di Fabrizio Lorusso
[Questo articolo, con qualche piccola modifica, è stato pubblicato sul numero 20 della rivista IL REPORTAGE con le foto di Giorgio de Carmillis. Le foto contenute in questa versione vengono da fonti web]
Élia Guadalupe ha un sorriso inconfondibile da nonnina complice. Porta sempre un cappellino da baseball la cui visiera nasconde il suo sguardo vissuto e malinconico. Fino a pochi mesi fa la sua dimora era una panchina del parco della Soledad, un giardinetto del centro di Città del Messico in cui si dedicava alla prostituzione. Ora siede sul suo letto in una stanzona di Casa Xochiquetzal, nella calle Torres Quintero. Per gli aztechi Xochiquetzal era la dea della fertilità, dei fiori, della bellezza, della gravidanza e del piacere amoroso, mentre oggi, nell’ombelico d’America, a quella divinità precolombiana è intitolata la prima casa di riposo al mondo per prostitute della terza età. La casona-rifugio è costituita da un edificio dell’epoca coloniale, incastonato tra vicoli rumorosi e mercatini affollatissimi, come solo se ne vedono nel cuore della metropoli più grande del mondo, la capitale del Messico coi suoi 25 milioni di abitanti. Ma all’interno della struttura, nel patio centrale e nei lunghi ballatoi, regnano, surreali e indisturbate, la pace e la tranquillità.
Affianco a Élia c’è Berta, una delle sue compagne di stanza, sessantenne della regione di Hidalgo, che è appena uscita dall’ospedale e lentamente recupera le forze dopo un’operazione chirurgica che le ha salvato la vita. Avvicino discretamente la mia seggiolina e ascolto, osservo, registro. “Qui ho la casa e il calore che non ho mai avuto, trovo affetto, comprensione e un senso d’unione”, racconta Élia che, insieme a Berta è una delle nuove arrivate e mi spiega che la sua amica se l’è vista veramente brutta: “Era moribonda, stava per terra, è stata portata in ospedale da alcune assistenti sociali e poi l’hanno accettata qui”.
Élia ha iniziato a fare la prostituta a13 anni e ha smesso poco tempo fa, compiuti i 65. “Dopo i vent’anni ho partorito sei volte, tutti maschi, e il fatto è che nella prostituzione una perde le cautele, resta incinta e poi ai miei tempi bevevo molto, non sapevo mai di chi era il bebè…”, racconta. Élia non ha avuto infanzia né adolescenza e ha iniziato a prostituirsi perché era l’unica possibilità che le era rimasta. “La mia famiglia non esisteva, non c’era affetto, mancava la comprensione del padre e della madre e c’erano solo problemi e violenza, per questo me ne sono andata così”, narra con tono rassegnato.
Berta ha tre figli che ormai non vede più perché si vergognano di lei. “Sono stata trabajadora sexual [“lavoratrice del sesso” in spagnolo] quasi tutta la vita tra le vie Guatemala e Santísima e mi pare proprio di avervi passare di là a voi due!”, esclama mentre scoppia a ridere e con l’indice punta dritto verso di me e Giorgio, il fotografo. Nel deserto urbano, in cui lo stato è assente ingiustificato, gli abitanti delle zone più povere del centro cittadino vivono alla giornata, tra lavoro nero ed espedienti. Quest’oasi chiamata Xochiquetzal è un rifugio sicuro e necessario per le venticinque donne, indigenti e senza tetto, che vi sono accudite. Durante buona parte della vita tutte loro sono state sexo-servidoras, altro termine usato in Messico per indicare la prostituzione. Alcune lavorano ancora, sporadicamente, e mantengono i contatti con qualche vecchio cliente.
La strada è stata la loro casa per decenni. Vengono dai ghetti della Merced, di Tepito, Loreto, la Lagunilla e Granaditas. Sono nomi che non dicono nulla ai frequentatori occasionali di Mexico City, ma che evocano storie d’emarginazione e insicurezza in chi conosce la topografia socioeconomica di questa megalopoli che sa essere contraddittoria ed escludente però anche amichevole e solidale. Infatti, la Casa si mantiene grazie al sostegno del comune e dell’Istituto Nazionale delle Donne, ma il grosso dei finanziamenti arriva da donazioni, dalla partecipazione a concorsi e dalla vendita d’oggetti d’artigianato di cui si occupano la direttrice, Jessica Vargas, le associazioni Mujeres de Xochiquetzal e Semillas, e i volontari che collaborano al mantenimento e alle attività della Casa.
Quattro letti individuali occupano gli angoli della stanzona in cui dormono Élia e Berta. Il calore delle pareti color ambra, i soffitti altissimi e le ampie finestre esaltano la luce del sole tropicale che entra insieme al fievole vocio dei commercianti delle bancarelle. Patricia, un’altra compagna di camerata che si fa chiamare Pato, ha allestito affianco al letto un altare della Santa Muerte, ricco di offerte per quest’icona popolare messicana. “Sono Suo devoto da vari anni, fai pure una foto alla Patrona”, mi dice Pato con la sua voce roca e grave riferendosi alla statua della Santa.
Gli scaffali sulle pareti ospitano peluche, radio, effetti personali, alcune riviste e qualche vasetto di crema. Pochi oggetti e scarsi capi d’abbigliamento sono tutto ciò che le inquiline posseggono. Ma i beni materiali non sono tutto nella vita. “Qui condividiamo tante altre cose, allegrie, tristezze, pianto, e comunque ci aiutiamo l’una con l’altra, com’è successo per esempio con la compagna malata che tutte siamo venute a trovare e grazie a Dio la stiamo curando”, spiega Élia alzando inavvertitamente la voce. “Negli ultimi anni i soldi non bastavano più perché la prostituzione adesso non è più come una volta: i clienti pagano poco o niente e non ci basta nemmeno ad affittare una stanza per dormire”. Dopo aver passato 53 anni in strada, tra marciapiedi e camere d’hotel, un anno e mezzo fa Élia ha trovato famiglia, comunità e protezione.
Per una scelta della direzione di questa specialissima casa di riposo la discrezione e il rispetto delle inquiline sono d’obbligo. Non ci sono targhe all’esterno del palazzo, né citofoni o cassette delle lettere. L’enorme portone di legno dell’entrata è l’unico elemento distintivo, un varco che fa sparire magicamente i rumori e ferma il tempo. L’oasi è fatta per introdurvici lentamente, per calpestarla in silenzio senza troppi scatti fotografici o parole al vento. “Già verso il 2001 nasce l’idea di creare una casa di riposo di questo tipo ed è Carmen Múñoz, leader delle sexo-servidoras della zona, a lanciare la proposta con alcune militanti femministe e con la scrittrice Elena Poniatowska”, spiega Jessica. “L’amministrazione comunale inaugurò il progetto nel 2006 e il piano prevedeva di ospitare fino a 65 donne, purché avessero più di 55 anni e fossero prive di reti familiari e fissa dimora, ma è stato problematico trovare tutte le risorse e mettere d’accordo tante inquiline così diverse tra loro, così abituate a diffidare delle altre o a competere”, continua Jessica. Per ora, dunque, l’obiettivo è recuperare le risorse sufficienti per prestare servizio a 35 donne, “ma non è facile perché a volte la lotta è per non chiudere piuttosto che per crescere ancora”.
La direttrice è ben consapevole dei potenziali conflitti e dei problemi di adattamento alla vita comunitaria nella Casa, per cui “si fanno riunioni, iniziative collettive, laboratori psicologici e pure corsi sull’igiene, l’alimentazione, la cura personale, la non violenza, le questioni di genere e di equità e l’autostima”, specifica. “Sai cosa succede, quando invecchiano, alle donne che hanno trascorso tutta la loro vita esercitando la prostituzione?”. Partendo da questa domanda, all’inizio del 2014 è stato pubblicato in Messico un libro della fotografa francese Bénédicte Desrus e della giornalista messicana Celia Gómez per sostenere le precarie finanze della Casa. S’intitola Las amorosas más bravas, cioè le amorose più irrequiete o sbarazzine. “Difatti nel 2006, quando la struttura fu aperta, l’idea di fondo era anche quella di stimolare attraverso l’arte e un approccio multidisciplinare una serie di cambiamenti culturali nella comunità e nella società intera”, chiarisce Jessica. Di fronte alla solitudine e alla paura della vita di strada è possibile comunque creare comunità. “Avevo tante compagne con cui si condividevano le notti, il parco e i luoghi dove restavamo e al freddo s’aggiungeva la paura che ci prendessero in giro, che ci picchiassero o che gli sbirri ci portassero in prigione dato che anche loro se la prendevano con quelle della zona”, ricorda Élia.
“Il timore principale di tante anziane che si fermano da noi è di finire in una fossa comune, di essere cremate nei forni della polizia senza che nessuno mai le venga a cercare o gli dia una degna sepoltura”, spiega Jessica, “invece qui i loro familiari possono trovarle o almeno sapere dove sono seppellite”. Tutte le donne della Casa hanno alle spalle storie familiari difficili e, in generale, vengono rifiutate da figli, partner e genitori per via della loro professione, per vergogna e ignoranza. Mi confida Élia: “Un figlio se lo portò via il padre, altri restarono con me ma non per strada, da mia madre, che faceva le pulizie nelle case e ogni venti giorni ci vedevamo”. Solo il più giovane di loro vive a Città del Messico e mantiene i contatti con lei, mentre gli altri sono spariti dalla circolazione: “José Miguel è molto contento perché ha provato a lungo a cercarmi finché un giorno ha saputo che ero qui nella mia nuova casa e ci siamo visti”.
Prima di uscire e dire adiós, Jessica, la direttrice, mi mostra la foto di una donna anziana dallo sguardo intenso e profondo. La parete del suo ufficio è tappezzata di ritratti delle mujeres de Casa Xochiquetzal, di quelle che ci abitano ancora e quelle che non ci sono più. Carmelita, la donna della foto, è mancata due anni fa, all’età di 76 anni. Aveva cresciuto i suoi due figli grazie al lavoro da prostituta. Da qualche tempo si dedicava a vendere dolci per la strada per racimolare qualche soldo e un giorno, mentre lavorava, fu investita da una macchina che le fratturò il bacino. Il primogenito la curò per sei mesi, ma quando fu il turno del figlio minore, questi si tirò indietro. Scaricando la colpa sulla moglie che, a suo dire, aveva minacciato di lasciarlo, abbandonò sua madre a una fermata della metro, come fosse un cane. Dopo essere sopravvissuta tra stenti e carità per qualche settimana in una stazione degli autobus, Carmelita fu accolta nella Casa Xochiquetzal, solo per un po’, prima di morire lontana dalla famiglia ma vicina alle compagne di Casa Xochiquetzal. Dire che la prostituzione è il mestiere più vecchio del mondo significa ripetere un cliché che giustifica i pregiudizi e le generalizzazioni di chi si fa portatore dei “buoni costumi”, ma allo stesso tempo dimentica le lotte, le difficoltà, gli abusi, le imposizioni, le condizioni e le scelte che stanno dietro alle storie personali di ognuna delle donne che si prostituiscono. Da quasi 10 anni Casa Xochiquetzal rompe stereotipi e barriere, esclusioni e solitudini, e rappresenta con dignità la Città del Messico solidale.