di Mauro Baldrati
American sniper è composto da due film. Potrebbe essere una fusion, due storie, due stili intrecciati, combinati chimicamente, ma non è così. Il primo si intitola Formazione di un amerikano col sottotitolo Visto e realizzato da un americano, ed ha una vita propria, un andamento per conto suo; il secondo è un prodotto di genere dal titolo Avventure di uno sniper.
Ora, per quanto riguarda il primo, uno si chiede: ma dopo quaranta o cinquant’anni di martellamento sulle mode, gli stili, la cucina, le barzellette, la filosofia, la musica, l’arte figurativa, la letteratura, il cinema, la politica, la giustizia, la finanza, l’imperialismo, la democrazia, la libertà, la religione, la frontiera, le balle spaziali, le avventure spaziali, i fumetti, ancora abbiamo bisogno di nutrirci di faccende americane, come la formazione di un combattente per la difesa dei valori americani? Non ne abbiamo abbastanza? La risposta potrebbe essere: sì, adesso basta. Perdio, su questa faccenda dei reduci di guerra, dopo quelli della seconda guerra mondiale, e poi del Vietnam, e adesso dell’Iraq, non potremmo per esempio, chiedere un film sui reduci vietnamiti? Qualcuno sa che esistono? Perché non bisogna dimenticare che un film viene girato, e quindi venduto, se dietro c’è, o se si presume che ci sia, una domanda.
Ma no. Vogliamo gli americani. Sugli iracheni, per esempio, sappiamo qualcosa? Ma soprattutto, ci interessa saperlo? Ci interesserebbe se non fossimo una colonia, ma un popolo con una sua identità e sovranità nazionale. Identità della quale, scriveva Gramsci, siamo stati privati dalla dominazione secolare di due entità transnazionali che ci hanno soffocati, imprigionati, disarticolati: La Chiesa e l’Impero. Ora sono tre, perché si è aggiunta l’America. Il nuovo Impero.
Così Clint Eastwood, col primo film, si permette di rivenderci per la milionesima volta una questione americana realizzata da un americano per gli americani e per i sudditi del resto del mondo.
La genesi è nella formazione del bambino, quando il padre – la quintessenza dell’americano arcigno, puritano, pervaso dai valori quali la caccia al cervo, la difesa dell’America, le armi, il Ringraziamento, ecc., spiega ai figli una delle regole fondamentali del credo americano: la specie umana si divide in tre categorie: le pecore, i lupi e i cani da pastore. Se diventerete dei lupi, cioè dei predatori, vi ammazzerò a cinghiate (con esibizione simbolica della cinghia), perché voi dovete essere dei cani da pastore, cioè dei guardiani, dei difensori pronti ad affrontare i lupi per difendere le pecore.
Questo enunciato sarà il motore che spingerà il giovane Chris Kyle ad arruolarsi nei Navy Seal, la forza d’élite militare americana: difendere il suo paese dalle aggressioni dei feroci terroristi che hanno fatto esplodere le ambasciate e soprattutto le torri gemelle. E qui i problemi abbondano: il primo film è piuttosto banalotto, fatto di sequenze che sembrano sketch, capitoli didascalici, quasi affrettati, che in un regista come Clint Eastwood stupiscono. L’addestramento militare, per esempio, sfiora il ridicolo. Dopo la visione di Full Metal Jacket o anche solo di Ufficiale e gentiluomo gli urletti dell’istruttore sono persino patetici. Poi ci sono un paio di avventure sentimentali, col fidanzamento e il matrimonio, con dialoghi che sinceramente sembrano un manuale dal titolo: come confezionare dialoghi e scene tra marito e moglie americani per un pubblico americano medio e per i sudditi del resto del mondo.
Questo primo film transita nel secondo, alternandosi poi con alcune sequenze di flash-back spazio temporali. E Avventure di uno sniper, a differenza del primo, funziona. E’ un film di guerra ben fatto, genere action, con una scansione avventurosa, una più che soddisfacente estetica delle armi di ultima generazione, divise, automezzi. Kyle è diventato un cecchino, il migliore, una leggenda. Appostato sui tetti dei palazzi crivellati di pallottole di grosso calibro, tra le macerie, sorveglia – difende – i marines che rastrellano le strade, abbattendo i terroristi, uomini o donne o bambini che siano. C’è anche un miniduello con un cecchino siriano, Mustafà, che rimanda a un altro scontro mitico, la caccia del più grande cecchino di tutti i tempi, il sovietico Vasilij Grigor’evič Zajcev, al colonnello delle SS Heinz Thorwald. E’ tutto credibile, nella sua parte per così dire fumettistica ovviamente, perché non lo è per nulla per quanto riguarda l’obiettività: gli iracheni semplicemente non esistono, sono delle macchiette maligne, assassini efferati, oppure i cattivi dei videogiochi che gli eroi abbattono come birilli, o infine degli striscianti profittatori, anche nella mimica fisiognomica, pronti a vendere altri iracheni terroristi in cambio di soldi o di favori. E qui il film è abbastanza rappresentativo di un certo atteggiamento americano, più volte denunciato da analisti militari che lo hanno individuato come un limite: quando occupano un paese sono totalmente indifferenti agli usi e costumi locali, che per loro non esistono. Gli occupati sono dei barbari, dei sottosviluppati che dovrebbero essere grati agli americani perché portano la civiltà a la democrazia. Ovviamente non funziona, le popolazioni continuano a ribellarsi e la supremazia militare non basta per garantire il controllo.
Ma a noi spettatori amanti dell’action di guerra interessa il giusto questa obiettività. Come del resto la sensibilità americana francamente old-style di Kyle, che combatte per sconfiggere “il male” che si nasconde in Iraq, quel “male” che minaccia il suo paese. Ora, neanche il più disinformato americano dell’estrema provincia crede più che l’America abbia scatenato la guerra per esportare la democrazia; probabilmente anche l’ultimo simpatizzante del Ku-Klux-Klan sa, o sospetta, che il motivo vero sia nella difesa dei pozzi petroliferi del Kuwait, occupati dall’Iraq, e che per raggiungere questo obiettivo siano state fabbricate prove false. Per dire, bastava la battuta di un commilitone di Kyle, tipo “ma dai, quale cazzo di male, noi siamo qui per prenderci il petrolio, svegliati, coglione!”, che sarebbe stata una battuta americana moderna accettabile, per riscattare almeno in parte l’ammuffita reticenza di stampo bushiano sulle motivazioni della guerra. Anche la parte del ritorno in patria, con la sindrome dei reduci, le forme di autismo, i problemi familiari, non convince. Sembrerebbe che Eastwood voglia dimostrare che la guerra è malvagia in sé per sé, ma non funziona, perché troppo invadente è il patriottismo di maniera di Kyle, troppa disparità divide le macchiette irachene dagli eroi americani. Davvero sembra di essere in un western anni ’50, con gli indiani che non fanno che urlare e lanciare frecce mentre le giacche azzurre caricano con gli squilli di trombe.
Ma noi appassionati dell’action militare non andiamo troppo per il sottile. Lo sappiamo com’è andata, ma non possiamo non godere di una parte di film con quegli spari fascinosi, quelle incursioni delle forze d’élite, che neanche i fratelli Scott avrebbero saputo fare di meglio.
Perché lo sappiamo come funziona. Sappiamo come siamo fatti, noi cultori dell’action militare. Ci conosciamo bene, e proprio in questa conoscenza di noi stessi sta il nostro riscatto: cerchiamo l’eterno gioco, il mai dimenticato divertimento dei maschi, la guerra, i cow-boys, le macchine, che ci accompagna sempre, anche nell’età adulta, anche nella consapevolezza e nella coscienza politica