di Francesco Lato
Malcolm Braly, Ora d’aria, Tropea, 2006, pp. 319, € 17,50
Esiste, negli Stati Uniti, una cospicua tradizione di quella che potremmo chiamare letteratura carceraria, ovvero non solo scritta da detenuti, ma soprattutto scritta dentro le prigioni. Tralasciando gli scritti di carattere politico come quelli di George Jackson e i libri autobiografici — e palesemente intesi ad attirare l’attenzione sul proprio caso — come furono quelli, un tempo popolari e riproposti di recente, di Caryl Chessman, e volendo occuparci di vera e propria fiction, troviamo una nutrita pattuglia di scrittori, alcuni molto noti, da Chester Himes a Edward Bunker.
Spesso si tratta di autori di romanzi che oggi definiremmo thriller o noir, forse in ossequio alla massima di Hemingway per cui ognuno scrive di quel che sa. In particolare Bunker, scomparso lo scorso anno, sapeva di cosa scriveva quando fece uscire Animal Factory, paradigma ultimo del romanzo carcerario in quanto ambientato all’interno della prigione. Ci sono evidenti punti di contatto tra quel romanzo e questo Ora d’aria (titolo italiano non fedele ma efficace dello splendido, asciutto originale On the yard, Nel cortile) di Malcolm Braly. Ma qui cominciano le sorprese: il libro di Bunker è del 1977 ed è perciò posteriore di dieci anni esatti a Ora d’aria. L’ignoto Braly non è pertanto un emulo di Bunker ma un suo precursore, forse un modello. La seconda sorpresa è che, come spesso accade, il modello è rimasto insuperato.
Infatti mentre Bunker ha una struttura narrativa lineare, Braly adotta un procedere, per così dire, concentrico: i personaggi sono presentati man mano con pochi fulminanti flashback e ogni giro della spirale ci avvicina al fulcro della vicenda principale e alla sua violentissima soluzione. Mentre Bunker mostra improbabili pudicizie, Braly adotta una crudezza di linguaggio ben più realistica. Una perizia sorprendente in un scrittore autodidatta (lo so, tutti gli scrittori lo sono, ma non in quelle condizioni!)
Infine l’ultima sorpresa. Ora d’aria esce in Italia con enorme ritardo (sia lode a Tropea) né sembra aver suscitato grandi curiosità. Ma negli USA è considerato un classico, forse il miglior romanzo mai uscito dal carcere, raccolse al suo apparire gli apprezzamenti di gente come Capote, Mailer, Vonnegut e fu pure un bestseller. Con ragione.
Nutrito di personaggi come un romanzo ottocentesco, il libro finisce per concentrarsi su due in particolare: Paul, che sconta la pena per un delitto colposo come una sorta di redenzione e Chilly Willy, che a ventisei anni ha passato la maggior parte della vita dentro e che dovrebbe perciò avere un’esperienza limitata; e invece è una sorta di manager di San Quintino, esercitando il suo dominio attraverso un maniacale autocontrollo e il rifiuto di ogni forma di debolezza. Quanto siano illusori questi due atteggiamenti, il lettore lo scoprirà a sue spese nella catastrofe finale. Non svelo nulla, così dicendo: è evidente che non ci si può aspettare il lieto fine da un libro così.
Tra le abilità di Braly c’è anche l’assoluta mancanza di cupezza nonostante la materia trattata (anzi, c’è una notevole dose di ironia) e il riuscire a evitare il luogo comune del carcere come metafora del fuori o ancora peggio come location in qualche modo esotica. Viceversa, la prigione non è un’eccezione alla realtà quotidiana, ma è realtà ordinaria e per questo possiamo riconoscerla.
Lo sfortunato Braly (dopo mezza vita in galera, morì in un incidente d’auto poco più che cinquantenne) ha avuto buona fortuna in Francia, uscendo nella Série Noire, come Bunker. Non ci resta che sperare che, come per quest’ultimo, seguano presto altri titoli.