di Girolamo De Michele
[NB: Questo testo esprime le idee personali dell’autore e non è rappresentativo della redazione di Carmilla.]
“People can be so cold / They’ll hurt you and desert you / Well they’ll take your soul if you let them”
(Carole King – James Taylor)
Conoscere una città significa perdervisi, diceva un filosofo che conosceva Parigi come pochi: significa lasciarsi guidare dalle sue suggestioni, dai suoi mille segni, dai nomi delle vie. Significa privilegiare la via più lenta, non quella più immediata: e fare della topografia un’etica.
Da rue Nicolas Appert, dov’era la redazione di Charlie Hebdo, a place de la République sono una ventina di minuti, a piedi. Diventano molti di più se li si percorre cercando di cogliere tutto ciò che si annida in quelle strade. Non sono sicuro di aver capito tutto, ma almeno ci ho provato.
Il cielo di Parigi, quel giorno, era scuro e nuvoloso, e l’aria sferzata dal vento del nord: come nei versi di Carole King: If the sky above you / should turn dark and full of clouds / and that old north wind should begin to blow – ma dove, in questi giorni, non lo è?
1. Touche pas à ma liberté d’expression
10, rue Nicolas Appert
Dunque qui lavorava una redazione giornalistica sterminata da due terroristi armati di AK-47. La redazione di Charlie Hebdo, quella delle famigerate vignette che…
No, un momento: qui non è questione di quelle o altre vignette. La questione è una, e una solo: quei 10 corpi accatastati uno sull’altro in un giornale, più il portinaio ammazzato nella sua portineria, un gardien de la paix ammazzato a freddo poco più in là, sul boulevard; e, nei giorni a seguire, una guardia municipale a Montrouge, e 4 ostaggi nel negozio kosher di Porte de Vincennes. Morti che pesano come montagne.
Perché delle vignette se n’è parlato a più riprese, a torto e a ragione, per otto anni: e tutto quello che poteva esser detto pro o contro, è stato detto. E perché molti dei sottili distinguo che separano la libertà d’espressione e il diritto di satira dal vilipendio e dall’uso scriteriato dei diritti, che per otto anni sono stati argomento di pubblico dibattito, erano irrilevanti, fors’anche ignoti, e di certo impercepibili da parte dei fratelli Kouachy.
Per dire: non facevano più ridere? I Kouachy non avrebbero riso neanche con Gipi e Zerocalcare…
La questione non è neanche quella della protezione di Charlie Hebdo, che era stata ritirata (sulla
Street View di Google Maps, aggiornata ad agosto, è ancora visibile la sorveglianza dell’ingresso della redazione): il ritiro della vigilanza è argomento rilevante in altro genere di discussioni. Ma con franchezza bisogne ammettere che il commando costituito da due fratelli militarmente preparati e armati, imbevuti di ideologia Takfir, ma per altro verso privi di supporto logistico, di capacità organizzativa e di conoscenze financo elementari (chessò, sorvegliare l’ingresso dell’obiettivo; piazzare un palo, se non un supporto armato, sulle vie d’accesso; allacciarsi le scarpe…), avrebbe comunque trovato un target alternativo di grande rilevanza mediatica – forse quell’asilo ebraico che era l’obiettivo iniziale di Amedy Coulibaly.
Ma c’è un ma: è stato colpito un giornale, sono stati massacrati (non solo, ma anche) dei giornalisti.
Questo crea un precedente: nella logica dell’escalation militare (dell’innalzamento del livello di scontro, si sarebbe detto in altri anni), motivata dal bisogno di clamore mediatico – per dirla con cinico realismo: nella logica di vendere meglio un prodotto al-Qaeda rispetto a quello dei rivali del Daesh (=Isis), in una logica di rilancio continuo – non si torna indietro. D’ora in poi, giornalisti e scrittori sono un target anche in Occidente: la logica di eliminazione fisica di giornalisti e scrittori come strumento per l’eliminazione materiale della libertà di espressione è stata esportata dal Medio Oriente all’Europa. D’ora in poi, un giornalista o uno scrittore “scomodo”1 può essere intimidito, imbavagliato, o eliminato costruendogli il profilo di target ideale e facendo filtrare il suo nome.
Questo è il punto: la libertà d’espressione – non quella formale, scritta nei principi astratti: quella concreta, che consiste in produzioni d’informazione, inchieste, prese di parola e quant’altro vi viene in mente. Quella libertà d’espressione stretta nelle maglie di un conflitto nel quale non ci sono solo due attori, uno buono e uno cattivo, ma una pluralità di attori, tutti – seppur in diversi gradi – cattivi.
E le condizioni materiali di tutela e, soprattutto, auto-tutela di questa libertà.
2. Le rêve aux loups (Allarmi, son fascisti!)
Passage Sainte-Anne Popincourt
Uscendo da rue Nicolas Appert ci si sente osservati da sguardi malvagi: lupi purpurei con occhi di bragia sui muri separati dal passage. Sono graffiti stampati dall’autore di un romanzetto probabilmente pessimo, di sicuro rancoroso (Le rêve aux loups): pubblicità, insomma, destinata ad essere sommersa da ben altri clamori mediatici. Restano questi lupi feroci che ti guardano mentre mediti sul fatto che questi jihadisti sono dei fascisti, senza se e senza ma. E che questa strage costringerà a riformulare, ad ampliare il concetto di fascismo.
Lo si potrebbe argomentare in molti modi, scelgo di farlo con una voce che viene da piazza Tahir2: Alaa el-Aswani, romanziere di fama, ma anche attivista politico contro (nello stesso tempo) la dittatura di Mubarak e il fondamentalismo salafita della Fratellanza Musulmana. El-Aswani ha partecipato sia all’accampata di piazza Tahir – narrando le morti degli accampati al suo fianco per mano dei cecchini – sia alla rivolta contro la dittatura fondamentalista instaurata da Morsi3. In un articolo dell’ottobre 2011, L’Egitto di fronte al fascismo4, el-Aswani, dopo aver spiegato ai lettori egiziani l’origine del termine “fascismo”, cala nella realtà egiziana questo concetto politico:
«Purtroppo il concetto di fascismo si adatta a numerosi partigiani dell’islam che credono di esserne i soli rappresentanti; che considerano come nemici tutti quelli che non sono d’accordo con le loro opinioni, e che sono pronti a imporre le proprie idee con la forza. La loro storia è piena di crimini e aggressioni contro chiese e mausolei, di incendio e saccheggio di negozi e magazzini copti [minoranza religiosa discriminata e perseguitata dai fondamentalisti islamici in Egitto]».
Citando la persecuzione dello scrittore Nagib Mahfuz, accusato dai fondamentalisti di essere «responsabile della decadenza morale degli egiziani con i suoi romanzi pornografici», el-Aswani avverte: questo «fascismo religioso che sfrutta i sentimenti religiosi degli egiziani per arrivare al potere […] non è un prodotto originario dell’Egitto», ma dei fiumi di denaro provenienti dal petrolio saudita di cui dispongono i gruppi salafiti wahhabiti. E – argomenta in altri articoli – dell’indottrinamento degli emigrati che sono andati a cercare lavoro nell’Arabia saudita wahhabita, e del potere mediatico dei predicatori televisivi (i cui programmi si moltiplicano perché veicolano, con i loro indici di ascolto, maggiori introiti pubblicitari per le emittenti televisive). A scanso di equivoci, el-Aswani è un musulmano credente, imparentato con figure importanti del clero musulmano egiziano: ma rifiuta il fanatismo che riduce «la religione ai galabieh e agli hidjab»5.
Il riferimento al denaro saudita coglie un aspetto importante: il contesto geo-politico mediorientale, segnato dalla geometria variabile delle politiche imperiali statunitensi e delle mosse e contromosse delle altre potenze locali. Politiche che creano e sostengono il fondamentalismo, ma delle quali i fondamentalisti a loro volta si servono con astuzia e pragmatismo (proprio come le dinamiche di reciproca infiltrazione e strumentalizzazione fra servizi cosiddetti “deviati” e gruppi eversivi neofascisti fra piazza Fontana e la stazione di Bologna): il che non impedisce al romanziere di riconoscere una soggettività politica agli jihadisti (piuttosto che crederli semplici burattini), di comprenderne la pericolosità dei comportamenti politici, e di riconoscerli come nemici da combattere.
3. Écrasez l’Infâme
Boulevard Voltaire
Ogni articolo di el-Aswani si conclude con la stessa frase: La democrazia è la soluzione. Quasi ogni articolo ribatte su quattro parole chiave: libertà, uguaglianza, giustizia, democrazia. Chi in questi giorni ha appiattito il significato di queste parole – un evidente calco della triade Liberté Égalité Fraternité – sul formalismo liberale dovrebbe riflettere sul fatto che queste sono parole d’ordine provenienti dalla rivolta di piazza Tahir, dove si lottava e si moriva non per astratte parole, ma per la concretizzazione materiale di questi principi. Fosse mai necessario, basterebbe a ricordarcelo il nome celebre e abusato di Voltaire, che col proprio boulevard interseca il boulevard Richard Lenoir.
Si, certo, Voltaire: quello di quella frasetta sul morire per la tua opinione che non condivido, che tutti sanno – e che Voltaire non ha mai detto. E che, soprattutto, ha l’effetto di esentare dalla conoscenza del Trattato sulla tolleranza, del quale ricorrono quest’anno i 250 dalla pubblicazione: a distanza dei quali bisogna riconoscere che sembra essersi perduta la memoria di cosa davvero significava, nel XVIII secolo, parlare di “tolleranza”. Trattato che contiene in sé i principi della Rivoluzione Francese, e anche qualcosa di più: la descrizione di un mondo non di astratti principi, ma reale, con le proprie norme e relazioni, nel quale in nome della tolleranza si concretizzano gli altrimenti astratti principi della triade rivoluzionaria. Una cosa così, per capirci:
Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Cizre e Kobane, una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo questa Carta. Con l’intento di perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla reciproca comprensione e la pacifica convivenza fra tutti gli strati della società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, riaffermando il principio di autodeterminazione dei popoli.
Se poi valga la pena di morirvi, fate voi: per i popoli di Rojava, sì.
Una breve, ma necessaria precisazione: una cosa è la concezione liberale di libertà, eguaglianza e fratellanza, un’altra quella concreta, materialista – si può dire: comunista? (L’armata dei sonnambuli dei Wu Ming, su questo, sarebbe dovuto bastare ad abundantiam…). Così come un conto è opporsi ai principi della rivoluzione francese perché sono rimasti sulla carta – dunque lottare per concretizzarli nelle vite e nei corpi degli esseri umani, un conto opporvisi perché si è contrari alla libertà, all’eguaglianza, alla fraternità – dunque lottare, come fanno i fascisti di ogni risma e colore, fra i quali gli ubriachi di ideologia salafita e jihadista, per una società governato dalla disuguaglianza, dalla servitù e… qual è il contrario di fratellanza?
Il contrario di fratellanza è “schiavitù”: perché Fraternité significava abolizione della schiavitù. Il che, nell’ideologia jihadista, è un male del tempo presente, un abbaglio satanico:
Before Shaytan [=Satana] reveals his doubts to the weak-minded and weak hearted, one should remember that enslaving the families of the kuffar [=miscredente] and taking their women as concubines is a firmly established aspect of the Shari’ah that if one were to deny or mock, he would be denying or mocking the verses of the Qur’an and the narrations of the Prophet, and thereby apostatizing from Islam. Finally, a number of contemporary scholars have mentioned that the desertion of slavery had led to an increase in fāhishah (adultery, fornication, etc.), because the shar’i alternative to marriage is not available, so a man who cannot afford marriage to a free woman finds himself surrounded by temptation towards sin. In addition, many Muslim families who have hired maids to work at their homes, face the fitnah [=disagio, sofferenza] of prohibited khalwah (seclusion) and resultant zina [=rapporti sessuali non legittimati dal matrimonio] occurring between the man and the maid, whereas if she were his concubine, this relationship would be legal. This again is from the consequences of abandoning jihad and chasing after the dunya [=il mondo terreno].
Questa citazione è tratta da Dabiq, il magazine del Daesh6. Si potrebbe rafforzare questo argomento con alcune analisi testuali sui diversi numeri di Dabiq: ad esempio sulla ricorrenza della parola “woman” nei 5 numeri finora pubblicati: dalla cui inesistenza si evince come la donna non sia non solo soggetto di diritto, ma men che meno soggetto; o della parola “oil”: la cui assenza conferma l’attitudine fascista a mascherare dietro paraventi ideologici – razza, credo, popolo, Stato – la radice economica dei conflitti.
O analizzare le modalità di propaganda jihadista – l’islamismo twitter e il gore You Tube, per dirla con Serge Quadruppani – per trovare pregnanti analogie con, ad esempio, le ultime produzioni grafiche ideologically troglodytic di Frank Miller: in particolare, l’uso mediatico dello sgozzamento come rituale necropolitico7, come modalità di scatenamento emotivo-retorico che si sostituisce all’uso del logos e della ragione. Ma, per l’appunto: Frank Miller è un fascista, e della sua fascistità nessuno (al di fuori dei frequentanti di casapound e simili) dubita.
Voltaire, si diceva, e il suo concetto di tolleranza. C’è un corpo vivente che, nel suo essere moltitudine, la descrive e la esprime più d’ogni parola: Lassana Bathily, il migrante maliano, nero, musulmano, banlieuesard del foyer Bara (la P’tite Bamako) di Seine-Saint-Denis che lavorava come commesso nell’ipermercato kosher di Porte de Vincennes. Lassana Bathily, uno di quelli che in Italia arrivano con Mare Nostrum; uno di quelli che “perché non te li prendi a casa tu”, che “meglio se restano a casa loro, invece di portare malattie qui”, come dicono fascisti e razzisti; Lassana Bathily, che se non c’era, c’erano 15 ostaggi morti in più; Lassana Bathily, che è stato arrestato e interrogato per un’ora (un’ora preziosa persa), prima che i gorilla delle forze speciali capissero che non era un complice di Coulibaly. Ecco: la tolleranza di cui scriveva Voltaire può essere un mondo reale, nel quale i Lassana Bathily hanno diritto di cittadinanza anche senza compiere gesti eroici. Un mondo per cui vale la pena di battersi, e continuare a gridare: Écrasez l’Infâme!
4. Je suis Ahmed
132, boulevard Richard Lenoir
Per un autore di romanzi polizieschi, o per un semplice lettore, il numero 132 del boulevard Richard Lenoir non è un indirizzo qualunque: lì, ogni sera, rincasava il commissario Maigret (tranne la breve parentesi in cui si trasferì in place des Vosges). Maigret è una figura di rilievo nel genere poliziesco. Non è ancora arrivato il noir dei Malet e Manchette, ma qualcosa di torbido comincia già a filtrare: la grettezza, l’ipocrisia, il sordido rancore della società piccolo-borghese, il cui grigiore diverrà cupa tenebra nei film di Clouzot. Jules Maigret non è un un poliziotto legge-e-ordine: ha simpatia per i piccoli delinquenti, per la “vecchia mala”, a volte lascia andare i colpevoli (come nel magistrale Le pendu de Saint-Pholien). Simenon gli ha dato due regole: “comprendere e non giudicare, perché ci sono soltanto vittime e non colpevoli”; “non bisognerebbe mai togliere all’essere umano la sua dignità personale”. Il mondo (fors’anche ai tempi di Maigret) non è quello dei gialli di Simenon: chi vuole leggere la realtà con le chiavi del poliziesco fa meglio, oggi, a rivolgersi a David Simon e Olivier Marchal. Ma l’estrema lontananza del mondo di Maigret ci rende quel mondo come un passato remoto che si mostra come un presente desiderabile, ovvero come un futuro potenziale (un futuro anteriore): un mondo di essere umani dotati di dignità.
Quella dignità che è stata negata ad Ahmed Merabet, l’essere umano ucciso come un animale sul boulevard Richard Lenoir.
Si, certo: era un poliziotto, come gli altri due suoi colleghi uccisi poteva scegliere un altro mestiere. Anche i giornalisti di Charlie Hebdo, del resto, potevano disegnare altre vignette. Quanto agli acquirenti e all’inserviente del negozio kosher, potevano non nascere ebrei. Ci restano un portinaio, due visitatori occasionali, e un impiegato: vogliamo definirli epifenomeni sovrastrutturali che non incidono sulla tendenza?
E una volta che finiamo col ragionare così, in cosa siamo diversi dal fascio-jihadista che cerca nel kalashnikov un sostitutivo della propria impotenza?
Ma Ahmed Merabet, mentre moriva, non era un poliziotto. Lo era stato, come era stato molte cose: un musulmano, un immigrato di seconda generazione, un franco-arabo; un banlieuesard che era riuscito a studiare (ci vuole il Bac per fare il gardien de la paix), nato nella famigerata Seine-Saint-Denis8. Ma in quel momento, mentre implorava il fascio-jahdista che stava per dargli il colpo di grazia, non era nulla di ciò – men che meno, nella sua impotenza di essere umano disarmato e ferito, un flic: era una nuda vita in pugno a un essere inumano. Ci sono dei filosofi che, per ragioni che non ho mai compreso, hanno teorizzato l’esistenza di una “nuda vita” che precederebbe ogni altra attribuzione e qualificazione. No, non esiste alcuna nuda vita: esiste solo la vita denudata, spogliata di ogni essenza e ridotta a un mero corpo. Ridurre l’essere umano a nuda vita è qualcosa che ha a che fare con l’espropriazione dell’essenza umana di cui scriveva Marx, e con la riduzione a quella condizione di impotenza assoluta che si esperiva ad Auschwitz (condizione per la quale valeva l’appellativo di “musulmano”, testimonia Primo Levi).
«I Fratelli [Musulmani] e gli sceicchi salafiti hanno l’abitudine di negare la natura umana dei loro oppositori. Non considerano i loro oppositori esseri umani come loro, ma li classificano sotto l’etichetta negativa di “laici”, “seguaci dell’Occidente” o “nemici della shari’a”»9, scrive el-Aswani. Le stesse dinamiche, con un’analisi più raffinata, sono descritte da Didier Fassin come “intolleranza alla tolleranza” che fa sì che gli appartenenti a un corpo chiuso si sentano legittimati a farsi giustizia da sé, secondo un’economia morale che nega la percezione dell’altro come essere portatore di dignità e umanità, così come rende impercepibile il carattere immorale dell’esercizio arbitrario della violenza: la violenza esercitata è anzi percepita come inscritta all’interno di uno spazio morale nel quale i “buoni” infliggono una “giusta” punizione ai “colpevoli”10. Se non che, le dinamiche descritte da Fassin sono quelle, fasciste e razziste, delle Brigate Anti Criminalità, cioè dei corpi speciali impiegati dalla polizia nelle banlieue. Il fascio-jihadismo interiorizza i comportamenti del “nemico” (compresa l’attitudine ad agire secondo modalità da racket delinquenziale), senza percepirne l’apparente paradossalità (un fenomeno noto come “dissonanza cognitiva”). Ahmed Merabet era un essere umano spogliato della propria umanità prima di essere assassinato da un essere inumano che non gli riconosceva alcuna dignità. Una combattente curda, nel reportage da Kobane di Zerocalcare, spiega qual è la differenza: «A noi nessuno può venirci a dare lezioni di Islam. Sono quelli dell’Isis a non essere musulmani. Noi rispettiamo tutti. Noi seppelliamo i morti. Anche i loro».
Tutto questo, ancor più dell’ashtag #jesuisahmed, è esemplificato da un cartello lasciato davanti alla redazione di Charlie Hebdo: Je suis humain.
Con le parole di Vittorio Vik Arrigoni: restiamo umani. Vik è stato assassinato da fanatici salafiti ai quali era stato “indicato” come pervertitore della morale della gioventù, mentre accompagnava alla critica della pulizia etnica del governo sionista su Gaza, la critica al carattere antidemocratico del governo di Hamas: era il 2011.
5. #jesuishumain
Place de la République
Place de la République è il luogo nel quale un sit in proclamato da un’associazione di giornalisti francesi s’è trasformato in una manifestazione di massa la sera del 7 gennaio, per proseguire nei giorni successivi: #jesuischarlie11.
Non avendo di meglio da dire o da fare, in molti si sono esercitati nei distinguo tra cosa significa “essere” e “non essere” Charlie: laddove un’inesistente gauche francese avrebbe dovuto chiedersi perché non era in grado di lanciare parole d’ordine diverse in grado di agglutinare corpi e consenso. Viene il sospetto che la moltitudine, o le masse, o come si vogliano chiamare centinaia di migliaia (milioni, alla fine) di individui che si radunano e agiscono vadano bene solo a patto di fare, “spontaneamente”, quel che altri ritengono debbano dire e fare. Eppure, Charlie o non Charlie, quella moltitudine ha reagito all’uso politico della paura – il “governo della paura”, come lo chiama Marc Crépon, la “politica della paura”, come la chiama Serge Quadruppani –; ha espulso sin dalla prima sera dalla piazza chi si era presentato con l’intenzione di bruciare il Corano o con bandiere del FN; non ha fatto proprie le richieste sicuritarie di un Patriot Act in salsa francese (lo scambio libertà-sicurezza, la limitazione del trattato di Schengen); ha creato le condizioni perché il Front National fosse tenuto al di fuori della piazza12. Tutto questo è accaduto prima della pagliacciata dei capi di Stato che hanno cercato di mettere il loro cappello su una piazza nella quale non c’erano.
Dice: ma si sono stretti attorno ai valori della Francia coloniale, alla ragione bianca e occidentale (#jesuischarlie = je suis blac = je suis occidental?)…
Dice ancora: ma nelle manifestazioni del 7-11 la banlieue non c’era (davvero? e, ad esempio, i familiari e amici di Ahmed Merabet?)…
È quasi incredibile la semplificazione che sottende questi discorsi. A partire dall’identità bianca e coloniale della République: come se nella storia della Francia ci fossero solo le guerre coloniali, e non anche la resistenza e il maggio ’68. Sul numero di Philosophie magazine uscito due settimane dopo la strage, in un serrato dialogo col filosofo identitario Finkielkraut, Marc Crépon afferma: «L’identità della Francia, come ogni identità collettiva, deve prima di tutto essere compresa come identità relazionale. L’identità non è qualcosa che si tiene da sola, è il risultato di una storia. E questa storia integra ciò che ci ha messo in relazione col resto del mondo»13. Solo appiattendo questa complessa stratificazione sul momento coloniale si può ignorare che persino l’appello a una Repubblica i cui valori, nella costituzione materiale, si sono affievoliti può significare, da parte di chi li invoca, il diritto a una società diversa, nella quale i diritti astratti ridiventano concreti: che è quello che almeno una parte di place République intendeva nell’identificarsi con la vittima-Charlie, contro chi vuole costruire un modo asservito, disuguale e schiavo.
Ancor più grave è la schematizzazione meccanica di due linee del colore – quella bianca-occidentale contrapposta a quella nera-banlieue: come se ci fossero due sole linee del colore, come se la linea del colore coincidesse con quella che separa la miseria dal benessere. Come se non intervenissero altre linee invisibili, e non solo nelle banlieue: ad esempio, quelle che trasportano i conflitti mediorientali all’interno delle comunità ebraica e araba.
Proiettare le proprie chiavi di lettura universali su realtà distanti, nella convinzione che esse realtà siano intellegibili in funzione dell’universalità delle categorie: non c’è nulla di più “occidentale”, “bianco”, culturalmente imperialista. Col risultato di interiorizzare quelle semplificazioni derivanti dalla riduzione dell’altro allo stesso, quella reificazione della soggettività messe in atto dall’ordine del discorso politico – i banlieuesard contro i parigini, i poveri contro ricchi, i neri contro i bianchi, i selvaggi contro gli studenti, gli indignati contro la République, ecc. – allo scopo di «poter leggere con facilità questa strana soggettività che emerge, fissare il volto e dire il nome»14.
E infine: quale sociologismo da quattro soldi, quale determinismo che neanche nei tribunali sovietici – e che ignora la contraddizione costituita dai due banlieuesard di questa storia: Ahmed Merabet e Lassana Bathly – si cela dietro i benaltrismi sulla banlieue, che glissano sul dato duro della responsabilità politica, della scelta etica individuale, dell’esistenza di processi di soggettivazione che avvengono lungo spazi, linee di comunicazione, filiere gestite come racket malavitosi, che riterritorializzano sui crinali di produzione dell’odio le linee di fuga determinate dalla crisi di governabilità dei territori urbani – o forse, della messa a profitto di queste linee di crisi?
Non si tratta di sapere chi si è, men che meno di aggrapparsi a un’identità. Si tratta, però di sapere cosa non si vuol diventare, cos’è giusto e cosa non lo è: #jesuishumain.
Post scriptum: Hey, ain’t it good to know that you’ve got a friend?
Hôtel de Ville
Da République, con la linea 11 della metro, si può arrivare in pochi minuti all’Hôtel de Ville, dove un’ipocrita Stato ha conferito post mortem la cittadinanza onoraria a quel Charlie Hebdo che non ha voluto proteggere. Alla commemorazione funebre, com’è noto, è intervenuto James Taylor, con un gesto che lì per lì m’è sembrato strano: arrampicato su uno sgabello, ha suonato qualche nota della Marsigliese, per poi usare come ponte una nota in comune ed eseguire senza soluzione di continuità You’ve got a friend. Mi sarebbe dovuto suonare smielato, retorico: e invece no.
Ma ho faticato a capire perché: finché non me l’ha fatto comprendere Zerocalcare, col suo reportage su Kobane. Nel quale lui stesso di chiedeva cosa l’ha davvero spinto, al di là delle motivazioni “razionali”, a partire per Kobane (lui: io sono un povero stronzo che a Kobane non c’è andato e non ci andrà): il cuore. Quel muscolo che dovrebbe pompare sangue e non sentimenti: e dentro il quale (in culo all’anatomia e alla verità della medicina) pompano «gli insegnamenti, le cose trasmesse, quelle che ti hanno fatto piangere, quelle che ti hanno fatto ridere, il sangue che ti ribolliva dentro e quello che ti hanno fatto sputare fuori». In una parola, le passioni: quanto di più politico esista. You’ve got a friend parla di passioni tristi, di uomini gelidi che ti feriscono, che cercano di portarti via l’anima. E di esseri umani che davanti alla tragedia quotidiana (non importa quanto grande o piccola sia) cercano una via d’uscita non nell’obbedienza assoluta a una qualche guida, non nel vittimismo paranoico, non nella demonizzazione dell’altro, non nell’esistenza di un complotto globale15 – non nell’assoggettamento alle passioni tristi, ma nel cercare una relazione con l’altro che si trasformi in processo di soggettivazione. Creare una relazione con l’altro è cosa tutt’altro che banale: comporta scelte, conflitti, la stessa accettazione della guerra come situazione-limite rispetto a una modalità relazionale. I due ragazzi kurdi nell’immagine qui sopra lo sanno bene, ciascuno di loro può sussurrare, mentre che il vento della guerra, come fa, si tace: You’ve got a friend.
Tutte le immagini, tranne l’ultima, sono state scattate da me. Una delle matite nella foto in alto era la mia
Uno che, poniamo, denunci eliminazioni mirate dei leader delle comunità migranti mascherate da risse di strada da parte delle forze dell’ordine: uno come il Salman Rushdie dei Versi satanici, per capirci; uno che cominci a fiutare l’aria in redazione e intuisca che qualcosa che ancora non era nota come P2 sia diventata il vero padrone del primo quotidiano d’Italia: uno come Walter Tobagi, per capirci ancora; uno come Vik Arrigoni, per continuare a capirci… ↩
Non dalle caffetterie o dagli hotel a 5 stelle del Cairo dai quali in genere scrivono gli inviati della “grande stampa”. ↩
Con i decreti che lo trasformavano in un sovrano legibus solutus: una procedura analoga a quella seguita da Hitler. ↩
Alaa El Aswany [el-Aswani], Extrémisme religieux et dictature. Les deux faces d’un malheur historique, traduit de l’arabe par Gilles Gauthier, Actes Sud, 2014, pp. 136-143. ↩
Id., p. 20. ↩
Dabiq n. 4, The revival of slavery, 1435 dhul-hijjah (ottobre 2014), pp. 14-17, p. 17. Questo magazine, avendo stomaco, è facilmente reperibile in pdf. ↩
Sulla necropolitica dello jihadismo vedi Horror jihadista di Paul B. Preciado. ↩
A differenza dei fratelli Kouachy e di Coulibaly. Certo, anche il confine nord del XIX arrondissement, dove sono cresciuti i Kouachy, era una zona segnata da un forte degrado sociale, sul quale insiste la penetrazione salafita: ma non è la banlieue. Resta sintomatico il riflesso pavloviano nel citare la banlieue come giustificazione per il carnefice, quando invece è il luogo dove è cresciuta, abitava, ed è ora sepolta la vittima. ↩
El Aswany, op. cit., p. 183. ↩
Didier Fassin, La force de l’ordre. Une anthropologie de la police des quartiers, Seuil, 2011 (nuova edizione 2015); trad. it. La forza dell’ordine, La Linea, Bologna 2013. ↩
Non mette conto parlare del fatto che per qualche giorno erano tutti Charlie col culo dei redattori di Charlie Hebdo – anche quelli che s’erano afFratellati (d’Italia) con Massimo Carminati e Daniele De Santis (l’assassino di Ciro Esposito), anche quelli che i giornalisti palestinesi assassinati dall’esercito israeliano se la sono cercata, anche quei razzisti in salsa Le Pen-Salvini dei quali Charlie Hebdo pensava che sono una cofana di stronzi: è proprio dei “significanti vuoti” il fatto di non esistere, ovvero che ciascuno può riempirli come crede – anche a sprezzo del ridicolo. ↩
Vedi Marco Assennato, Quattro tesi sul 7 gennaio 2015. ↩
Marc Crépon, Alain Finkielkraut, Comment peut-on être étranger?, in Magazine philosophie n. 86, febbraio 2015, pp. 60-65. Il mensile, dedicato al tema “L’enfer, c’est les autres”, è stato approntato prima della strage. Alla denuncia della “politica della paura” e dello “scontro di civiltà” Crépon ha dedicato diversi libri, dal 2001 a oggi; probabilmente definirebbe la tolleranza di cui parlavo in precendenza come “l’au-delà de la tolérance”. ↩
Della reificazione messa all’opera per produrre una riduzione forzata «à l’image rassurante du même» – stesso colore della pelle, stessa religione, stessa età, stesso rapporto di scacco rispetto all’integrazione e alla memoria dei propri padri – scrive Judith Revel in Qui a peur de la banlieue?, Fayard, 2008, soprattutto pp. 129-142. ↩
Cioè i quattro fondamenti dell’islamismo salafita che «mutano radicalmente il senso della religione: invece di essere il mezzo per realizzare giustizia, libertà e uguaglianza, essa diviene strumento di odio degli altri e una minaccia contro le loro vite e i loro diritti», El Aswany, op. cit., p. 185. ↩