Le rinnovate Edizioni ShaKe (di cui a giorni sarà on line il nuovo sito) pubblicano tre nuove uscite, di cui una si può definire storica, e storica non soltanto per il refresh della grafica di una colonna portante dell’underground italiano. La traduzione di High Priest di Timothy Leary è un’operazione fondamentale per la saggistica contemporanea, a 50 anni dalla prima edizione (vi fu una significativa revisione nel 1995 – ma di ciò, oltre). Il Gran Sacerdote, splendida traduzione (a opera di Attilio Trentini) del titolo di Leary, che conserva tutta l'(auto)ironia che questo geniale pioniere occidentale dello spirito e della materia intendeva irradiare, è un classico della contemporaneità, di cui si pativa l’assenza sugli scaffali delle librerie italiane.
E’ l’incipit di una furibonda espansione della tradizione che cerca l’oltrepassamento della psiche, fattasi planetaria in anni gloriosi, e rispetto alla quale non ci si può rassegnare avanzando paranoie da controllo statale: lo stesso Leary si domanda, in questa ipnotizzante genealogia che dai funghi conduce ai trip via LSD, i motivi di un fallimento collettivo e generazionale.
Il libro si inscrive in una auspicabile “poetica” delle ShaKe: la collazione di testi fondamentali della cultura degli ultimi cinquant’anni, esperienza editoriale che spalma sulla costruzione antropologica dell’occidente contemporaneo una missione che fu einaudiana, decenni fa, con l’inaugurazione della mitologica “collana viola”. Nulla di viola nella grafica splendida del libro di Leary, ma l’intento di escavare l’antropologia alternativa che ha inventato la contemporaneità è, da un punto di vista storico e politico e intellettuale, una formidabile intuizione che va a riempire una vacanza sine die della grande industria “culturale”. E non si poteva iniziare meglio questo viaggio: Il Gran Sacerdote di Leary è un classico nel senso autentico del termine, perché anticipa lo stato di cose attuale, e lo fa ponendo domande – forma esperienziale di maieutica che il guru di Millbrook tradusse in prassi, con grande scandalo ai tempi, tramutatosi in esotismo ai nostri giorni quando sette grammi delle ceneri di Leary furono inviate nello spazio profondo, insieme all’equivalente ex-corporeo di Gene Roddenberry, il leggendario creatore di uno degli epos contemporanei più fantasmagorici: la saga di Star Trek.
A impreziosire questo saggio che non è un saggio, perché è una contaminazione continua di autobiografia, diario dell’impazzimento, frammenti iniziatici, racconto esperienziale, inserti di citazioni, rappresentazioni grafiche sapienziali, in anticipazione geniale di quanto sarebbe emerso in forma di ipertesto decenni dopo, c’è una memorabile prefazione di Allen Ginsberg, uno dei partecipanti alle sedute di viaggio organizzate dal clan Leary (insieme a Burroughs, Watts, Huxley, Orlovsky e molti altri cervelli tesi a fare esplodere cervelli). Ginsberg inquadra il problema in una mossa che è spiazzante soltanto per chi non conosca la profonda influenza che l’induismo non-dualista ebbe sui Beat: considera Leary un’epifania di un neo-gnosticismo che – non importa se “religiosità secondaria” alla Spengler – è teso alla destrutturazione delle pratiche di potere consolidato negli anni Sessanta e, ahinoi, ancor più solido oggi. Basterà un passo per accorgersene:
“Data una simile Commedia storica, chi mai poteva spuntare dalla tecnologia di Harvard se non l’unico e solo dottor Leary, un essere umano degno, un uomo di mondo alle prese con il compito di Messia. Inevitabile! Non solo perché l’intero campo della psicologia come ‘scienza’ era arrivato comunque alla biochimica. Era inevitabile perché l’intero mondo civilizzato acculturato doveva affrontare, come il dottor Leary, il compito messianico dell’evoluzione accelerata (cioè la Rivoluzione psicosociale), compresa un’alterazione della coscienza che portasse al cambiamento immediato delle forme economiche e sociali. Questa epifania sconvolgente, psichedelica, cioè che allarga la coscienza e manifesta la mente, ma senza l’utilizzo di catalizzatori sintetici, era allora imposta a tutti noi dalle immagini del nostro inconscio che arrivavano dalle strade di Chicago, quando lanciarono i gas lacrimogeni sulla stessa croce di Cristo a Lincoln Park, nell’anno del Signore 1968. Le fogne rigurgitano nella città, smog rumore e veleno fisiologico presente nei cibi ci trasformano in mezzi insetti, la sovrappopolazione fa esplodere il pianeta, i nostri laghi marciscono, i vecchi fiumi diventano nere paludi, i carri armati sono entrati negli stessi giorni a Praga e Chicago, la Polizia di Stato fa irruzione in ogni grande città, la fame devasta le terre africane, il genocidio cinese in Tibet rispecchia il genocidio americano in Vietnam…”
Fate da voi il calcolo e constaterete che, mutando qualche nome (Chicago con Seattle o Genova, Vietnam con Iraq) la situazione di cornice in cui Ginsberg colloca la rivoluzione-Leary è praticamente immutata. Ma in cosa consisteva questa rivoluzione?
Timothy Leary evase dal carcere il 3 settembre 1970. Era stato imprigionato dopo una lunga, tortuosa, cavillosa battaglia legale in seguito al supposto ritrovamento (in realtà, una manovra tipica poliziesca di inoculazione prove) di due spinelli a bordo della sua auto diretta verso il Messico. A quel punto, Leary era già, per dirla con Nixon, “l’uomo più pericoloso degli Stati Uniti”. E lo era per il motivo additato da Ginsberg: era l’uomo che faceva emergere, grazie a supporti sintetici, una consapevolezza collettiva dell’illusorietà di ogni ideologia di controllo – praticamente minava dalle fondamenta l’organizzazione che pretende democraticamente da cinquant’anni di proteggerci a manganellate. Vale però la pena di scrutare in questa opera rivoluzionaria e di ravvedere i contorni degli inizi. Non è un caso se, ne Il Gran Sacerdote, Leary cominci da Dante: ne cita letteralmente l’incipit della Commedia e descrive minuziosamente la propria crisi personale, in Spagna sulla Costa del Sol, misurando il grado di riduzionismo a cui la psicologia era giunta e verso cui stava sprofondando. Inizia una rottura nelle già non molto solide convinzioni dello scienziato riduzionista Leary: la frizione tra individuo (visto sotto i prospetti tirannici dell’epistemologia dell’azione-reazione, malattia-cura) e mondo lo conduce prima a una profonda depressione esistenziale e poi a quella che, prestando fede alle parole dello stesso Leary, ha tutti i connotati di una morte iniziatica, che include una psicosomatosi devastante, che davvero lo conduce a un passo dall’estinzione fisica e dalla quale esce soltanto attraverso “l’illuminazione” di non essere il proprio corpo. Inizia, quindi, il più classico dei percorsi ascetici, il che giustifica la sconcertante messe di citazioni da Scritture Sacre di ogni metafisica (a ogni capitolo, per esempio, un diagramma dall’I-Ching, con verdetto sapienziale, tutto da interpretare), mentre come un controcanto, ai margini grafici del diario, scorrono versi biblici, citazioni da saggi e romanzi di sapore antropologico, sciamanico, misteriosofico. Questa è una corazza metaforica che, ai tempi, parve a Leary opportuna e di cui, ad altezza 1995, nel fondamentale addendum della nuova prefazione, va orgoglioso. Poiché non è la cristallizzazione culturale che interessa a Leary, quanto l’esperienza dell’allargamento di coscienza, una prassi che la psicologia occidentale (e quindi l’Occidente tutto) ha rimosso sistematicamente. Che ciò avvenga tramite prodotti naturali (vedasi l’iniziazione all’uso dei funghi nella memorabile esperienza allucinatoria in una villa a Cuernavaca) oppure attraverso l’utilizzo guidato di prodotti di sintesi (la molecola dell’acido lisergico), la fondamentale meta del viaggio evocato da Leary è quella che ogni tradizione (afferente allo sciamanesimo o allo yoga o alla vipassana o alla meditazione sulle Sephirot o all’esicasmo ortodosso o alle pratiche sufi o alla concentrazione taoista) tenta di spalancare all’ignaro essere umano: il reticolo fondamentale è lo sfondo di ogni esperienza ed esso è in forma di continuità della sensazione di essere, la consapevolezza pura, o quello che Leary simbolizza con l’Occhio (“eye”) in cui campeggia I (“io” in inglese, medesima pronuncia di “eye”).
Leary non viene affatto ingannato dal corollario al pantone del trip. Le visioni gli servono (a lui come agli altri partecipanti che stendono i rapporti di “viaggio” di cui si compone il libro) per percorrere ex contrario l’evoluzione, per mettere sotto uno sguardo non fisico la linea ontologenetica e filogenetica che determina l’attuale configurazione della specie (vedansi le meravigliose allucinazioni in cui Leary torna essere bicellulare agli inizi della vita sul pianeta). E soltanto da una simile apertura, che decreta che la mente è un prodotto della coscienza, illuminata da essa ma nient’affatto identificantesi con l’umano, sorge prepotente in Leary il conato politico, la consapevolezza del rischio di specie, che Ginsberg nomina con terminologia induista nella sua prefazione: Kali-Yuga, età della fine, del rovesciamento.
Attenzione, tuttavia: nessun pessimismo, nessuna rivolta contro il mondo moderno. Leary non guarda alla presunta età dell’oro di un’iniziazione alla coscienza allargata condivisa – punta piuttosto il suo sguardo sul futuro, consapevole che ogni fine non è mai una fine, ma un altro inizio. Per questo, in maniera tanto sorprendente, Leary opta per un aggiornamento continuo circa mezzi che siano “vettori di luce”, fino a congiungersi negli Ottanta col movimento cyberpunk e nel ravvisare, nella possibilità di reti e network, un’uscita dall’isolamento dell'”io” che si identifica con la mente. Dopo la cartografia farmacologica che, con l’aiuto di Burroughs (memorabile un suo aneddoto sull’uso del DMT osservato in quel di Londra) e di Watts, il problema per Leary è che il soggetto sia adeguato ai mezzi e il mezzo adeguato ai soggetti: è questa la radice politica della rivoluzione-Leary. Poiché, laddove la trascendenza di quella triade che Leary individua in “ego-spazio-tempo” sia realizzata con pratiche graduali di “viaggi”, l’uomo è liberato dalle costrizioni illusorie a cui concede credito gratuito, pagandone di ritorno un salatissimo prezzo. L’incapacità di trasmissione di questa verità, cioè che noi non siamo “la bobina della vita” che svolgiamo, assilla Leary fin dal 1968:
“Cinque ore dopo aver mangiato i funghi era cambiato tutto. La rivelazione era giunta. Il velo era stato strappato. La visione classica. L’esperienza piena della conversione. La chiamata profetica. Le opere. Dio aveva parlato. Fu per me il viaggio autentico di Mosè, Maometto, Blake, Boehme, Shankara, S. Giovanni della Croce. Ora, sia ben chiaro, non mi paragono a questi popolari, eloquenti, efficaci radiocronisti che trasmettono dalla stazione radio centrale. Milioni di persone incoerenti, sconosciute, inefficienti sono inciampate sul nastro di telescrivente di un miliardo d’anni e sono stati incapaci di trasmetterlo e di adattarlo alla società. Ma, credeteci, il messaggio è lo stesso.”
Questa trasmissione agli altri di una verità aperta e vuota, inesistente perché coincide con la totalità dell’essere, è lo snodo politico fondamentale che Leary ha cercato di imboccare per percorrere la giusta direzione. Nel 1995, tuttavia, prendendosi per il culo rispetto all’enfasi speranzosa di certi passi dell’introduzione originale di High Priest, è costretto a verificare quanto fallimentare sia stato l’esito di questa intenzione originaria, non originale: la collettività continua a non recepire la verità vuota e rimane impigliata nell’identificazione con le forme, che in Occidente esplode in un neoperbenismo tutto da mappare. Constatazione che non gli ha impedito, con il suo tentativo eroico di mettere a disposizione dell’Occidente intero quel nastro di telescrivente nella sua totalità, di avere fatto la storia: la storia della controcultura moderna e contemporanea, sicché Il Gran Sacerdote ha una valenza ulteriore – quella di impagabile testimonianza diretta di un incrocio di menti fondanti un movimento di lunghissima durata (tanto che giunge intatto ai nostri giorni), che ha configurato un immaginario alternativo a quello instillato dal monologo del Potere. Leggere i 16 trip di questo resoconto impazzito, che sta tra i Quattro quartetti di Eliot e i finti romanzi di Burroughs, anche solo sul piano della memorialistica e dell’esperienza di una gnosi personale e collettiva, così psichedelica da risultare sconcertante al giovane Ginsberg (ma non all’altezza in cui scrive la prefazione: a questo punto è anche lui un “iniziato”) è liberatorio e catartico: basta guardarsi attorno e si vedrà con che furia si riaprono le pagine di Leary, per ricavarne la salvezza o, almeno, una boccata di ossigeno.
Oggi le previsioni di Leary sono attualità e futuro. L’àmbito disciplinare in cui si sta decidendo la sorte della visione del mondo e dell’umano nei prossimi decenni, con una battaglia che preannuncia l’Armageddon, sono le neuroscienze, proprio come preconizzato da Leary: lo scontro tra riduzionisti (pre-crisi Leary) ed emergentisti (post-illuminazione Leary) è determinante almeno quanto la direzione che le varie discipline della fisica, dal quantismo al nuovo paradigma ologrammatico, stanno percorrendo.
Per questo, soprattutto per questo, oltre che per le storie di storie e la mitopoiesi che Leary ha saputo costruire esperendola, Il Gran Sacerdote di Timothy Leary è il saggio più importante uscito in Italia quest’anno.
Timothy Leary – Il Gran Sacerdote – ShaKe Edizioni – 19 euro