di Luca Cangianti
L’eroe delle narrazioni moderne percorre lo stesso cammino di chi prende coscienza di una situazione d’oppressione e decide di ribellarsi. Nel Viaggio dell’eroe, un manuale di sceneggiatura di ampio successo, Chris Vogler afferma che il protagonista, l’eroe per l’appunto, è spinto a intraprendere un’avventura che lo strappa alla realtà quotidiana, portandolo alle soglie di un mondo straordinario nel quale dovrà superare prove mortali nel tentativo di sconfiggere il nemico. Tuttavia “Gli eroi non si limitano a visitare il regno dei morti per poi tornare a casa. Ne escono trasformati”.
Tre storie gestaltiche
Nel film Tutti a casa il sottotenente Alberto Innocenzi (Alberto Sordi), dopo il collasso dell’8 settembre 1943, intraprende un viaggio drammatico e picaresco attraverso l’Italia sconvolta dalla guerra e invasa dai nazisti. Innocenzi all’inizio si comporta da opportunista, ma il corso degli eventi lo cambia progressivamente. Nel finale, di fronte all’assassinio del suo compagno, ha uno scatto di dignità e decide di non subire più la violenza dell’oppressore. Prende coscienza, s’impossessa di una mitragliatrice e inizia a combattere: l’inquadratura si allarga sulle azioni coordinate di una brigata partigiana; l’eroe non è più solo, è parte di una comunità più grande che sfida il potere e crea a una nuova società.
Rimaniamo sempre nell’ambito della Resistenza, ma passiamo dalla fiction alla realtà storica. Il partigiano Massimo Rendina ricorda: “Ero tornato a Bologna dalla Russia indignato contro il fascismo perché i miei soldati li aveva mandati a morire, senza armi, senza niente… L’8 settembre andai a trovare i miei genitori a Torino, ma quel giorno i tedeschi entrarono a Torino. Li vidi entrare, erano molto belli negli impermeabili verdi, mi impressionò la differenza con il nostro esercito scalcinato. E c’erano delle donne che urlavano, uno di loro sparò e credo che abbia colpito qualcuno. Non sono sicuro ma fu determinante per me, fu come una ribellione interiore: gliela faccio pagare”.1
Roberto oggi è medico di base all’Alessandrino, un quartiere popolare di Roma. Una volta gli ho chiesto come avesse “preso coscienza” e lui mi ha risposto così: “Gli operai edili erano in sciopero per il rinnovo contrattuale e avevano organizzato un corteo. Era il 9 ottobre del 1963 e pioveva. La polizia aveva caricato e i dimostranti si rifugiarono nel mio liceo, il Cavour. Con i compagni di classe ci fermammo a discutere con alcuni di quei lavoratori. Le loro ragioni non mi convincevano: ma che volevano questi adesso? Che li pagassero per non lavorare? Mi stavo annoiando e cominciai a scherzare, a prenderli in giro. Un uomo magro con dei piccoli baffi mi puntò contro l’ombrello quasi fosse un grande indice accusatore: ‘Tu non sai che significa spaccarsi la schiena ogni giorno, rischiando di cadere dalle impalcature!’ La retorica del movimento operaio, le lotte, gli scontri con la polizia, le contrapposizioni ideologiche, mi sembravano cose di altri tempi – ed erano solo i primi anni sessanta, pensa un po’! Cinque anni dopo era il ’68. Mentre passeggiavo a via del Corso udii un rombo possente. Si trattava di una semplice parola scandita da diecimila bocche. Era di nuovo un corteo, ma questa volta si trattava di studenti universitari. Una massa fittissima, compatta, incordonata, sulla quale si stagliava altissima una sola ed enorme bandiera rossa. In quel momento mi sono passate davanti agli occhi le immagini del Vietnam viste in televisione, l’arroganza di certi insegnanti e soprattutto il volto dell’operaio edile con l’ombrello. Mi ricordo che cercai di resistere. Quello che stavo per fare mi sembrava ridicolo: sono salito sopra il parafango di una Fiat 1100, ho alzato il pugno al cielo e ho cominciato a gridare ripetendo fino a sputar fuori i polmoni lo slogan del corteo: ‘Co-mu-nis-mo! Co-mu-nis-mo!’ Credo che sia andata così. Da quel giorno ho cominciato a vedere le cose in modo completamente diverso. Sono diventato un compagno, ho preso coscienza”.
In questi tre racconti c’è un prima, un poi e in mezzo un viaggio coscienziale. Il prima è connotato da una visione conforme, quotidiana, comune e pacificata della realtà. Poi c’è un “clic” ed ecco apparire un’altra figura. La presa di coscienza assomiglia a quelle immagini gestaltiche che a seconda di come le si guarda si vede prima un coniglio e poi un’anitra. La realtà che guardiamo è la stessa, ma di tratto, dopo un viaggio costellato di esperienze drammatiche, in un preciso momento, avviene il salto – che però, a differenza delle immagini gestaltiche, non è reversibile a piacimento.
Il mentore e il partito
Come il sottotenente Innocenzi, il partigiano Rendina e il medico Roberto, l’eroe di Vogler percorre un “arco di trasformazione” e passa attraverso molte possibili fasi: consapevolezza limitata del problema, riluttanza a cambiare, sperimentazione dei primi cambiamenti e loro conseguenze, trasformazioni più profonde, padronanza finale del problema. Infine “Gli eroi, qualche volta, dopo aver attraversato una Prova Centrale, provano un’improvvisa consapevolezza della natura delle cose. Sopravvivere alla morte dà significato alla vita e rinforza le percezioni”.2
L’emergere di questa potenza gnoseologica sembra avvicinarsi alla teoria elaborata da György Lukács negli anni venti del secolo scorso.3 Qui la coscienza di classe è concepita come un punto di vista superiore sulla realtà sociale. In questo caso non siamo più di fronte alla svolta coscienziale di un individuo pur inserito in una rete di esperienze sociali. La coscienza di classe di cui parla Lukács è una realtà in qualche modo metafisica, è un’entità soggettiva superindividuale che ricorda l’Io trascendentale hegeliano. Si tratta della capacità del soggetto di rappresentare adeguatamente la società e la propria posizione al suo interno a partire dagli interessi materiali. La mancanza di questo elemento comporta l’assenza di agency politica da parte di un determinato gruppo sociale, condannandolo alla sudditanza per quanto riguarda l’appropriazione della ricchezza e la costruzione dell’intera realtà sociale.
Nel momento in cui storicamente una classe subalterna si candida a sfidare una classe dominante si pone il problema della coscienza e dell’identità. Secondo la teoria marxiana del feticismo, tuttavia, l’esercizio dello sfruttamento e dell’oppressione è reso invisibile dalla falsa apparenza dello scambio egualitario tra salario e utilizzo della forza lavoro. In queste condizioni l’eroe è restio a intraprendere il viaggio e tende a restarsene a casa, nell’oscurità gnoseologica del mondo ordinario.
Lenin sostenne infatti che la classe dei salariati fosse troppo immersa nei meccanismi di occultamento ideologico descritti da Marx per acquisire un punto di vista antagonista: la coscienza doveva essere importata da un soggetto terzo, molto simile a quello che Vogler, traendo spunto dall’Odissea, definisce il mentore: “L’incontro con il Mentore è la fase del viaggio in cui l’eroe ottiene il viatico, conoscenze e fiducia in sé, di cui avrà bisogno per superare la paura e cominciare l’avventura”.4 In Matrix è Morpheus a offrire a Neo la possibilità di scegliere tra la pillola blu che lo farà tornare immemore nella realtà fallace e la pillola rossa che disvelerà l’orrido mondo di sfruttamento che si cela dietro l’apparenza virtuale. In seguito, è sempre Morpheus che guida Neo, attraverso le prove più incredibili, fino alla piena conoscenza del modo di produzione della matrice. Neo a questo punto controlla la realtà apparente: al suo interno può schivare i proiettili e nella scena finale spicca il volo a simbolizzare il massimo dispiegamento della libera soggettività.
Lenin non crede che “il movimento puramente operaio sia di per sé in grado di elaborare… una ideologia indipendente” e definisce come “parole profondamente giuste e importanti” quelle del leader socialdemocratico Karl Kaustky: “Socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all’altro e non uno dall’altra; essi sorgono da premesse diverse. La coscienza socialista contemporanea non può sorgere che sulla base di profonde cognizioni scientifiche… Il detentore della scienza non è il proletariato, ma sono gli intellettuali borghesi… La coscienza socialista è… un elemento importato nella lotta di classe del proletariato dall’esterno… e non qualche cosa che ne sorge spontaneamente”.5
Ma questa soggettività esterna non sarà essa stessa immersa nell’oggettività produttrice di falsa coscienza? E qualora si tratti di una soggettività organizzata, cioè di un partito o di un sindacato, non sarà essa stessa sottoposta, almeno nel lungo periodo, agli influssi materiali che presiedono agli interessi specifici dei suoi funzionari, alla riproduzione delle sue strutture e dei suoi redditi? Insomma, perché il materialismo storico dovrebbe valer per tutti, ma non per i materialisti storici? La socialdemocrazia tedesca, sopravvissuta alle leggi bismarckiane, accumulò progressivamente forze diventando una sorta di contro-società che gestiva mense, palestre, circoli ricreativi, scuole, case editrici e cooperative di ogni tipo in attesa d’instaurare il socialismo. Nel 1914, tuttavia, quando arrivò la prova dei fatti, capitolò miseramente sui crediti di guerra. Prendere una decisione diversa avrebbe significato con ogni probabilità rischiare tutto il patrimonio organizzativo accumulato. Del resto il peso di tale variabile materiale si era già ideologicamente manifestato con la diffusa convinzione bersteiniana che il capitalismo potesse esser addomesticato e instradato pacificamente verso il socialismo.
Sociologia della coscienza di classe
Un approccio molto diverso all’analisi della coscienza di classe è quello sociologico. In questo caso si cerca empiricamente d’indagare quali sono le condizioni specifiche della vita proletaria che permettono di sviluppare un determinato tipo coscienza. In una ricerca effettuata nei primi anni cinquanta del secolo scorso fra gli operai siderurgici della Ruhr, i ricercatori individuarono tre tipi di consapevolezza: quella riguardante la prestazione (di origine artigiana e collegata alla tipologia ancora professionale della composizione di classe di quegli anni), quella del comune destino e quella dell’antagonismo (“noi-voi”, “sopra-sotto”).6 Nella prima metà degli anni sessanta, con approccio simile, Alain Touraine studiò la coscienza operaia intesa come “visione della società”, come “un senso dato all’esperienza sociale”. Somministrò oltre duemila questionari, scelse sette settori industriali (edilizia, miniere, gas, carpenteria, meccanica, fonderie e petrolio) e individuò tre principi: identità, cioè il lavoratore come produttore; opposizione, il lavoratore come diverso dall’altro da sé; totalità, cioè il lavoratore come soggetto storico. I risultati della ricerca mostrarono che tali principi si distribuivano differentemente tra gli operai delle varie branche produttive in base alle concrete specificità delle stesse.7
Al di là della correttezza e dell’attualità dei singoli studi, questo approccio ha il vantaggio di ancorare il discorso sulla coscienza di classe a un vasto numero di variabili riguardanti le concrete condizioni di vita, rifuggendo dalle spiegazioni ottimistiche e meccanicistiche che ipotizzano lo sviluppo della coscienza di classe con l’intensificarsi del disagio sociale e della crisi del modo di produzione dominante. Lo stesso Engels, nella sua opera più “sociologica”, La situazione della classe operaia in Inghilterra, mette in relazione lo sviluppo della coscienza con le specifiche modalità di vita industriale, con l’urbanizzazione e la concentrazione spaziale.8
Nel documentario Videocracy si racconta la storia di Riccardo, un giovane e simpatico operaio industriale italiano. Egli non costruisce la propria identità e la propria agency a partire dalla sua condizione di disagio nel processo produttivo, ma nel tentativo fallimentare di diventare una star della televisione, sul terreno della circolazione e del consumo. In una situazione del genere come potrà mai prodursi una coscienza collettiva capace di rappresentare non ideologicamente gli interessi di tutte le persone come lui?
Oggi il carattere postfordista della produzione, la sua frammentazione etnica e geografica, la struttura spaziale delle città, disincentivano nei paesi industrializzati una percezione del proprio sé adeguata alla posizione sociale ricoperta. Si può perfino ipotizzare, e anche Marx lo fece, che lo sviluppo capitalistico piuttosto che produrre una soggettività antagonista, la disarticoli continuamente.9
La dinamica dello sviluppo capitalistico è attraversata da crisi, ristrutturazioni, conflitti e guerre che più di una volta nella storia hanno portato a collassi temporanei del potere politico. È in queste fratture che l’eroe, anche contro la propria volontà, è costretto a rimettersi in viaggio senza alcuna certezza, attraversando i territori devastati dalla violenza dell’invasore di turno. È nella precarietà di queste situazioni che nascono organizzazioni adeguate allo scopo, mandando in frantumi le precedenti strutture ossificate. E così, se si arriva in tempo, prima che sterminio e guerra estinguano del tutto vita e speranza, può anche accadere di ritrovare se stessi e di dire, come accadde al partigiano Rendina: io a questi qui gliela faccio pagare.
C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Audino, 2005, p. 128. ↩
Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Sugar, 1967. ↩
C. Vogler, op. cit. p. 82. ↩
In V. I. Lenin, Che fare?, Editori Riuniti, 1970, pp. 71-72. ↩
Cfr. H. Popitz, H.-P. Bahrdt, E. A. Jueres e H. Kesting, Progresso tecnico e mondo operaio, Edizioni Paoline, 1962. ↩
Cfr. A. Touraine, La coscienza operaia, Franco Angeli, 1975. ↩
Cfr. F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra in K. Marx-F. Engels, Opere, IV, Editori Riuniti, 1972, pp. 259, 353, 485. ↩
Cfr. Carmilla, 3.9.2014. ↩