Ci sono libri in grado di aprire uno squarcio sul mondo e di fornire un’arma per affrontarlo. Come un’onda che scende e che sale è uno di questi. È il risultato del poderoso lavoro che ha occupato William T. Vollmann per diciassette anni e ha dato luogo a un’opera in sei volumi, ora editi in Italia in una versione ridotta dall’autore (Mondadori Strade Blu, traduzione G. Pannofino, € 22). Nel libro si ritrova la caratteristica attenzione di Vollmann per tutte quelle forme di vita altamente marginali e sacrificabili che lottano sanguinosamente per guadagnarsi un diritto alla sopravvivenza. Un tipo di umanità infima e impercettibile che così tanto assomiglia agli insetti di You Bright and Risen Angels, abitanti di territori estremi e devastati in cui l’autore compie periodicamente le sue sconvolgenti incursioni.
Sono prostitute, tossici, veterani del Vietnam, alcolisti, maniaci e skinhead, che popolano i suoi libri da Storie di farfalle a Puttane per gloria ai Racconti dell’arcobaleno. Questa volta però Vollmann osa un progetto grandioso e, mettendo al centro la sua ossessione per la violenza, ne tenta una tassonomia che sia prima di tutto un germe per la possibilità di una nuova etica.
Si tratta di un libro profondamente americano, che segna la distanza da ogni possibile modello europeo. Ciò che interessa all’autore non è scavare al fondo delle radici della violenza, scoprire se c’è un’altro livello sotto il primo, quanto piuttosto fornire un equipaggiamento morale che permetta di orientarsi nel mondo. Non tanto rappresentarlo quanto tracciare una cartografia, una mappa di relazioni. Vollmann non si stabilisce nei territori che esplora per costruirvi una struttura stabile, non intende fondare nessuna teoria, ma si limita a piantare una tenda in un territorio sconosciuto. È lui stesso a enunciare questo modo di procedere affermando di essere stato volutamente superficiale, di aver creato un’opera estesa più che profonda. E questo non è senza conseguenze nella struttura del libro. Formalmente Come un’onda che scende e che sale è suddiviso in due parti. La prima dove si analizzano i casi in cui la violenza è giustificata e si propone un’ipotesi per un calcolo morale completo. La seconda che presenta studi monografici dalle zone di guerra. In realtà però non c’è una vera e propria divisione interna, non ci sono capitoli organizzati in punti culminanti e terminali. Il libro è fatto piuttosto di blocchi contigui che comunicano l’uno con l’altro e procedono attraverso l’apertura di finestre che sono di volta in volta esplosioni e precipizi.
Vollmann in questo libro appare mosso da un’urgenza profondamente aristotelica: quella di suddividere e organizzare gli eventi naturali piuttosto che indagare le cause prime o le essenze. L’eccezionalità di quest’opera sta proprio nell’aver destituito il primato dell’analisi storico sociale della violenza, che da sempre ha condotto solamente a conclusioni teoriche e astratte, senza aver fornito nessun appoggio utilizzabile nell’agire morale. A Vollmann non interessa tanto collocare la violenza nel suo contesto storico e sociale, quanto piuttosto testimoniare degli eventi che accadono in superficie, e sono sempre i più deboli e pericolosi dal momento che nulla è più fragile della superficie. Attraverso una scrittura sempre colta e raffinata, fatta di metafore ricercate e rimandi disparati, Vollamann punta il suo sguardo non sul male, ma sulla violenza, nella sua natura più animalesca, istintiva e amorale. Al centro della narrazione che procede continuamente per esempi, e dove è la qualunquità dell’esempio a segnare una cifra stilistica, non ci sono dei soggetti di un’azione morale, ma semplicemente degli eventi che accadono: una granata che esplode, un corpo che viene sezionato, l’urlo di una ragazza aggredita, l’odore di morte come latte rancido vomito e aceto. E l’autore non racconta nulla, semplicemente descrive, compie delle esplorazioni in territori marginali per mettere alla prova i propri concetti. Vollmann in Come un’onda che scende e che sale non è nemmeno un autore, ma semplicemente un testimone perchè ciò che narra, quel resto che rimane quando all’uomo si toglie ogni umanità, è qualcosa che non può essere inserito in un architettura narrativa con un inizio e una fine, seguendo la logica di una struttura finzionale. Può essere solo testimoniato, esponendo il racconto stesso a un rischio che è quello della parola del testimone che può da un momento all’altro spezzarsi. Se a essere saltato su una mina in Bosnia non fosse stato l’amico Francis ma l’autore, questo libro sarebbe rimasto incompiuto.
È forse per questo che Vollmann non affronta mai la questione del male, che è sempre già il protagonista o l’antagonista delle grandi narrazioni, delle epiche che prevedono dei buoni e dei cattivi, dove ogni azione accade in relazione ad altre e ogni dettaglio è sempre funzionale alla struttura. La violenza invece è l’azione che rimane sempre imprevedibile e irriducuibile a uno schema finzionale, è l’evento che accade nell’esempio e non può essere racchiuso in nessun canone unicamente narrativo.
Vollmann, con il suo trattato, supera in un colpo l’opposizione fiction/reportage attraverso un modo di procedere per testimonianza diretta che non è mai considerata un fatto d’elezione, non è pura riproposizione giornalistica dei fatti ma nemmeno semplice rielaborazione narrativa. Vollmann mette fuori gioco questa opposizione proprio sul piano fragile e imprevedibile della violenza, che è sempre troppo marginale per essere inserita in una coerente struttura finzionale e nel contempo però viene testimoniata da un romanziere che non “traduce il discorso delle vittime ma lo inquadra, lasciandole parlare”. Per questo, forse, l’abilità del Vollmann scrittore è quella che lui stesso attribuisce a Lenin citando le parole di Trockij: “un’abilità nel visualizzare persone, oggetti ed eventi per quello che realmente sono anche se non li ha mai visti, combinare elementi colti al volo, corroborarli per implicite leggi di corrispondenza e probabilità e ricreare così un certo ambito della vita umana, in tutta la sua concreta realtà”.
Nella seconda parte dedicata agli studi sulla violenza Vollmann fa precedere le testimonianze unicamente da un’introduzione, senza che evidentemente ci sia mai una conclusione. I racconti hanno tutti gli elementi della cronaca di ciò che è reale, lo sguardo annotatore e distaccato del testimone, eppure ad accomunarli c’è un sottile spostamento dello sguardo, un’impercettibile deviazione allucinata che rende strani i gesti familiari e sposta le azioni in un tempo indefinitamente sospeso, lo stesso delle foto che, nel libro, si alternano alla scrittura.
Vollamann descrive Sarajevo: un uomo che corre nella canicola, un uccello in volo, del fumo che si alza, gente ferita, un tetto sfondato e un’improvvisa musica allegra, squillante, ragazzi e ragazze dell’esercito che cantano sull’attenti con il mitra spianato. Mostra un angolo polveroso di una città dello Yemen, con donne che fanno il bucato nel mare dove un tempo c’era un mercato, neonati che in braccio a sorelle maggiori tendono le manine verso il carro armato americano da cui vengono lanciate le razioni alimentari, bambini dalla faccia arancione, la pelle pulita e i vestiti sbiaditi e sporchi che osservano soldati perquisire un auto dove tutti i passeggeri tremano con le mani alzate. WTV si fa testimone ricettivo e sensibile di tutti questi eventi in cui la violenza, semplicemente, accade. E nonostante la grande empatia triste per le vittime, la sua scrittura, precisa e affilata come un’incisione chirurgica, non nasconde quanto egli rimanga affascinato dalla brutalità di una testa mozzata e un corpo torturato.
Vollmann non costruisce una finzione e nemmeno una cronaca fredda e distaccata. Come un’onda che scende e che sale, anticipando un metodo che continuerà nel suo libro successivo Poor People, ci mostra che a interessarlo non è la morale della storia ma la possibilità di una morale dell’azione. Così Vollmann nella sua estenuante opera dà voce all’intera poetica di una certa letteratura americana cui importa non tanto di rispondere alle questioni che solleva, ai paradossi a cui dà visibilità, ma di uscirne, di venirne fuori in qualche modo. E forse quello che Vollmann ci mostra, alla fine del suo tentativo estremo di categorizzazione, è l’impossibilità di dar conto interamente di un resto irriducibile che palpita nel cuore della violenza e non può essere inserito in nessuna giustificazione, non può essere compreso del tutto. Questo resto è ciò che anima la sua scrittura, come se dietro ogni racconto fosse sempre necessaria una morte o comunque un atto di violenza verso qualcuno o qualcosa di vivo, il sacrificio di una vittima che non può che essere innocente.
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