di Nevio Galeati
Un colpo secco. Gli storni si alzarono dagli alberi, il loro volo sembrava quello di uno sciame di vespe impazzite. Un altro. Nella palazzina che si affacciava sulla tangenziale un bambino si agitò nel sonno. I genitori continuarono a russare: il loro udito aveva memorizzato, assimilato e archiviato i primi spari dei cacciatori. Come a ogni inizio d’autunno.
Sangue e grumi di materia grigia avevano macchiato l’interno del parabrezza della Peugeot 305, il rivestimento dei sedili. La testa di Federico, crollata sul volante, era come scarnificata dalla rosa dei pallini. Antonia aveva perso gli occhi e un orecchio; respirava ancora, mentre il muco colava dal naso, incredibilmente intatto.
Non riusciva a sbloccare l’urlo che le si era inceppato nei polmoni, mentre tremava tentando di portare le mani al viso. Un freddo nuovo le arrivò alla gola. Pensò: mi stanno sgozzando. L’ultima scheggia di consapevolezza: cosa dirà mia madre quando mi troveranno in un’auto, senza slip? La vita le scivolò via come aveva fatto quell’indumento, così piccolo e ormai così inutile.
Il vecchio guardò i corpi abbracciati, si allontanò di un passo dalla carrozzeria velata d’umidità, mentre l’alba filtrava fra gli alberi della pineta. Sfregò la lama del coltello a serramanico sull’erba bagnata, dopo essersi accovacciato. Una rotula schioccò lanciando una fitta che attraversò tutta la gamba. Faticò ad alzarsi, ma ci riuscì senza aiutarsi con le mani. Le grosse scarpe da lavoro avevano lasciato larghe impronte sulla terra molle, accanto all’auto parcheggiata; confuse le tracce premendone i bordi con il calcio del fucile, strisciando le suole, calciando leggermente le zolle. Poi sputò contro la 305 e raggiunse la propria auto, parcheggiata sull’ultimo lembo frastagliato d’asfalto della strada che, in quel punto, tornava carraia. Rientrò in città mentre la domenica mattina iniziava a risvegliare la città. Il parassita che gli rodeva il petto sembrava acquietato; non si illuse che fosse sazio.
Sospirando per tentare di frenare la prima scarica di adrenalina della giornata, il dirigente della squadra mobile, Michele D’Arcangelo, terminò di sciacquare da un orecchio lo sbuffo di sapone da barba. Lasciò che il cellulare squillasse mentre si spruzzava sul viso il dopo barba. Poi si rassegnò.
– Sì.
– Dottore, giornata di merda. Abbiamo due morti. Ammazzati.
– Gigi, sei Gigi vero?, dove?
– Sì, sono io dottore. In una carraia fra la tangenziale e Ponte Nuovo. L’ispettore Lorillo dovrebbe essere sul posto. Stava per finire il turno…
L’ispettore Anna Pia Lorillo. Troppo carina per restare alle Volanti; troppo carina per restare in polizia, anche se l’aveva vista sempre e solo in divisa. O con maglioni, jeans e anfibi anche fuori servizio. Era sveglia, minuziosa, tosta. Si fidava di lei; gli sarebbe piaciuto averla alla Mobile.
– Chi c’è con lei?
– Ferri, anche lui smontante.
– Manda una macchina a prendermi. Vedi se riesci a svegliare Leoni e digli di raggiungermi.
– L’antidroga, dottore?
– Me ne fotto del reparto. Voglio lui. Gigi…
– Dottore…
– Come li hanno fatti fuori?
– Il cacciatore che ha dato l’allarme ha detto che hanno la faccia spappolata da una scarica di pallini.
– In che senso? Una sfiga di caccia?
– No, no: i due erano dentro a una macchina e…
– E… che cosa, Gigi?
– La ragazza ha la testa quasi staccata dal collo. Un taglio netto, ha detto il cacciatore.
– Mandami Santo, subito, e la scientifica. Chi c’è di turno in procura?
– Non ho controllato, ancora.
– Gigi, pensaci tu, io mi vesto.
Due morti. D’Arcangelo riassestò i pantaloni che continuavano a scendere; era dimagrito negli ultimi tempi. Poi indossò la giacca e il Barbour. Un uomo e una donna; in un’auto ferma quasi sotto l’argine dei Fiumi Uniti, una larga da cacciatori. Sentiva nelle ossa che sarebbe stata un’indagine difficile.
Era appena uscito dal porticato del vecchio condominio dove abitava, quando fu raggiunto da un’auto della mobile. Al volante vide Santo Leoni. Addentò il toscano, senza accenderlo, e sorrise.
– Dormi in questura, Santo?
– Buongiorno capo. Mi hanno beccato per radio. Stavo andando a fare un giro prima di entrare in servizio. C’è un po’ troppa coca in città, in ‘sti giorni.
– Invece ci tocca un omicidio in doppia copia.
– Ma non c’è Ratti per ‘ste cose?
– Ratti è un cretino, Santo. Lo avvisiamo dopo. Là ci aspetta la Lorillo, muoviamoci.
Santo Leoni si strofinò i baffi col dorso della mano, forse per nascondere un sorriso. Michele D’Arcangelo non aveva mai capito se Anna Pia piacesse a Santo. Sposato e fedelissimo, ma mica di legno. Di certo, sul lavoro si intendevano al volo. E, con una rogna come sembrava quella, le sintonie erano fondamentali. Alle 6 e 51 arrivarono in fondo alla carraia. Non c’erano ancora curiosi. Solo i suoi uomini, appena scostati da una Peugeot 305. Sceso dall’auto, mentre riscaldava l’estremità del sigaro con uno svedese, il capo della mobile notò il graffio violaceo sulla fiancata destra della vettura francese. Aspirò il fumo: all’aperto l’odore della morte si avvertiva solo quando si arrivava molto vicini alle vittime. La brezza che, spirando da est, aveva pulito l’aria dall’infezione della nebbia stava facendo il resto. Quasi si percepiva l’aroma del deodorante dell’ispettore Lorillo. Che gli si avvicinò, il viso stanco, gli occhi carichi di energia come sempre.
– Dottore, chiunque sia stato li voleva proprio morti. Non è un incidente. È una roba impressionante…
– E la ragazza è stata sgozzata?
– Sì. Da qualcuno che sa usare bene il coltello. Una bestia. Venga a vedere…
D’Arcangelo si strinse nelle spalle; prima di muoversi scrutò l’erba marcia per l’umidità, vide le strisce fangose di pneumatici sul tratto asfaltato della stradina.
– Cartucce, bossoli: Ferri, avete trovato qualcosa?
– Ancora no, dottore. E neppure impronte. La vedo brutta, se mi permette. Molto brutta.
Ferri aveva un’espressione da tonto. Forse per questo continuava a passare le notti al volante. In realtà non voleva complicazioni, preferiva inseguire scippatori che se la filavano in motorino; con buona probabilità di perderli nel labirinto del centro storico. Invece era inciampato su due cadaveri. Per fortuna che c’era la Lorillo. L’ispettore Lorillo.
D’Arcangelo si avvicinò all’auto: si fidava dei colleghi della scientifica, ma credeva ancora di più nelle sensazioni che l’ambiente riusciva qualche volta a dargli. Non ai livelli dell’amico Luca Corsini, investigatore privato con una spiccata propensione per la fantasia. Era in convalescenza, al caldo. Non ricordava dove. Gli avrebbe rimproverato di non aver mandato una cartolina.
Perché due giovani? Perché con un fucile da caccia? Scoprì che la gola aperta della ragazza lo inquietava meno dello strazio provocato dai pallini. Quel particolare gli ricordava qualcosa. Un animale ferito, che non può sopravvivere, l’acciaio che mette fine all’agonia. La postura dell’altro cadavere fece lampeggiare un’altra immagine. L’assassino era certo che l’uomo fosse rimasto ucciso dalla rosa di pallini? Sì. O meglio forse. Però non aveva infierito sul corpo ancora caldo. Doveva aspettare l’autopsia, ma era certo che chi aveva premuto il grilletto del fucile sperava che il giovane soffrisse di più.
– Chi sono? – chiese all’ispettore Lorillo.
– Non abbiamo toccato ancora niente. L’auto però è intestata a un certo Sacchetti Lucio, 27 anni, residente a Punta Marina Terme. Devo mandare un’auto ad avvisare i parenti?
– Aspettiamo la scientifica. Anzi, Ferri!, – D’Arcangelo alzò la voce – chiedi se dobbiamo penare ancora molto per i rilievi. Chiama con il cellulare, a quest’ora qualche giornalista è già sveglio e inizia ad ascoltare le nostre frequenze.
– Subito.
– E senti se il magistrato di turno si è alzato da letto.
Solo in quel momento si accorse dell’uomo che pestava i piedi una trentina di metri più lontano. Stava parlando al cellulare e con l’altra mano reggeva il fucile da caccia. Gli si avvicinò.
– Franca, ti ripeto: non so niente. Di sicuro faccio tardi. C’è la polizia, ma non ho ancora parlato con nessuno. Adesso ti saluto che uno sta venendo da me. Avvisa che faccio tardi. Ciao.
– Buongiorno. D’Arcangelo, responsabile della squadra mobile della questura. Ha trovato lei i due ragazzi?
– Piacere, Regnoli Paride. Sì. Ero là, vicino al rivale e ho sentito sparare. Credevo di essere da solo, qui, e sono venuto a vedere. Un macello, ho chiamato subito il 113.
Parlava in fretta, masticando le parole. Era pallido, sudato. Spiegò di essere rimasto sorpreso da quell’auto ferma in una zona aperta alla caccia.
– Poi ho pensato, guarda te dove sono venuti a scop… be’, sì a fare l’amore. Ma, mi sono detto, a quest’ora? Sì, d’accordo, questi benedetti ragazzi stanno in discoteca fino a mattina. Poi, dopo, ho anche pensato: va a finire che qualcuno è stato male. Così mi sono avvicinato. Dottore, non so come ho fatto a non vomitare.
D’Arcangelo continuava a guardare il fucile da caccia: bisognava sequestrarlo, controllare. Però sentiva che quell’uomo con le guance arrossate e attraversate dalle rughe non c’entrava con lo strazio dentro la Peugeot.
– Ha visto qualcuno allontanarsi. Un’auto, una moto?
– Sul ponte è passata sì una macchina che andava verso la città. Aveva un colore strano, ma in questa stagione c’è una luce un po’ falsa. Potrei dire blu, ma non sono sicuro…
– Targa, modello?
– Dottore, no. Direi una bugia. Non ho visto niente. Mi dispiace, mica pensavo che qui fosse successo un omicidio. Scusi, ma non è che adesso posso andare? Ho già fatto vedere i documenti alla ragazza in divisa e le ho dato anche i miei numeri di telefono. Vado?
D’Arcangelo affidò il cacciatore a Santo, spiegandogli sottovoce che bisognava per scrupolo controllare il suo fucile. Poi riprese a guardarsi attorno. Sapeva che era inutile, doveva aspettare dati e informazioni.
Il vecchio richiuse l’arma nella cassaforte, insieme alle altre, e ripose la chiave nel cassetto della scrivania. Sul passamano consumato, sotto un’automobilina a cui mancava uno sportello, c’era ancora il foglio con appuntato un numero di targa e un nome. Lo guardò. Per recuperare il pezzo di carta toccò il giocattolo. Un brivido; dal profondo delle viscere la scarica saettò fino al cervello. Si accorse che il ritmo del cuore si era modificato e l’aria faticò a riempire i polmoni. Sperò nell’infarto e si lasciò andare sulla seggiola dallo schienale ricurvo. Abbandonò le braccia e socchiuse gli occhi. Pochi istanti, senza panico. Solo delusione: non stava morendo. Fissò la propria calligrafia. Perché il parassita era ancora sveglio? Cosa voleva?
Mentre il respiro riprendeva il proprio ritmo, scosse il capo. Non aveva mai mentito con sé stesso: il cancro che lo lasciava vivere non era il rimorso. E neppure una visione senile. Era semplicemente dolore. Come non aveva mai provato. Perché non si spegne?, si chiese ancora mentre il sale delle lacrime gli bruciava gli occhi. Aveva fatto quello che doveva, che sentiva indispensabile. Dove aveva sbagliato?
Appallottolò il foglio. Lo gettò nel cestino. Si alzò, sfiorando con lo sguardo il metallo lucido della piccola automobile. Quando mise le mani in tasca un singhiozzo gli uscì dalla gola: c’era una caramella. Una di quelle.
Il questore aveva ascoltato con attenzione ogni sillaba. Michele D’Arcangelo lo fissò, aspettando. Aveva bisogno di fumare, ma il suo superiore rispettava rigidamente ogni tipo di regola. Un bene, quasi sempre. Non in quel caso.
– Allora? D’Arcangelo, cosa pensa di fare?
– Abbiamo già avvisato i parenti. Abbiamo rintracciato il proprietario dell’auto…
– In che senso?
– Nel senso che il ragazzo ucciso se l’era fatta prestare da un amico, Lucio Sacchetti appunto, che lavora, fa il cassiere all’Ipermercato. Per uscire con la fidanzata, Ambra Lisi. Il morto, Federico Castagnoli, aveva portato la propria dal meccanico ieri mattina. Ma la ragazza era libera per la sera e allora…
– Amica di entrambi?
– Non in quel senso. Erano sempre insieme, in gruppo con altri tre o quattro.
– Problemi con noi?
– Stiamo verificando. Entrambi erano stati segnalati alla prefettura: fumo.
– E l’altra vittima?
– No, la ragazza no. Buona famiglia.
– E allora?
– Una bella domanda, dottore. Davvero.
Il questore sospirò. Che brutta mattinata. Il magistrato gli aveva detto di fornire la “massima disponibilità” alla stampa. Perché? Fino a quel momento c’era solo da fare una figura di merda: una coppia assassinata a due passi dalla città. Certo, un caso da prima pagina sarebbe tornato utile. Se lo si risolveva in fretta.
Il capo della squadra mobile spostò il peso da una gamba all’altra. Perché lo teneva ancora lì?
– D’Arcangelo, sa meglio di me cosa fare. Conosce la città. E conosce il sostituto. Mi tenga informato.
Libero di andarsene, Michele D’Arcangelo filò verso il proprio ufficio. Accese il sigaro appena a metà del corridoio. Davanti alle note lasciate dalla smontante riprese a riflettere. L’ispettore Anna Pia Lorillo era stata minuziosa. L’auto riportava le tracce di un incidente; la fiancata aveva perso colore strisciando contro qualcosa.
Telefonò alla scientifica. Sbuffarono, era troppo presto; una sola cosa era certa: c’erano troppe impronte. Fuori e dentro. Sarebbe stato un lavoraccio. Calibro, colpi esplosi: dati in quel momento inutili. Non servivano a identificare l’assassino. Doveva parlare con l’amico del morto, con la speranza che potesse offrire un appiglio per muovere le indagini. Poi un brivido gli attraversò la schiena: sempre che chi aveva sparato non lo facesse ancora.
Appoggiò la fronte al cristallo della finestra che si affacciava sui viali. Troppi elementi mancavano per mettere a fuoco il delitto. Al di là del movente, cosa aveva fatto l’assassino prima di uccidere? Aveva seguito le vittime o era rimasto al freddo, nascosto chissà dove, ad aspettarle? Allontanò la domanda ovvia, “Perché?”: non aveva elementi a sufficienza per ricostruire un movente. Ed era il “come” a metterlo in difficoltà. La scheggia di ghiaccio che gli aveva ferito la colonna vertebrale pochi istanti prima aveva un nome. Serial killer.
Masticando il toscano tornò alla scrivania scuotendo la testa: stava leggendo troppi thriller, doveva tornare ai testi scientifici e ai rapporti dei propri uomini. Così fissò l’appunto sulla scrivania. Quanto ci voleva prima che rintracciassero quel Sacchetti? Il telefono squillò.
– Caro D’Arcangelo, sono io. Brutta giornata, giusto?
La voce di Renzo Franchi era come sempre densa e appiccicosa. Il giornalista più attento e pericoloso della città sapeva. E voleva altre notizie, spiegazioni, descrizioni.
– È presto, Franchi…
– Macché presto! Ho il fotografo al freddo – lo interruppe – e qualcuno dei suoi più ottusi non lo fa passare. Lo sto raggiungendo per capire chi sia il morto e per vedere con chi mi devo incazzare…
– I morti – Michele D’Arcangelo capì che non c’era altro da fare che cedere, sperando che il giornalista facesse indigestione – i morti sono due. Sta perdendo colpi, mi stupisce.
– Due?
– Sì. Alla fine del ‘suo’ sopralluogo, passi in questura: racconterò a lei e ai colleghi tutto quello che posso.
– Ma…
– Niente ma. Avrete le foto, i nomi, le circostanze. Quelle che sappiamo. Fra qualche ora, Franchi.
Posò la cornetta sull’apparecchio senza salutare. Avvisò il questore, che condivise la decisione e fece chiamare gli altri quotidiani e le televisioni. Un omicidio da prima pagina. Da risolvere in fretta, si ripeté.
Sette verticale: mancanza d’aria… I quadratini numerati si appannarono e lasciò cadere la matita. Non sarebbe più riuscito a risolvere i piccoli enigmi delle parole incrociate. Appoggiò la testa fra i pugni chiusi, lividi, e sperò di piangere, sciogliersi, esplodere. Di morire. Non ce la faceva.
Si alzò a fatica, superò il tavolo della cucina sfregando sul legno le mani callose; si lasciò andare sulla vecchia poltrona e azionò il telecomando; con uno sfrigolio il televisore si illuminò. Cercò le reti locali, per vedere se avevano saputo. Vide la larga. Il respiro si fece affannoso, non sentiva. Vedeva il cronista aprire e chiudere la bocca, ma non coglieva alcun suono. L’apparecchio!
Lo scatto lo fece gemere, aprì la scatola senza staccare gli occhi dallo schermo, inserì quegli affarini fastidiosi nelle orecchie e alzò al massimo. Un sibilo rimbalzò nella stanza, ma adesso il sonoro era tornato. Forse era tardi.
– … così la polizia sta raccogliendo le testimonianze di un ragazzo, amico delle vittime, che aveva prestato loro l’auto per andare in discoteca. Si cerca ancora il movente di questo atroce delitto. Altri particolari nella prossima edizione. Passiamo alla politica…
L’auto prestata? Il vecchio guardò passare sullo schermo visi che vedeva in città e nello stesso istante il petto iniziò a pulsare. Quel dolore adesso non doveva arrivare. Aveva sbagliato tutto? Si accorse di avere spezzato il telecomando e lo lanciò contro il lavello della cucina, lucida e in ordine. Spalancò la porta del corridoio con una violenza tale che la maniglia urtò il muro e scheggiò l’intonaco. Rovistò nel cestino della carta e trovò il foglietto appallottolato. Rilesse il numero di targa, il nome, l’indirizzo. Aveva seguito l’auto giusta, ma al volante c’era un altro. Ripensò a un mese prima e ricordò: erano almeno tre. Dunque all’appello ne mancava uno, quello peggiore. Tornò all’armadio blindato e scelse un revolver.
D’Arcangelo percorse il corridoio del secondo piano con le mani strette dietro alla schiena, la testa un po’ piegata in avanti. Così travolse la piccola agente in divisa che stava uscendo dalla sala operativa. Marilanda, si chiamava Marilanda, aveva un cespuglio al posto dei capelli e probabilmente la quarta di reggiseno.
– Dottore. Mi scusi. Ero distratta – commentò rimbalzando indietro di due passi.
– Scusami tu, Mari. Era soprappensiero.
– Dottore, stavo proprio venendo da lei – replicò, riassettando la divisa e, chissà perché, quasi alzando i seni.
– Cioè?
– Ho ricordato una cosa, dottore. Forse non è importante, ma oggi la sua Lorillo – la voce sottolineò pesantemente il ‘sua’. Poi la ragazza arrossì un po’ e strusciò le scarpe nere sul marmo del pavimento – mi ha chiesto l’identificazione di una targa.
D’Arcangelo si accorse di stringere il sigaro troppo forte fra i denti. La targa. I due ragazzi. Un leggero formicolio alle dita e sul cuoio capelluto gli fece capire che era vicino a perdere le staffe. Inspiegabilmente. Sfilò il toscano dalla bocca e respirò.
– Allora?
– Allora, cercando al terminale mi sono accorta di aver già identificato il nominativo del proprietario quasi un mese fa.
– In che senso Mari?
L’agente improvvisamente parve imbarazzata e il capo della Mobile capì che qualcosa non andava.
– È che ho fatto un piacere a un collega…
– Andiamo da me – D’Arcangelo sapeva che il tono della propria voce si avvicinava ormai a un ringhio – che se c’è stata qualche violazione, preferirei risolverla a quattr’occhi. Giusto?
Marilanda Russo annuì abbassando lo sguardo. Aveva combinato qualche pasticcio e se ne rendeva conto. Appena entrata nell’ufficio del capo, si fermò accanto alla parete, quasi volesse proteggere le spalle.
– Ecco, una sera, direi quasi un mese fa, ha chiamato il collega che lavorava al posto fisso dell’ospedale, che adesso è in pensione, Vanni Frisoni. Lo ricorda?
– Sì. Allora?
– Allora, mi ha chiesto se potevo controllare una targa, così perché trovava sempre quell’auto parcheggiata male, voleva capire di chi era…
– E tu?
– Bhè — Marilanda era sempre più rossa in viso. Abbassò gli occhi — sì, insomma, ho guardato, poi gliel’ho detto: indirizzo e nome. Ho fatto male?
D’Arcangelo le voltò le spalle. Era inconcepibile. Non la violazione dell’agente, quello che stava pensando. Doveva controllare.
– Vattene Russo. E inizia a pensare cosa farai da grande…
La ragazza uscì con gli occhi gonfi di lacrime, mentre Michele D’Arcangelo riaccendeva il toscano. Sulla mensola dietro alla scrivania c’erano i quotidiani dell’ultimo mese; c’era qualcosa che riguardava il vecchio Vanni, ma cosa? Nonno Frisoni, già: con la pensione aveva sistemato una casetta con l’orto, ma passava tutti i giorni in questura, ad ascoltare le novità. Poi le abitudini erano cambiate quando era nato il nipotino, finalmente il primo maschio, dopo due femmine: l’erede. Cristo santo: il nipote! Iniziò a sfogliare in fretta i quotidiani, buttando a terra le copie inutili. Purtroppo trovò quello che aveva improvvisamente ricordato.
Trentadue giorni prima. L’auto imboccò la curva bruciando il rosso del semaforo. L’asfalto era umido dopo la pioggia del pomeriggio. Gli pneumatici slittarono appena, la carrozzeria si riassestò sulle sospensioni proprio nel momento in cui, dalla laterale di sinistra usciva una Punto dal blu scolorito che lentamente, con la freccia di sinistra che lampeggiava, si infilò sulla corsia che portava allo svincolo per la circonvallazione.
– Cosa cazzo fa quel deficiente?
– Lucio, per piacere, rallenta. Rallenta cazzo!
– Stai zitta cretina e passami lo spino senza rompere.
– Fede, sei un animale… Lucio! Lucio! Gli vai addosso!
La ragazza si coprì gli occhi, mentre l’amico continuava a ridere e l’altro, al volante, sterzò di appena un millimetro. Le carrozzerie sfregarono restando incollate per poco meno di due metri. Poi la Punto scarrocciò a destra, urtò la banchina del marciapiede e si fermò quasi rimbalzando contro un cartello stradale. Il palo vibrò prima di deformarsi. Qualcosa andò a sbattere sul cristallo laterale sinistro, troppo vicino al montante della carrozzeria. Se i tre ragazzi si fossero voltati avrebbero visto il vetro macchiarsi appena. La loro auto invece accelerò continuando la traiettoria fino all’incrocio successivo. Poi scomparve dalla visuale.
– Santo! – La voce di Michele D’Arcangelo risuonò nei corridoi, facendo voltare la testa agli uomini della mobile che erano fermi alla macchina del caffé. Il poliziotto uscì di corsa dal proprio ufficio e guardò il proprio superiore sbarrando gli occhi. Non lo aveva mai sentito gridare in quel modo.
– Andiamo che ti racconto per strada. Prima che succeda un casino. Forse abbiamo già trovato chi ha ucciso i due ragazzi. Ma è un casino, un casino davvero…
Santo Leoni non aprì bocca, recuperò il soprabito dall’attaccapanni e controllò la pistola. In ascensore alzò un poco il mento, guardando il proprio dirigente. Che non rispose. Solo mentre uscivano dal cortile e si immettevano con l’auto civetta su viale Berlinguer, D’Arcangelo sospirò e iniziò a parlare.
– Andiamo a casa di Vanni Frisoni. C’è il rischio che sia stato lui e, se ha visto i primi telegiornali, potrebbe voler completare il lavoro.
– Nonno Frisoni? E perché… porca troia: il piccolo?
– Già.
Il tragitto non era lungo, ma da quel momento nessuno parlò più; e Leoni non protestò quando il capo della squadra mobile accese il toscano senza abbassare di un millimetro il vetro del finestrino.
La casa del collega in pensione era quasi sul bordo della campagna. Una piccola costruzione, tozza, con un giardino che doveva essere stato bellissimo, ma che da qualche tempo non vedeva né vanga, né irrigazione. L’auto della polizia scivolò silenziosa lungo la stradina d’accesso al cortile, il motore in folle. Una Fiat Punto, con la fiancata destra segnata, era ferma davanti al garage aperto. Dal quale uscì un uomo che doveva essere stato alto e massiccio. Camminava quasi accartocciato su se stesso; stringendo in pugno un revolver. L’uomo fisso i due poliziotti, rimasti nell’abitacolo. D’Arcangelo scese tenendo le braccia davanti a se, i palmi delle mani aperti.
– Vanni… – disse appena D’Arcangelo.
L’uomo fece un passo indietro. Santo Leoni mise a fuoco la sua mano destra: le nocche erano sbiancate, ma l’indice era lontano dal grilletto. L’aria si fermò per un istante. Poi, quello che era diventato un vecchio e non era più il collega in pensione, si voltò e rientrò in casa.
– Andiamo, andiamo! – D’Arcangelo aveva fretta, ansimava. Leoni lo affiancò; entrarono nel garage. Inciamparono in un triciclo, mentre una porta sbatteva. Trovarono l’accesso all’appartamento: un corridoio poco illuminato, che odorava di fiori secchi. Un’altra porta.
– Dottore, stia attento…
– Non c’è un cazzo da stare attenti, Santo. T’ho detto andiamo.
Trovarono Vanni Frisoni in cucina; aveva in mano la fotografia di un bambino che sorrideva. La pistola era sul tavolo.
– Vanni. Spostati. Lascia l’arma a Leoni e vieni.
– Dottore – la voce era impastata. Lasciò cadere la foto sul pavimento e riprese l’arma – non muovetevi, per piacere. Sono stato un bravo poliziotto, vero? Ho aiutato la gente di questa città, sì o no? Mio figlio e sua moglie se ne sono andati, dopo il funerale di Matteo, lo sapete? A casa di lei, nelle Marche. Non mi hanno mai guardato in faccia, lo sapete?
– Vanni…
– Dottore, stia lì, per piacere. Lo so che Matteo quella sera non aveva la cintura di sicurezza. Gli dava fastidio. Ma quei delinquenti mi sono venuti addosso, non si sono fermati, dottore. Li ho visti, ridevano. Non se ne sono nemmeno accorti, erano strafatti. E io, io sono rimasto intontito qualche minuto. Quando un po’ di gente si è fermata e ha chiamato l’ambulanza, il mio Matteo respirava, mi hanno detto che respirava; che è morto dopo all’ospedale. Bastava che mi avessero aiutato. Allora dovevano pagare, mi sono detto. Invece non sono stato un buon poliziotto come una volta. Dottore, mi lasci andare, faccia finta di niente, lo devo ammazzare…
– Frisoni, non puoi. Lo sai – Michele D’Arcangelo pattinò avanti per dieci centimetri; Leoni cercò di fare la stessa cosa dall’altro lato della stanza.
– Allora non servo più a niente, qui.
I due poliziotti si guardarono, pietrificati, mentre il vecchio Vanni Frisoni infilava la canna della pistola in bocca. Santo si gettò in avanti, ma il vecchio aveva già esploso il colpo. Michele D’Arcangelo rimise il toscano in bocca, appoggiò la schiena al muro e scivolò a terra, accucciandosi sul pavimento.