rappresentanti delle aziende hanno risposto con una proposta di aumento prima del 6, poi del 10 ed infine del 15%, cioè di circa 1 euro. A questo punto, il 31 marzo scorso, le negoziazioni sono state interrotte.
Riprenderanno il prossimo 24 aprile con la partecipazione del governo centrale, attraverso la Secretaría de Gobernación (Ministero degli Interni), dopo una serie di mobilitazioni portate avanti dai braccianti per combattere la campagna di padronato e governo locale, che dava per risolto il conflitto e soddisfatti gli scontenti, e per riaprire le trattative sull’aumento salariale. Tra queste vanno segnalate la grande marcia del 25 marzo, durante la quale 10mila contadini hanno percorso i 20 km che dividono Vicente Guerrero da San Quintín; la carovana che dal 28 al 30 marzo ha toccato le principali località della Baja California per concludersi nella capitale Mexicali; e l’imponente mobilitazione binazionale del 10 aprile, anniversario dell’omicidio del rivoluzionario Emiliano Zapata, nel corso della quale si sono tenute manifestazioni da entrambi i lati della frontiera, e sindacati, associazioni e gruppi solidali con i jornaleros hanno iniziato il boicottaggio delle aziende che si arricchiscono sulla loro pelle.
In questo senso, uno degli elementi di forza e d’interesse del movimento sta senz’altro nella sua natura binazionale, la quale è determinata da diversi fattori. Innanzitutto, dal fatto che i braccianti che lavorano negli Stati Uniti hanno spesso la stessa provenienza di quelli di San Quintín, il che ha facilitato la nascita di relazioni e vincoli solidali. È il caso, per esempio, della comunità dei cosidetti oaxacalifornianos, ossia di migranti dello stato di Oaxaca, che, come parte dei braccianti di San Quintín, si sono insediati definitivamente in California senza per questo abbandonare le proprie tradizioni e identità indigene. Qui hanno costruito comunità e organizzazioni come il Frente Indígena de Organizaciones Binacionales (FIOB), nato nel 1991, che conta 300mila aderenti e sta sostenendo attivamente la lotta degli stagionali. Secondariamente, perché alcuni dei portavoce del movimento, come Fidel Sánchez, Justino Herrera e Eloy Fernández, si sono formati come attivisti partecipando da migranti alle lotte contadine statunitensi. Infine, la lotta è binazionale perché la produzione ortofrutticola di Ensenada è destinata al mercado degli Stati Uniti, il che significa che anche il nemico è comune, e che le azioni di bicottaggio potranno avere una grande importanza per il futuro della vertenza.
Oltre al FIOB, l’Alianza de Organizaciones ha incassato la solidarietà, tra le altre, dell’AFL-CIO, la più grande federazione sindacale degli USA, e della United Farm Workers, importante organizzazione di lavoratori agricoli. In Messico, invece, hanno solidarizzato con la sua causa la guerriglia dell’EZLN, la Sección 22 del SNTE-CNTE, combattivo sindicato dei docenti, nonché le diverse organizzazioni sociali e sindacali che il 18 aprile si sono riunite con la delegazione di lavoratori giunta a Città del Messico per incontrare un gruppo di deputati, il presidente della Commissione Nazionale dei Diritti Umani e il sindaco della capitale Miguel Ángel Mancera.
A differenza di sindaco e deputati, verosimilmente interessati ai braccianti per i voti che potrebbero rappresentare alle elezioni che il prossimo 7 giugno rinnoveranno le camere a livello nazionale e locale, le organizzazioni partecipanti all’assemblea tenutasi nella capitale hanno deciso di sostenere concretamente la vertenza dei braccianti con iniziative contemporanee alla riapertura del tavolo in diversi stati della repubblica. Inoltre, le parole d’ordine dei lavoratori in lotta saranno riprese durante le mobilitazioni del primo maggio. La battaglia iniziata dall’Alianza ha messo sotto i riflettori la drammatica realtà dei lavoratori giornalieri nella valle di San Quintín, la quale, tuttavia non rappresenta affatto un’eccezione, né una novità. Le ragioni della protesta, infatti, sono le stesse che diedero origine a movimenti di protesta negli anni ‘80 e nella seconda metà dei ’90. Inoltre, nel 2003, la Procuraduría de los Derechos Humanos dello stato denunciò alle autorità la situazione dei braccianti in termini molto simili a quelli usati dai lavoratori per descrivere la loro condizione attuale, dal super-sfruttamento ai salari da fame, passando per il lavoro minorile e le molestie sessuali. La situazione dunque non è nuova e secondo uno studio della Red de Jornaleros Internos (rete di organizzazioni messicane e statunitensi per la difesa dei diritti umani), è diffusa in almeno 18 entità statali e coinvolge oltre 2 milioni di lavoratori, sottoposti alle medesime condizioni di lavoro e di esistenza degli stagionali di San Quintín.
Per chiudere va segnalato come la rivolta dei braccianti ci parli anche dei nefasti risultati ottenuti dalla politica liberoscambista fomentata in particolare a partire dalla firma del TLCAN (NAFTA), l’accordo che oltre vent’anni or sono eliminò qualsiasi ostacolo alla libera circolazione delle merci tra Canada, Messico e Stati Uniti e che ha causato effetti devastanti sull’agricoltura e più in generale sull’economia messicana, come hanno documentato diversi studi basati su dati governativi in occasione del ventennale del trattato. Sei milioni di persone hanno dovuto abbandonare i campi e sono stati persi quasi 5 milioni di posti di lavoro nel settore. Inoltre, sono drasticamente crollate le entrate dei contadini mentre sono cresciuti esponenzialmente i profitti per le agroindustrie. Nel corso di questi anni, infine, la camicia di forza rappresentata dal TLCAN ha spinto il Messico ad abbandonare la produzione nazionale in favore delle esportazioni, diventando uno dei principali stati ad importare alimenti e mettendo così a rischio la propria sovranità alimentare. Più in generale, contrariamente alle promesse di crescita, lavoro e benessere fatte dai suoi sostenitori, l’accordo ha contribuito in modo sostanziale a determinare l’aumento dello sfruttamento e della disuguaglianza, il fenomeno della migrazione di massa e la costante spoliazione di terra, territorio e risorse di cui sono vittime le comunità contadine e indigene, a tutto vantaggio delle imprese transnazionali e locali.