La narrazione come gioco di prestigio
di Federica Manzon
[Proponiamo questo intervento sul film di Nolan, dopo che se ne è già animatamente discusso su Lipperatura. The Prestige sembra interrogare snodi fondamentali di un mutamento di retorica della narrazione, così come già avvenuto con Lost, che esorbitano dal prodotto cinematografico e televisivo, e interrogano l’opera letteraria e l’idea stessa del narrare. ATTENZIONE: SPOILER – Si consiglia vivamente chi ancora non ha assistito alla proiezione di The Prestige di non leggere questo intervento]
Ad attrarre in The Prestige è il doppio gioco del prestigio, condotto e tenuto fino alla fine, che incastra la struttura narrativa con la trama, secondo una necessità illusionistica dichiarata già dalla prima scena. Cutter, anziano assistente di scena, spiega a una bambina, che si saprà poi essere figlia di uno dei due protagonisti, le fasi di un trucco: la promessa, la svolta, il prestigio. La sequenza nel film però non è mai rigidamente rispettata: nell’attimo in cui il prestigio scende dal palcoscenico e investe la storia intera tutti i momenti si duplicano e vanno a crearsi punti di svolta che mettono irrimediabilmente in crisi la promessa iniziale. Si inserisce poi, mescolandosi, quello che doveva essere un elemento esterno alla messa in scena: il segreto.
Andando con ordine, mi sembra che il potere del prestigio diventi sempre più centrale per la costruzione narrativa, fino a determinarla, procedendo attraverso tre momenti principali.
Inizialmente la mossa illusionistica è sul palcoscenico, davanti agli spettatori, ben separata dal piano della realtà dove sembra svilupparsi la storia. Angier e Bourden salgono dalla platea e vanno a eseguire il numero. Il pubblico crede alla promessa, assiste alla svolta e si aspetta di essere imbrogliato dal prestigio a cui non crede poi del tutto. Perché c’è un limite al gesto illusionistico: quello del corpo, che permette quindi sempre di non prestare fede interamente a ciò che si vede, di presentire il trucco, che però resta segreto. Ma a questo punto il meccanismo si rompe perchè accade l’imprevisto: la moglie di Angier muore e introduce di colpo un elemento di realtà nel cuore della finzione. Il prestigio smette di essere confinato in un luogo isolato e controllabile da mosse segrete, e va a mescolarsi con le vite fuori dalla cornice del teatro. È la morte a investire il gesto illusionistico colpendo il corpo reale. In una parola, non funziona più nessuna cornice e già qui, ma non è ancora un problema vero e proprio, il regista introduce un dubbio: chi è il responsabile di quello che è accaduto? Non lo si può sapere. Non si sa nemmeno con esattezza, con quella precisione richiesta dalla morte reale, qual è il tipo di nodo (che già di per sé è un incrocio di cui si confondono i capi) che ha ucciso la donna.
Si apre quindi un secondo momento in cui finzione e realtà si contaminano e si intrecciano sul confine ambiguo dei limiti del corpo. Si tenta l’illusionismo estremo, quello che per essere eseguito pretende la totale coincidenza tra la vita dell’illusionista e il suo trucco (è lo stesso Bourden a dirlo, e mille dettagli della sua vita stanno a confermarlo). Bourden tenta il prestigio estremo, inganna un pubblico che vorrebbe ancora dubitare, lo sconvolge annullando i limiti stessi della messa in scena. Ma qui l’illusionista è ancora padrone del suo gioco e questo per un elemento importantissimo: il doppio di cui fa uso Bourden per eseguire il suo spettacolo è un gemello naturale, un fratello di sangue e per questo non assolutamente identico (nonostante le dita tagliate e tutti i particolari regolati ad arte). Siamo ancora all’interno della narrazione classica e l’autore/prestigiatore domina la sua creazione, anche se essa ha ormai valicato la cornice rigida del palcoscenico e quella definita del corpo. Il film stesso è ora il luogo dell’illusionismo. Qui c’è ancora tempo e responsabilità, c’è ancora spazio perchè la volontà dell’autore si opponga al prestigio. Per esempio, se a questo punto Bourden vedesse minacciata la figlia, potrebbe benissimo denunciare il trucco, apparire insieme al suo gemello, svelare il prestigio e con questo distruggerlo affermando la volontà del protagonista.
Tutto questo scompare con il terzo momento del film, quello davvero rivoluzionario. Quello che mette in scena il nuovo e l’inaspettato, destituendo i personaggi di ogni pretesa di controllo sulla trama. Con l’intervento di Tesla si supera la questione dell’unicità del corpo e della sua identità. Siamo per la prima volta davanti a un doppio identico, creato da una macchina. E solo qui lo spettatore si trova davanti a qualcosa di inatteso: il prestigio investe il piano stesso della narrazione e la determina senza che ci sia più un autore/personaggio a governare i tempi e l’avanzare della storia (e di questo c’era un accenno già nella scelta di aprire il film con la scena dei molteplici cappelli, una dichiarazione d’intenti rapidissima ma determinante). Il doppio identico spiazza i piani della narrazione classica, mette in gioco un altro tipo di “alterità” che non è padroneggiabile da nessuno degli strumenti in possesso del personaggio o dello spettatore.
Angier allora, per eseguire il suo trucco, dovrà ogni volta compiere l’atto estremo contro la logica del corpo e dei suoi limiti. Ucciderà se stesso. Importante in The Prestige è che forse per la prima volta in una narrazione vediamo accadere l’affermazione massima della volontà, la decisione di morire ogni volta di nuovo (è l’Angier autentico che muore ogni volta nella vasca, sotto la botola, dove si gioca la partita), senza che sia ascrivibile a un personaggio che, classicamente, si costituiva come tale proprio grazie a questa assunzione di responsabilità. Qui la morte non è liberante, è l’affermazione stessa del prestigio che annulla la possibilità di attribuire una responsabilità del gesto a un soggetto distintamente padrone delle proprie azioni (e forse accadeva lo stesso già all’inizio, nell’incertezza del nodo eseguito).
Mi sembra che il punto maggiormente interessante del film sia come il potere del prestigio scardina la struttura narrativa e la costruisce in modo nuovo, e questo lo lo vediamo emblematizzato nel finale ed esemplificato nella figura di Tesla. Tesla è in tutto e per tutto l’anti deus ex machina. Nella struttura classica il deus ex machina appartiene a un altro piano di realtà rispetto ai personaggi in scena. È l’essere divino che interviene, con grande risonanza e dispiegamento di mezzi che lo mettano al centro della narrazione, per fornire un aiuto che sblocca la trama portandola alla risoluzione. Con Tesla accade l’opposto. Lui interviene esattamente sullo stesso piano dei personaggi (è la Storia, ma che si incarna e agisce in una singolarità) e fornisce un elemento che complica ancora l’azione, e anziché fornire strumenti risolutori consegna nelle mani di Angier la macchina che permetterà la finzione estrema. E questo senza che lui divenga mai un personaggio centrale, rimanendo nascosto e scomparendo (tant’è che al processo Cutter racconterà il sistema della vasca ma non l’invenzione di Tesla, e nella stessa rappresentazione del trucco la macchina è mascherata da una struttura barocca). Tesla rappresenta la scienza, colui che potrebbe scardinare il prodigio spiazzando anche le attese degli spettatori, ma il mondo (Edison e Angier, e però anche lo spettatore) si applica per mantenere l’ordine vigente, perché il prodigio non accada davvero e rimanga solo il prestigio di cui il pubblico può continuare, in fondo, a dubitare. Il prodigio viene così ogni volta distrutto nel momento stesso in cui accade, e la narrazione rimane imprigionata nel gioco di una finzione che è il piano stesso del film.
Sarà necessaria la doppia morte del doppio, quello naturale e quello artificiale, per placare l’ossessione del prestigio e farlo ritornare nella cornice sequenziale dei suoi momenti, distruggendo il sogno di Angier e ammettendo che l’umanità, lo spettatore, non sono ancora pronti a tanto. Non sono pronti ad assistere, contemporaneamente, alla caduta del prestigio e all’affermazione del prodigio. Vogliono continuare a dubitare, credendo che l’illusionista abbia, in fondo, ancora il controllo del proprio prestigio, della propria narrazione.