Se un nuovo romanzo di Philip Roth appare in libreria, l’evento è assicurato. Tuttavia non è assicurata la tenuta qualitativa dell’opera a confronto con le aspettative. Intendiamoci: Roth è tra i tre o quattro migliori scrittori viventi al mondo, ma la sua discontinuità è ormai da considerarsi una norma. Da Portnoy a Everyman (Einaudi, traduzione di V. Mantovani, € 13.50), l’ultimo nato che il suo genio ha partorito, sono tanti gli interludi, i momenti in cui lo scrittore americano ha ripreso fiato, per lanciarsi poi in variazioni consistenti ed travolgenti, trasformazioni personali che hanno trasformato la letteratura contemporanea. Roth ha il pregio e il difetto di affiliare: esiste un partito di “rothiani”, con i quali personalmente vado solo saltuariamente d’accordo. Prendiamo il caso de L’animale morente: a mio parere uno dei libri fondamentali usciti nell’ultima decade, e attaccato da fidatissimi partigiani di Roth. I quali hanno disdegnato anche Il complotto contro l’America, qui trovandomi d’accordo. I medesimi dicevano che La macchia umana, un romanzo per me memorabile, non era all’altezza di Sabbath o della Pastorale (di quest’ultimo titolo non ho imbarazzo a dire che per me vale Underworld di DeLillo). Con Everyman ci si troverà allibiti, “rothiani” e non: questa è la quintessenza di Roth, il negativo del motivo per cui il suo racconto vitalista ha conquistato lettori carnali e desiderosi di una libido letteraria che facesse fremere la carne fuori dalla letteratura stessa.
Anzitutto: Everyman non è un romanzo. E’ un racconto lungo in cui la psicologia dei personaggi non conta o, se conta, è sviluppata ai minimi termini. Conta solo la psicologia del protagonista, il chiunque che parla, il quale ritroviamo morto, alla sua inumazione, nell’unica scena di questo libro capace di stamparsi sull’occipite. Il resto è un flashback, in cui il cadavere, riesumato solo a mezzo della memoria e della potenza della narrazione, riassume non tanto il suo passato – esercizio in cui Roth solitamente dà il meglio di sé -, quanto la sua decadenza. Quale decadenza? Morale? Potrebbe benissimo essere, poiché Everyman è il titolo di un morality play inglese medievale (editato intorno agli inizi del ‘500). A differenza del morality play, l’Everyman di Roth non fa ridere affatto. A differenza del morality play, l’Everyman di Roth non è un incontro con la morte, ma con la decadenza fisica e psichica. C’è una bella differenza: talmente bella che potremmo additarla come il deposito di bellezza che Roth poteva inserire in questo racconto lungo, senza in effetti farlo.
La prima impressione è infatti quella di assistere a un teatrino di perdite, a una lista del telefono in cui si cancellano i nomi e gli indirizzi di coloro che non sono più raggiungibili, perché passati all’altro mondo. E’ la lettura di un atlante dell’invecchiamento, in cui il corpo non giunge mai una volta alle spiraloidali assolutezze di laicismo assoluto a cui Roth è pervenuto nelle scene memorabili dei suoi romanzi migliori. Qui c’è un cardiopatico e c’è una descrizione dei suoi infarti multipli e dell’inserimento di by-pass e di un fibrillatore: punto. C’è una continua, esacerbata maledizione lanciata all’età del decadimento fisico, che non conduce a saggezza ma a malattia. Quindi, non c’è morale. C’è nichilismo, questo sì: e lo avevamo capito dal corpus intero di Roth. Corpus, tuttavia, bucherellato: ci sono momenti, in Roth, in cui la scrittura non è controllata, e tuttavia rimane sublime dal punto di vista dello stile, ma la materia – che è sempre: carne, vita, stato di veglia, eros, piacere e dolore che intridono il corpo e la psiche – è sfondata in direzione di sconcertanti abusi della consapevolezza, condotta all’inconsapevolezza. Valga, per tutti gli esempi che si potrebbero fare, l’incontro tra lo Svedese e la figlia, terrorista vegana anoressica, in Pastorale americana (detto per inciso, considero l’intero romanzo breve L’animale morente un buco nero unico, uno sfondamento totale della materia da parte di Roth).
In Everyman, no. In Everyman è come se assistessimo allo sforzo di botanici che piantano un germoglio e si affannano a sperare che esso dirami i suoi prolungamenti e diventi albero. Tutto il coté borghese, che in Roth si sublima in affreschi da storia della letteratura, viene qui ossificato: i rapporti vanno così e così, bastano dialoghi limitati a capire che le storie sono quelle che sono, quelle che conosciamo.
Tutto ciò sia detto senza offesa verso alcuno dei partigiani di Roth.
Everyman o è un romanzo non riuscito o è un romanzo che Roth non voleva fare riuscire. Propendo per la seconda ipotesi.
Che cos’è, infatti, questo processo di ossificazione a cui il plot, il ritratto dei personaggi, il dipinto delle loro vite – questa fossilizzazione, che incarbonisce, a cui tutto il libro viene sottoposto? Ho troppa fiducia nello Zuckerman in carne e ossa per non sospettare. La verità plausibile, a mio parere, è che in Everyman accada questo: Philip Roth fa precipitare le proprie premesse, su cui ha costruito un monumento letterario, al deposito salino e disidratato delle proprie conclusioni. Everyman è quello che Roth è: senza mediazioni. E tutta la vivacità, l’enorme inventiva che permette la carne quando è florida, per un vitalista nichilistizzato come Roth, diventa la litania secca, priva di speranza, che è questo racconto lungo. Roth fa i conti con se stesso: ecco quello che ha pensato sempre e che ha sempre funzionato e, adesso che si avvicina la morte, non può più funzionare. Il complotto era un’avvisaglia: inventare, creare l’ucronia per raccontare i propri esordi, per raccontare sé, era così faticosa, così pomposamente inutile e improbabile… E, nell’Animale morente la malattia mortale veniva, una volta ancora, scaricata sugli altri, mentre per sé ci si tiene la prostata che non regge, ma non stronca. In questo senso, Everyman è un titolo comico e viene ristabilita la logica del morality play: c’è da ridere a pensare che uno sia tutti a queste condizioni, che Roth universalizzi questa visione della vita come landa desolata ai suoi estuari, mentre era il paradiso in cui latte e miele colavano e scorrevano quando si stava bene, si aveva la forza di separarsi dalle proprie mogli, addirittura di sopportare interventi chirurgici.
Si appalesa il limite intrinseco di Roth: egli non è uno scrittore vitalista, egli è uno scrittore materialista. Non c’è una volta che vada radicalmente a domandarsi cosa ci faccia qui, con questa “macchina del corpo”. Non c’è nemmeno l’eroismo prometeico di chi, di fronte al nulla, si chieda qualcosa a proposito del nulla. In questo, Roth è uno scrittore del secolo scorso: plausibilmente antimetafisico, tenendo presente però che il materialismo radicale è pura metafisica. La cifra di arroganza, quella logorrea divina che ha fatto i grandi romanzi di Roth, si dissecca e rimane ciò che è: arroganza. L’arroganza di chi detiene a priori le risposte in base all’empiria, perché ritiene che soltanto il corpo (e la mente che ne dipende – e vadano a quel paese tutte le acquisizioni neuroscientifiche e fisiche di questi ultimi vent’anni!) sia il testimone unico e casuale di quell’accidente che chiamiamo “vita”. Con Everyman, Roth costruisce la specola più veritativa attraverso cui guardare la sua precedente produzione: nessuna destinalità, le coincidenze fanno tutto, i casi della vita sono talmente interessanti che un’epopea la si può scrivere anche in epoca laica, anche nell’era che, in letteratura, sembra avere abolito l’epica. Anzi: gli accidenti dell’esistenza sono proprio quest’epica! Va da sé, un’epica occidentale, newyorkese-ebraica, colta – non universale. Perché se vado a leggere Omero di fronte a diseredati indiani, è certo che costoro reagiranno alle universalità che Omero scandisce, pur costruendo il progetto umanistico occidentale; se vado a leggere ai medesimi soggetti l’Everyman di Roth, essi sorrideranno. L’epica di Roth non è, dunque, epica; e non lo è nel momento che costituisce l’acme dell’epica: il confronto con la morte. Che Roth evita debitamente, in Everyman: poiché qui il confronto è soltanto con i sintomi, con i propri pregiudizi, con se stesso che pensa alla morte – e non con la morte stessa.
Delle due, una: o è un romanzo veritativo sul sé che l’umano occidentale è divenuto (un sé non autointerrogativo se non sul piano psicofisiologico); o è un romanzo inutile molto bene scritto. Il tempo sceglierà tra le due possibilità. Tuttavia, se devo scommettere sulla scelta del tempo, Everyman morirà, ci si scorderà di questo libro che svanirà, mettendo a rischio la memoria di tutto Roth, perché davvero lo rappresenta nella sua quintessenzialità. Peccato che non potrò verificare l’esito della scommessa: ammesso che la specie non devasti se stessa e il pianeta, devono passare almeno centocinquant’anni per fare un bilancio circa ciò che Roth ha significato nella nostra epoca ma, soprattutto, su quello che può significare nelle epoche a venire e quello che avrebbe potuto significare in quelle passate – cioè quanto di universale sia o meno presente nella sua letteratura.
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