di Mauro Gervasini
Il cinema italiano subisce da sempre due ipoteche. La prima è quella neorealista: solo la rappresentazione (almeno in apparenza) realistica del contesto ha valore. La seconda, conseguenza della prima, è il senso di colpa nei confronti della commedia, genere nel quale, sullo schermo e nella vita, primeggiamo da sempre. Siccome solo il realismo è buono, per anni l’intellighenzia nostrana, con il suo fardello ideologico appresso, ha snobbato e ferocemente criticato tutto ciò che veniva considerato “popolare”, da Totò a Poveri ma belli e addirittura, scopriamo oggi, Lo sceicco bianco di Federico Fellini, forse perché parlava di fotoromanzi. Se per tutto il secolo scorso è stata la prima ipoteca a contribuire pesantemente all’involuzione del nostro cinema, ora è giunto il momento di preoccuparsi della seconda.
Il senso di colpa. L’esercizio di rivalutazione delle pratiche bassissime della nostra cinematografia, nel quale si cimenta da un decennio la critica, ha creato miriadi di mostri, ma ha almeno avuto il merito di confrontarsi con una produzione un tempo considerata non meritevole di attenzione. Con notevoli conseguenze anche sulle produzioni “alte” del cinema popolare. Per intenderci: negli anni ’70 era impensabile che qualcuno considerasse Dino Risi e Mario Monicelli come “maestri”; oggi ci si riferisce a loro solo così, anche se magari ci si è appena imbarazzati per Le rose del deserto. Questo anche per far dimenticare la leggerezza con la quale li si considerò in passato, il ritardo con il quale si è affrontata da un punto di vista critico una parte fondamentale non solo del nostro cinema ma della nostra cultura.
Sempre il senso di colpa è il sentimento al quale si appellano i registi contemporanei per giustificare preventivamente le proprie miserie. Per rendersi conto che Olé dei Vanzina e Manuale d’amore 2 di Giovanni Veronesi (le due facce del sistema-commedia di oggi) sono film tremendi, basta vederli. Se però si cerca di entrare nel merito del giudizio estetico (il primo titolo è sciatto e triviale, il secondo è superficiale e televisivo nei contenuti) si ritorna al peccato originale: la critica snobba il cinema popolare e non capisce la commedia, o meglio, come dice Veronesi, «Da 50 anni a questa parte in Italia non la si sa recensire». Si aggiunge, poi, la comica difesa d’ufficio del fratello Sandro: «La commedia classica che s’occupa di temi d’attualità, senza la possibilità o la volontà di esprimere una riflessione profonda, rischia di essere sottovalutata. Giovanni si dovrebbe accontentare del successo che ha. I suoi film rimarranno e nel tempo ci sarà una riscoperta». Sic.
Discorsi che non reggono, e per un motivo molto semplice. Quello dei Vanzina e di Veronesi non è cinema popolare. A meno che a questo termine – di per sé privo di connotazione ideologica – non si voglia dare un’accezione meramente contabile o statistica (del tipo: è popolare ciò che piace ai più). Se invece lo si considera come la forma di narrazione trasparente (cioè da tutti comprensibile) delle esperienze, dei valori, dei bisogni e financo delle superstizioni e delle miserie di una comunità nazionale, di un popolo appunto, allora la commedia di oggi non c’entra o meglio ne rappresenta l’aspetto peggiore e più superficiale. Steno, Risi, Monicelli e Fulci erano maestri di questa narrazione perché sapevano essere un tramite tra le esperienze delle persone e il racconto. Questo rapporto diretto non esiste più perché qualcosa lo ha spezzato. I Vanzina e Veronesi non fanno che riprodurre al cinema, di fatto assassinandolo, la versione becera che di queste esperienze ha fatto e sta facendo la televisione. Gli esempi si sprecano e sono lì da vedere, ma ne ricordo uno agghiacciante riferito ai cinepanettoni. In Natale sul Nilo (2002) non c’è differenza estetica tra una scena ambientata in una trasmissione della De Filippi e il resto del film. Stessi toni, stessa “recitazione”, stessi stacchetti, stessi “tempi” degli sketch, per non parlare dei trailer che hanno la stessa musica delle pubblicità dei cellulari di cui gli attori protagonisti sono spesso testimonial… Questo è cinema?