di Carlo Trombino
Gershom Scholem, Le tre vite di Moses Dobrushka, Adelphi, 2014, pp. 232, € 22,00.
Dio si è nascosto. Questo mondo è opera di potenze inferiori e ogni sua legge va infranta. Solo attraverso la degradazione, indossando ogni maschera, sarà possibile arrivare all’epoca della Nuova Legge, del Vero Dio. La vera Vita consiste nella libertà dai vincoli di qualsiasi Legge. Lodato sii tu, o Dio, che permetti ciò che è proibito!
Questo è un brevissimo riassunto della dottrina antinomica del frankismo, la setta ebraica settecentesca di cui fece parte il protagonista del libro di Gershom Scholem Le tre vite di Moses Dobrushka.
Morì ghigliottinato assieme a Danton durante il Terrore di Robespierre. Fu illuminista, massone, ebreo, cristiano, mago, trafficante di armi, spia, poeta, speculatore finanziario, mistico, mentalista. Fedele servitore dell’Impero Asburgico e/o infuocato giacobino. La sua sessualità era straripante e i suoi appetiti erotici lasciavano esterrefatti i tanti che con lui ebbero a che fare durante il quarantennio in cui rimase su questo pianeta. Ma chi era davvero Moses Dobrushka? E soprattutto, quante vite ha vissuto?
Secondo Gershom Scholem, Moses Dobrushka visse tre vite.
La prima ebbe inizio nel 1753 a Brno in Moravia presso una famiglia di facoltosi commercianti ebrei imparentati con il famoso (o famigerato, a seconda dei punti di vista) Jacob Frank, autoproclamato Messia di un culto nichilista e fautore di una (non proprio sincera) conversione di massa al Cristianesimo.
Moses Dobrushka ad appena vent’anni cambiò nome e religione: si battezzò col nome di Franz Thomas Edler von Schönfeld, cominciando la sua seconda vita in giro per l’Europa, soggiornando anche presso la corte dell’Imperatore Giuseppe II. Riuscì ad arricchirsi trafficando in armi per conto dell’esercito nella guerra contro l’Impero Ottomano, e in quello stesso periodo fece valere le sue capacità magico-esoteriche all’interno di vari gruppi massonico-iniziatici tra cui gli Illuminati di Baviera (sì, proprio quelli!) e un più sincretista Ordine dei Fratelli Asiatici.
Nel 1792 cominciò l’ultima parte della sua vita, quella francese da giacobino, in cui assunse il nome di Junius Frey. Prima a Strasburgo e poi a Parigi, dopo i primi anni in cui venne accolto con entusiasmo dai circoli rivoluzionari, subentrò l’invidia e il sospetto nei confronti di questo ricco e intraprendente straniero “fattosi sanculotto”. Una diffusa diffidenza che, durante il Terrore, si trasformò in una sentenza sommaria di condanna a morte, decisa da un decreto del 26 agosto 1793 ed eseguita il 5 aprile del 1794, ovvero il 15 germinale dell’anno Secondo
Junius Frey visse pericolosamente, a cavallo fra due mondi (il cabbalismo e il giacobinismo; ma anche il mondo terreno e il mondo esoterico dei misteri) e Scholem lo ha inseguito per due mondi e tre vite, analizzando con eleganza ed erudizione una notevole quantità di materiali eterogenei, dalle carte di Robespierre agli archivi massonici dell’Aia o di Copenhagen.
Secondo Scholem, Frey rappresentò l’evoluzione in senso giacobino del credo frankista: come abbiamo detto, Frey era il nipote di Jacob Frank, a sua volta considerato la reincarnazione del Messia Sabbetài Tzevi. Per capire il mondo in cui si move il protagonista del libro, bisogna spiegare cosa era il Frankismo e chi erano i ‘ciarlatani’.
PAURA E DELIRIO A OFFENBACH
C’è da stupirsi del fatto che Hollywood si sia lasciata scappare finora la possibilità di costruire un film sulla vita di Jacob Frank. Ci sarebbero tutti gli ingredienti per farne un film memorabile.
Immaginate un ricco ebreo, ritenuto dai suoi fedeli la reincarnazione del Messia, che si converte al Cristianesimo e gira per le corti d’Europa affascinando i sovrani con numeri di magia, ipnosi e alchimia; questo personaggio presenta sua figlia Eva (e come poteva chiamarsi sennò?) quale incarnazione di una divinità, senza per questo evitare di offrirla nuda durante i rituali orgiastici. Jacob Frank abitò, dopo l’arresto, in una reggia a Offenbach, dove presiedeva a riti magici scambisti sotto l’effetto di droghe sintetiche (un mix di etanolo ed etere) prodotte in un laboratorio alchemico appositamente costruito. Potrebbe venirne fuori una specie di incrocio fra Breaking Bad, Amadeus e Paura e delirio a Las Vegas. Aggiungiamoci che, secondo Scholem, Frank fu il “primo ebreo guerrafondaio che la storia ricordi”, voleva trasformare “ogni israelita in un soldato”, amava il potere e la corruzione. E non è finita qui: la dottrina che insegnava era ancora più estrema delle sue abitudini!
Ma come faceva un personaggio del genere a godere del credito dei cristianissimi nobili cui si rivolgeva? Anche tramite la massoneria. Dice Scholem:
Aristocratici, non di rado membri della più alta nobiltà, aderirono in posizione dominante a molte di queste organizzazioni, in cui i confini tra gioco e serietà spesso sono un po’ confusi. La storia di tali movimenti appartiene al retroterra intellettuale della Rivoluzione Francese non meno che a quello della sopravvivenza di idee mistiche, teosofiche e occultistiche in piena epoca illuministica. Personaggi singolari e persino dubbi provenienti dai più diversi gruppi sociali poterono tentare qui, almeno per un certo periodo, la loro fortuna, come mostrato in maniera magistrale da Fritz Heymann nel suo racconto della vita davvero fantastica del Chevalier von Geldern, prozio di Heine.
Si trattava quindi di ciarlatani. Pawel Maciejko, ricercatore dell’Università Ebraica di Gerusalemme, ha accostato la figura di Dobrushka/Frey ad altri famosi ciarlatani dell’epoca come il palermitano Cagliostro o il veneziano Giacomo Casanova (che effettivamente conobbe Frey ed Eva Frank a Brno), sullo sfondo della rivoluzione francese e quindi della rottura di numerosi tabù.
Nel suo libro The Power of the Charlatan Grete de Francesco ha tentato di fare luce sulla cosiddetta Charlatanry, una classe umana cui già Diderot dedicò una voce nell’Encyclopedie: nei periodi in cui la conoscenza scientifica sorpassa rapidamente il sapere comune, proliferano personaggi dotati di un certa cultura ma di maggiore furbizia che sfruttano il gap culturale per, sostanzialmente, soldi e potere. Questa corrente umana, cui appartengono molti figuri contemporanei, visse un periodo di rigoglio negli anni in cui operò il network di presunti scienziati/occultisti/maghi/massoni settecenteschi di cui facevano parte Frey, Cagliostro e Casanova. Un ciarlatano quindi; un nichilista mistico che si ritrova a Parigi durante la rivoluzione francese e prende parte entusiasticamente al clima di catarsi storica. Ma l’adesione fu sincera o fu l’ennesima maschera di una vita da falsario? Scholem tende (con molta cautela) a credere che il giacobinismo di Frey fu sincero, tutto il contrario rispetto all’opinione degli storiografi francesi della rivoluzione che lo hanno da sempre ritenuto un truffatore, probabile spia austriaca e giustamente decapitato come traditore della Rivoluzione.
FURIO JESI E JUNIUS FREY
Nello splendido saggio che chiude il libro, Saverio Campanini analizza Scholem nello stesso modo in cui Scholem ha analizzato Frey: ne segue con dotta esegesi gli interessi più intimi e i motivi biografici del suo percorso di ricerca, scoprendo che la “passione frankista” di Scholem risaliva addirittura agli anni della giovanile amicizia con Walter Benjamin. Scholem attraverso lo studio dei frankisti voleva saldare un debito di riconoscenza sia con Fritz Heymann, lo scrittore ucciso dai nazisti che fornì a Scholem numerose informazioni utili sui frankisti; ma soprattutto con il suo migliore amico, Walter Benjamin, al punto da riuscire a tracciare, ormai in vecchiaia, una lontana parentela fra il lato materno di Benjamin e quello di un altro famoso avventuriero-ciarlatano ebreo, il cavalier von Gerden, cui risaliva anche il ramo materno del poeta Heine.
Non stupisce quindi che Campanini si serva della letteratura scientifica più recente e aggiornata, decidendo quindi di non menzionare un autore come Furio Jesi che primissimo in Italia capì l’importanza di un personaggio come Moses Dobrushka. Lo stesso Jesi che in vita sentì l’esigenza di scrivere a Scholem proponendosi come suo allievo, come evidenziato dalle recenti ricerche d’archivio di E. Lucca e A. Cavalletti.
Jesi cita abbondantemente i testi di Scholem nel primo capitolo del suo libro del 1972 Mitologie intorno all’illuminismo.
Indagare sull’effettiva natura delle eresie sabbatiane e frankiste e sui loro rapporti con l’illuminismo, significa non solo approfondire un capitolo determinante della storia dell’ebraismo, ma anche studiare tutto un substrato della cultura europea (poi, in particolare, mittel-europea) che entro certi limiti conferma la contingenza storica della paradossale identità illuminismo-esoterismo. Il commento delle Haggadòth scritto dal già ricordato Jonas Wehle testimonia pari riconoscimento di autorità a Shabettày Tzevì e a Moses Mendelssohn, a Yitzchàq Luria (il supremo interprete della Qabbalà nel XVI secolo) e ad Immanuel Kant.
Jesi si propone sì come allievo di Scholem, ma come uno di quegli allievi brillanti che, con esempi e paragoni centrati, allarga il campo della lezione del maestro.
Jesi parte da Scholem, che evidenzia il rapporto fra cabbalismo e illuminismo, e si incammina alla ricerca di espressioni analoghe provenienti tanto da autori come Spinoza, Kant, Kierkegaard e Rousseau (quel Vicaire Savoyarde che intimamente non crede nello Spirito Santo ma continua comunque a celebrare puntigliosamente la messa), quanto da quel mondo cristiano più tendente al misticismo, trovandole in alcuni vagheggiamenti neo-hussiti di Meyrink e nelle eresie quacchera e anabattista, pietista e modernista, tra i pochi fermenti nel campo cristiano che forse furono in grado di avvicinarsi a formulare quella sorta “di esilio dell’uomo da Dio, e del ben più terrifico esilio di Dio dal mondo.” Jesi sottolinea anche l’importanza nella cultura europea dell’esoterismo, che cercò nell’Ebraismo oppure ancora più a Oriente le sorgenti del sapere iniziatico.
La convinzione dell’esistenza di una profonda solidarietà fra mistica ebraica e potenziale esoterico “asiatico” in generale è testimoniata d’altronde in tutta l’opera di Meyrink da costante intreccio fra tradizione qabbalistica e ‘hassidica e tradizioni esoteriche asiatiche di disparata provenienza (yoga, tantrismo, etc..). […] Questa digressione ha unicamente lo scopo di presentare un parallelo istruttivo di un’altra e precedente koiné che comprese sabbatiani e pietisti, anabattisti e quaccheri – per citare solo i gruppi più significativi – e diede un contributo determinante alla genesi e all’affermazione dell’illuminismo. […] Per Scholem si trattò di una “disposizione spirituale dei gruppi mistici che, incontrandosi con l’originario razionalismo dell’illuminismo – che scaturiva da tutt’altre fonti – finì con l’operare con esso nella stessa direzione”.
L’illuminismo quindi ha anche radici irrazionali, mistiche, provenienti da vari affluenti. Ma provennero in special modo dall’Ebraismo poiché l’Ebraismo è una religione che molto più di altre ha avuto tendenze verso l’idea messianica, verso un Messia che sta per arrivare e verso una nuova Legge; solo così è stato possibile compiere una vera demitizzazione della vita terrena. L’esperienza del marranismo e dell’esilio patito in terra dagli ebrei ha spinto alcuni gruppi mistici a teorizzare l’esilio di Dio dal mondo e la fine di ogni legge.
L’unica possibile demitizzazione di una religione è probabilmente quella che deriva dal divenir esausto per eccesso del rapporto col mito. Quando Jakob Frank sembrava mitizzare sua figlia Eva nei rituali orgiastici a Offenbach, il mito era in realtà già svanito e ci si trovava di fronte all’antinomismo che, di là dagli pseudo-miti cui ricorre, allude al Dio oscuro che cancella i miti. Qui sta il vincolo paradossale e segreto fra illuminismo e misticismo ebraico: l’uno colse i frutti di demitizzazione dell’altro, che aveva esaurito fino in fondo l’umana facoltà di mitologizzare. Ciò non accadde al cristianesimo.
Oltre ad aprire il suo libro con Junius Frey, è significativo che Jesi decida di chiudere il capitolo citando la figura del falsario nel romanzo Diario del seduttore di Søren Kierkegaard. Sembra un modo per spiegare il rapporto dei mistici con il mondo, o meglio, con i due mondi in cui si trovano a vivere, proprio come il protagonista de Le tre vite di Moses Dobrushka:
Il falsario era tale poiché «la sua anima veniva agitata solo dall’eterno, dal rapporto con Dio, dal rapporto con l’idea» e tuttavia egli compariva «corporeamente nel mondo reale». L’attività del falsario era quella di chi si trovava ad essere ponte vivente fra l’uno e l’altro mondo, soggetto simultaneamente alle leggi etiche contrastanti dell’uno e dell’altro mondo.
Una definizione perfetta, questa, per il protagonista del libro di Scholem. E Jesi, più avanti, sembra fornirne anche un definitivo profilo psicologico:
Il falsario, in fondo, è colui che cerca continuamente nelle disponibili verità un avallo e una motivazione del suo agire.