di Gaspare De Caro e Roberto De Caro
[Da un paio di stagioni è assiduamente presente sulle nostre scene teatrali una assai apprezzata messa in scena del Padre di August Strindberg. Lo spettacolo è prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione Nuova Scena – Arena del Sole – Teatro Stabile di Bologna, per la regia di Massimo Castri. Contrariamente all’opinione del colto Pubblico e dell’inclita Guarnigione, a noi sembra che questa interpretazione di un testo di per sé almeno meritevole di rispetto artistico quando difetti la comprensione storica esprima in modo esemplare la peculiare istanza politica della dominante cultura dell’Effimero: un progetto ultratrentennale di depotenziamento e mortificazione di ogni forma di critica radicale dell’esistente, nella chiave cinicamente paternalistica di una «cultura per il Popolo». Con significativa assiduità tale programma devasta i grandi testi del teatro classico, moderno e contemporaneo.]
Delle più sante istituzioni poco o nulla si salva in Il padre. Tragedia in tre atti di August Strindberg. Non l’Esercito, espresso dal Capitano, autoritario sì «in caserma, davanti alla truppa», «uno che con un ordine può domare uomini e bestie», ma in privato fragile, senza autorevolezza se non quella che gli assicura la legge. Non si salva la Chiesa, in scena con un Pastore intrigante, eventuale maestro di morale, ma soltanto per i poveri di spirito, complice bigotto e opportunista di «un innocente piccolo omicidio che la legge non può raggiungere». Né trova altrimenti credito la Fede, addotta dalla Balia: «È strano, ma appena parli di Dio e dell’amore, ti viene una voce così dura, e degli occhi così pieni di odio». E il Dottore, per stolidità, presunzione professionale e acquiescenza garante nell’interesse generale della soluzione clinica del dramma («Dunque siamo tutti d’accordo che sia meglio per tutti trattarlo subito da demente»), è prototipo della Scienza Medica che si prepara in Svezia a confortare di criminale eugenetica il welfare socialista. Ma soprattutto, poiché questo è il tema centrale del dramma, la critica radicale di Strindberg investe la «santità della famiglia», il matrimonio ridotto ad una figura dell’economia di mercato:
«Prima ci si sposava per prender moglie: ora invece si fonda una società con un socio che gestisce un’attività, ossia si va a vivere con un’amica! E così si va a letto col socio, e si offende l’amica! Dov’è andato a finire l’amore, quello sano, l’amore carnale? È morto sul colpo. E che prole da questo amore per azioni, intestato al titolare, senza solidarietà nelle obbligazioni! Chi è il responsabile, in caso di fallimento?»
Strindberg insiste ad evocare i termini istituzionali che trascrivono in norma giuridica lo scambio economico e rendono il matrimonio una distruttiva guerra tra i sessi. È infatti «a norma di legge» che il Padre, egli stesso oppresso dall’obbligo familiare («avrei raggiunto un’altra situazione nella vita che quella d’un vecchio soldato, se non avessi avuto lei e sua figlia»), pretende una incondizionata autorità nelle decisioni familiari, in particolare per quanto riguarda l’educazione della figlia. La Madre non ha alcun diritto: «Essa ha alienato la sua primogenitura in regolare compravendita, e ha rinunciato ai suoi diritti in cambio del mantenimento che il marito provvede a lei e ai suoi figli». La feroce rappresaglia della moglie ha origine da questo insolubile nodo giuridico, che può essere tagliato solo con la distruzione dell’antagonista. Uno scioglimento peraltro in evidente parallelismo con le ragioni che producono il dramma, un passaggio di potere conforme ad un criterio razionale di economicità («Ora hai compiuto la tua funzione di padre, purtroppo necessaria, e di sostegno della famiglia. Non sei più utile, te ne devi andare») e di redditività, comunque sempre nelle prescritte forme legali. L’«Amen» pronunziato a conclusione dal Pastore certifica l’indistruttibilità e santità della Norma.
Tali intenzioni critiche sono testualmente evidenti nel Padre e del resto contestuali, nonché con le personali vicende familiari di Strindberg che certo vi trovano un’eco, con le polemiche, che in quegli anni lo esposero a censure e processi, contro istituzioni e costumi nazionali, a cominciare dalla monarchia, e contro la dilagante espansione capitalistica e relativi valori esaltati con complementare entusiasmo da liberali e socialisti. Poiché «senza scampo» nell’istituto familiare investito dalla polemica di Strindberg «ognuno viene fatto persecutore del suo vicino», e «tutti, uomini e donne, nonostante le apparenze sono vittime», come scrive puntualmente Luciano Codignola (Introduzione, in August Strindberg, Teatro naturalistico, I, Adelphi, Milano 1996, p. 19) Il padre è «una tragedia vera» e sembrerebbe vietato alla messa in scena eludere un tale carattere. Tuttavia non bisogna disperare delle risorse dei registi, nel nostro teatro autocrati del tutto libertari in fatto di fedeltà ai testi. Infatti l’interpretazione che ne dà da ultimo Massimo Castri non si mostra per nulla sensibile ad una tale tematica istituzionale preferendole, come il regista ha spiegato in un’intervista preventiva (Il primo Strindberg di Massimo Castri, a cura di Roberto Alonge, nel programma di sala), la chiave di lettura della «nevrosi maschile di fine secolo», con esiti secondo lui di «misoginia maschilista da caserma». Si capisce che letto così, a parte l’egregia presenza di Umberto Orsini e Manuela Mandracchia nei ruoli principali e l’ostinata vitalità del testo, Il padre riserverebbe una ben triste serata allo spettatore. Ma, appunto, mai disperare dei registi e della loro creatività, che nella fattispecie scopre subito le sue carte autocratiche e libertarie, sicché il pubblico non può dire di non essere stato avvertito, e nemmeno gli «enti produttori». Secondo la fulminante intuizione di Castri, infatti, alla fine il Padre nella camicia di forza (come chiunque altro nelle stesse condizioni, è da supporre) «ricade in un linguaggio intimista, minimalista, che fa pensare paradossalmente a un certo Eduardo». Be’, un paradosso è un paradosso e con chiunque altro la cosa potrebbe finire qui. Ma non se si è un regista creativo e se per sua stessa illuminante dichiarazione Strindberg e Il padre gli sono poco congeniali. E il testo, bisogna ammetterlo, non si difende abbastanza. C’è infatti un breve scambio di battute tra la Figlia e la Balia sull’imminente Natale («La critica non se n’è accorta, ma c’è»). Nel testo il tema non ha nessuno sviluppo, ma la creatività del regista non si scoraggia: basta la parola, diceva un vecchio slogan. Ecco infatti che al principio del secondo atto il Padre rientra in casa con un enorme albero di Natale. In verità, secondo Strindberg, il Padre rientra con un diavolo per capello, perché ha saputo che la moglie gliene ha fatte di tutti i colori e dunque dovrebbe essere poco disposto a rituali smancerie parentali: ma che cosa può importare questo al regista creativo? L’albero prende dunque posto in scena con tutta la sua simbologia familista e dal secondo al terzo atto «diventa sempre più invasivo». Non a caso, ma secondo un programma dichiaratamente eversivo delle intenzioni dell’autore. Infatti, si lamenta Castri, «È difficile accettare lo scioglimento finale previsto dal testo, lo scatenarsi della contrapposizione tra mondo maschile e mondo femminile. Questa lotta dei sessi cantata da Strindberg è troppo greve, troppo ideologica». Ma il «troppo», da Eschilo in giù, è il proprio della Tragedia ed è evidentemente questa che il regista creativo non sopporta, preoccupato di non turbare la coscienza dello spettatore con l’evocazione di disdicevoli conflitti e dissacrazioni istituzionali. Siamo insomma in piena cultura dell’Effimero, che aborre il tragico, inclina didatticamente alla farsa e da quando Benigni ha buttato in fiaba la Shoah non c’è più da sorprendersi di nulla. Con analogo zelo revisionista Castri provvede ad emendare chirurgicamente Strindberg, evitando traumi al pubblico bambino: «L’accento fiabesco consente di accogliere la conclusione drammaturgica». Infatti nell’ultimo atto il Padre, fiabescamente rimbecillito, prima di guadagnarsi la camicia di forza gioca fiabescamente con i soldatini sotto l’albero di Natale. È tutto? è sufficiente all’incontinenza del regista creativo la mortificazione dell’autore, del testo, del contesto, dello spettatore? No, non è tutto e quei soldatini natalizi dovrebbero ricordarci qualcosa, perché anche l’inventiva ha un limite. Alla fine infatti che cos’è quel girotondo dei superstiti, quell’ultimo tocco fiabesco? Ma certo: è Natale in casa Cupiello, secondo promessa. In fondo, chi ha bisogno di Strindberg?