di Toni Negri e Giuseppe Cocco
da GlobAL. Biopotere e lotte in America Latina – manifestolibri – 19,00 €
In molti paesi sudamericani si sono succeduti negli ultimi anni imponenti movimenti popolari e indigeni e cambiamenti di governo che non ricalcano la fisiologia del ricambio interno delle élite dominanti o quella del golpe autoritario. Questi fenomeni, al contrario, introducono una relazione aperta e produttiva con una nuova composizione sociale e politica delle classi subalterne. Toni Negri e Giuseppe Cocco (docente all’università di Rio de Janeiro e presente nelle direzioni della rivista Multitudes) esaminando la storia dei tre grandi colossi del continente, Brasile, Messico e Argentina, seguono l’idea che all’inizio stiano sempre le lotte operaie e proletarie e solo dopo lo sviluppo capitalistico: l’innovazione prima di essere tecnica è sempre sociale. Con la crisi delle sovranità nazionali, delle loro ideologie e dei loro modelli di sviluppo, che non hanno saputo sconfiggere diseguaglianze e miseria, l’America Latina si va trasformando in un potente laboratorio nel quale prendono forma nuove figure di democrazia radicale e modelli di gestione collettiva dei beni comuni.
Pubblichiamo parte della prefazione al saggio, edito da manifestolibri. [gg]
Prefazione
IL CONSOLIDAMENTO DELLA GESTIONE DELL’INTERDIPENDENZA: LA MOLTEPLICITÀ COME CONDIZIONE DELLA COSTRUZIONE SUDAMERICANA
La gestione dell’interdipendenza nello spazio-tempo della globalizzazione costituisce un terreno d’innovazione politica particolarmente fecondo in America Latina. Il superamento, da parte dei governi Lula [nella foto a destra] in Brasile e Kirchner in Argentina, della prospettiva della déconnection o, come abbiamo detto, della costruzione del socialismo «in un unico paese», si sta traducendo nell’apertura di un effettivo — e unico nella storia — processo di costituzione latino-americana. Non si tratta solo della generalizzazione della svolta «a sinistra» nei vari paesi del continente, ma di qualche cosa di molto più importante e profondo. È essenzialmente in questo senso che la costruzione latino-americana trova la sua locomotiva nell’integrazione politica, economica e infrastrutturale promossa da Argentina, Brasile e Venezuela. Anche se embrionali, i progetti di costruzione del Gasoduto del Sur o del Banco del Sur così come il pagamento concertato tra Brasile e Argentina dell’insieme del debito con il Fmi già indicano le possibili basi materiali di questo cammino. Un cammino che mostra quanto siano inadeguati i tentativi di «misurare» la radicalità di un governo in funzione del suo percorso «nazionale». Al contrario, l’innovazione si trova proprio nel fatto che i governi di Brasile, Argentina e Venezuela — e adesso anche della Bolivia di Evo Morales — non sono la rappresentazione di un progetto «nazionale», ma l’espressione di un movimento molteplice. Le lotte ne sono l’evento costituente. È l’insurrezione boliviana, descritta da Gilly come «combinación inedita de rasgos antiguos y modernos», che apre la strada alla presidenza. Allo stesso modo, è la moltitudine accorsa al Palacio Miraflores che ha permesso la radicalizzazione della svolta «bolivariana» di Chavez. Lo stesso Kirchner è frutto dell’onda lunga delle giornate semi-insurrezionali del 19 e 20 dicembre 2001 a Buenos Aires. E anche quanto a Lula, la vittoria elettorale non è comprensibile senza la congiunzione dell’autonomia operaia dell’ABC paulista con i movimenti urbani brasiliani nell’ambito del «partito rete» (il PT).
Il dato fondamentale è che il primo livello dell’interdipendenza non è quello che «costringe» le politiche economiche di Brasile o Argentina all’ortodossia del Fmi e delle istituzioni finanziarie internazionali, ma quello che caratterizza l’America Latina al suo interno. Ovvero, il governo dell’interdipendenza non si gioca solo sul livello delle articolazioni sud-sud (per esempio il G20), ma passa per la maturazione delle dinamiche di integrazione continentale. Su questo piano, il superamento delle ambiguità nazionali è inevitabile. I conflitti commerciali tra Brasile e Argentina, la minaccia uruguayana (o da parte del Paraguay) di un accordo bilaterale con gli Stati Uniti, la questione degli interessi brasiliani in Bolivia, tutto ciò mostra non i limiti ma la potenza della prospettiva aperta dal governo dell’interdipendenza.
A sua volta, il ciclo politico andino è, malgrado la sua relativa marginalità rispetto ai giganti continentali, emblematico. Esso esplicita la correlazione che lega l’emergenza di una politica globale sudamericana e la demolizione dell’idea di popolo che essa presuppone e determina nello stesso tempo. Anche se alcuni tentano di resuscitarla per applicarla all’intero continente (e al suo «popolo latinoamericano»), la transizione boliviana ripercuote e amplifica quel che il movimento neo-zapatista già aveva cominciato. L’arrivo di Evo Morales alla presidenza è molto di più che l’ingresso di un indigeno al potere: è l’arcobaleno delle etnie indigene che afferma la potenza della sua irriducibile molteplicità. Non è né il popolo boliviano, né quello latinoamericano che investe Evo Morales come Presidente, ma un insieme di singolarità che si mantengono tali. Le parole del Subcomandante Marcos non potrebbero essere più adeguate: «Con nosotros van los pasos de todos los pueblos indios y los pasos de todos los hombres, mujeres, niños y ancianos que en el mundo saben que en el mundo caben todos los colores de la tierra». Allo stesso modo che, più di dieci anni fa, l’esercito neo-zapatista si organizzava mobilitando la ricca diversità culturale e etnica del Chiapas, la cerimonia di investitura di Evo Morales da parte delle 36 nazionalità indigene dell’altipiano (aymaras, quechuas, wenayeks etc.) è stata un’espressione di questa stessa ricchezza della molteplicità. La critica delle ideologie nazionali già si trova ad anni luce dalle pavide domande di «re-fundar una idea propia para nuestra(s) nacion(es) (…)». Sui sentieri andini così come nelle periferie metropolitane brasiliane o nella foresta chapateca, la molteplicità si organizza in quanto tale, senza ridursi allo specchio identitario del potere e dello Stato.
Lula, Kirchner e Chavez sono reciprocamente necessari l’uno all’altro e l’integrazione continentale potrà mantenere il suo dinamismo solo se assumerà un orizzonte risolutamente post-nazionale e radicalmente democratico. I nuovi governi di Lula e Kirchner hanno costituito, allo stesso tempo, la base della rottura e le condizioni di governabilità dell’attuale «continentalizzazione» del passaggio. Evo Morales stesso lo ha sottolineato. Non si tratta di mera retorica. L’arrivo di un indio Aymara alla presidenza della Bolivia ha come precedente l’elezione di un migrante nordestino a quella del paese più importante del continente sudamericano. Lula è un precedente e nello stesso tempo una garanzia di governabilità: non tanto per la sua moderazione, ma per le capacità innovative che la diplomazia brasiliana ha messo in campo: dentro lo spazio costituente della nuova unione continentale così come sul piano delle reti globali stabilite con Africa del Sud, India e Cina. Il Brasile di Lula è un po’ il baricentro di questa dinamica. L’indebolimento interno del governo Lula e le incertezze che oscurano l’orizzonte delle elezioni presidenziali brasiliane (nel 2006) costituiscono oggi — paradossalmente — il maggior fattore d’instabilità della potente svolta in atto a livello continentale.
LA FASE CRITICA: GOVERNABILITÀ, POLITICA ECONOMICA E POLITICHE SOCIALI
Le critiche alla politica estera di Brasile e Argentina non riescono a trovare la ben che minima legittimità. I ripetuti tentativi di opporre il presunto «populismo» di Chavez al pragmatismo moderato di Lula si sono sciolti come neve al sole… tropicale! Molte volte, gli editorialisti ricorrono al tentativo di affermare che le dichiarazioni (e le posizioni) di Chavez, Kirchner e Lula contro l’unilateralismo nordamericano (e le sue proposte, in particolare l’Alca) sono puramente demagogiche, visto che gli Stati Uniti continuano a essere il principale partner economico di ognuno dei tre paesi e soprattutto del Venezuela. La critica da parte del blocco biopolitico del potere latinoamericano tenta l’impossibile operazione di ridurre il governo dell’interdipendenza a un ritorno delle vecchie tentazioni isolazioniste e antimperialiste. Quel che la nascente Unione Sudamericana (e tendenzialmente latinoamericana) sta cercando non è una riduzione degli scambi con determinate regioni e/o mercati. Al contrario, la gestione e il governo dell’interdipendenza costituiscono la base di una maggiore integrazione dei mercati, di tutti i mercati: a cominciare da quelli sudamericani!
Dove la critica trova un terreno più fertile è invece sulle questioni di politica interna. In Brasile e Argentina, le critiche si concentrano sulla continuità della politica economica (d’ispirazione neoliberale) e/o sull’insufficienza delle politiche sociali. Possiamo riunire le varie critiche in tre grandi gruppi: le critiche alle politiche sociali; le critiche alla politica economica e infine le critiche «politiche».
Le critiche alle politiche sociali riassumono due posizioni generali. Una è quella che assume le politiche sociali dei governi Lula e Kirchner come troppo timide e, in fondo, solo marginali rispetto all’urgenza della questione sociale post-neoliberale. Le politiche sociali si concentrano nel caso argentino soprattutto nell’ambito dei «planes» con i quali — sin dall’epoca Menem — è gestito il rapporto con i molti segmenti del movimento de «los desocupados» (los piqueteros). Il governo Kirchner è per esempio accusato di riprodurre sostanzialmente i meccanismi di distribuzione clientelare dei «planes», di mirare a «cooptare» i vari segmenti delle organizzazioni piqueteras e infine di sminuire significativamente i valori della trasformazione. Il governo Lula è accusato di portare avanti politiche sociali «compensatrici», limitate cioè all’obiettivo di ridurre il costo sociale delle politiche economiche. In ambedue i casi, si tratterebbe di politiche sociali subordinate alla politica economica e incapaci di trasformare efficacemente la «questione sociale», ossia di combattere strutturalmente la miseria, la povertà e l’esclusione.
In realtà, queste critiche alle politiche sociali di Lula e Kirchner sono «derivate» dalla critica «di sinistra» alle politiche economiche e alla scelta di governo dell’interdipendenza messa in atto dai due governi. Ne riparleremo più avanti.
Vi è poi un’altra critica alle politiche sociali, soprattutto in Brasile (ma con riferimenti generali, e in particolare al governo Chavez). È una critica inizialmente trasversale che oggi è diventata uno dei terreni privilegiati del blocco del biopotere. Assumendo l’impossibilità di scagliarsi contro il governo dell’interdipendenza e ancora meno contro gli elementi di continuità delle politiche economiche, l’élite concentra il suo discorso sull’inefficienza delle politiche sociali e quindi sulle incompetenze dei «nuovi governi». Il discorso generale sull’incompetenza si sviluppa su tre livelli. Un primo livello è apertamente cinico. È quello che afferma che i governi estranei al blocco del biopotere (cioè esterni all’oligarchia neo-schiavista così come alla tecnocrazia corporativa) pagano un sovra-prezzo (in termini di tassi di interesse e di rigidità delle politiche di bilancio) in funzione dell’aura di incertezza che li circonda a livello nazionale e internazionale. Un secondo livello, solo apparentemente implicito, è il preconcetto di classe o addirittura razzista. Nel caso del Brasile, l’élite attribuisce l’inefficienza del governo all’incompetenza di un presidente e di buona parte dei quadri di governo reclutati nel movimento sindacale. Una vera e propria campagna di denigrazione è stata orchestrata da quasi tutta la stampa sui «discorsi improvvisati» di Lula. Un terzo livello è quello della critica relativa alle reali difficoltà che i governi incontrano nell’implementazione dei programmi sociali. Su questo piano, assistiamo dunque a una critica che mescola, da una parte, le effettive lentezze e contraddizioni che i «nuovi governi» affrontano nella formulazione e nell’attuazione di programmi adeguati all’urgenza sociale e, dall’altra, la retorica neoliberale della accountability.
Cosa troviamo dunque alla base di queste critiche? Niente di molto interessante. Innanzitutto l’ipocrisia dei neoliberali e delle élite che attribuiscono il rompicapo degli obblighi esterni e interni (che loro stessi hanno determinato e accettato) alla mancanza di fiducia e credibilità dei «nuovi governi». In seguito, troviamo il razzismo dell’oligarchia neoschiavistica che si mescola — ancora una volta — con il corporativismo della tecnocrazia. Infine si manifesta il tentativo del blocco di potere di mantenere il suo progetto attraverso l’improbabile rianimazione di tecniche neoliberali che focalizzano le politiche sociali secondo criteri non-universali (limitandole ai «più» poveri).
Arriviamo quindi alle critiche alla politica economica. Si tratta del terreno privilegiato dell’opposizione di sinistra ai governi Lula e Kirchner. Nel caso brasiliano, quest’opposizione non si limita all’estrema sinistra, ma attraversa il Partido dos Trabalhadores (PT), il governo stesso e consistenti settori di movimento (in particolare il Movimento dos Sem Terra-MST). Come abbiamo accennato più sopra, secondo questo approccio, un governo si qualificherebbe come «di sinistra» nella misura in cui fosse capace e determinato nell’imprimere una svolta alle politiche economiche. Buona parte del saggio che segue è dedicata al tentativo di smontare le basi teoriche e politiche di questi approcci. I nostri sforzi si indirizzano cioè, una volta constatato l’esaurimento del progetto neoliberale, alla critica sistematica di ogni illusione di ritorno a un qualche surrogato dei vecchi modelli di sviluppo, siano essi nazional-sviluppisti o nazionalpopolari. Ma concentriamoci qui sull’asse portante della critica alla politica economica dei «nuovi governi» latinoamericani. Quest’asse è formato paradossalmente dal feticismo della moneta e dall’economicismo. Da una parte, esso si dipana a partire dall’idea secondo la quale la moneta ha un valore in sé e per sé e che, quindi, sarebbe sufficiente non pagare il debito estero o abbassare i tassi di interesse per moltiplicare le risorse disponibili per le politiche sociali e incrementare il ritmo di crescita. È facile leggere dei titoli che stabiliscono la seguente equazione «Tassi d’interesse fanno crescere il debito interno di 141 miliardi di Reais: valore che equivale a 22 volte le spese della Borsa-Famiglia». La demagogia del blocco del biopotere fa eco alla critica di «sinistra», come se tassi di interesse e valore della moneta fossero variabili indipendenti, come se la moneta non fosse l’espressione dei rapporti di forza (e di violenza) che solcano il tessuto sociale, come se le successive confische del risparmio — praticate in varie occasioni negli ultimi decenni — non rappresentassero un’eredità maledetta dai costi incalcolabili. Dall’altra, le critiche dell’economicismo (sviluppista o gauchiste, poco importa) sostengono che una svolta politica può essere «misurata» solo in funzione della svolta delle politiche economiche. Ora, quest’affermazione è del tutto inadeguata poiché assume come orizzonte un ciclo d’accumulazione ormai esaurito: quello di una crescita trainata dallo sviluppo industriale e quindi dal rinnovarsi della prospettiva della piena occupazione. L’unica politica sociale «effettiva» sarebbe quindi quella offerta dai processi d’integrazione sociale promossi dall’espansione del rapporto salariale, a sua volta trainato dalla crescita economica. A questo livello, l’incapacità di leggere le mutazioni generali del lavoro, da una parte, e le relazioni complesse tra queste e i processi d’integrazione globale dei mercati, dall’altra, completano l’inadeguatezza delle critiche.
La vera sfida, tutt’altro che risolta, per i «nuovi governi» latinoamericani non si riassume negli indicatori economici, siano essi quelli necessari a negoziare gli «obblighi» interni ed esterni o quelli di un ritrovato dinamismo della crescita economica. Al contrario, il rompicapo dello sviluppo consiste oggi nel rapporto nuovo che le dinamiche sociali intrattengono con quelle economiche. Nell’era del capitalismo delle reti, della mobilitazione dell’intera vita nella dinamica integrata di produzione e riproduzione, fare politiche sociali è fare politiche economiche o, meglio, l’innovazione sta proprio nella capacità, o meno, di affermare le politiche sociali come punto di partenza per una nuova generazione di politiche economiche che mettano al loro centro le nuove dimensioni — immateriali, affettive, linguistiche, vitali — del lavoro. Tutto questo ci porta direttamente al terzo gruppo di critiche, quelle che si concentrano sulle questioni maledettamente importanti del potere.
Le critiche politiche, che si concentrano sulla questione del potere e dello Stato, sono le più interessanti e probabilmente le più adeguate. Non si tratta tanto di preoccuparsi dell’ipocrisia con la quale il blocco del biopotere cerca di celebrare l’omologazione dei «nuovi governi» dentro il processo di corruzione che il meccanismo stesso della rappresentanza determina e presuppone nello stesso tempo. Ci preoccupano invece le difficoltà che i «nuovi governi» latinoamericani incontrano nello sviluppare a livello centrale (statale) le esperienze di movimento e di radicalizzazione democratica dai quali sono, in ultima istanza, scaturiti.
La crisi del rapporto salariale ha travolto il sistema della rappresentanza e sgretolato il processo di legittimazione dello Stato. Il progetto neoliberale, per nefasto che sia stato e continui ad essere, si è infilato in questa breccia. Una breccia che, come ha ben analizzato Foucault, è stata scavata dalla spinta libertaria delle lotte sociali contro il sistema disciplinare di fabbrica. Gli operai di Cordoba e quelli dell’ABC paulista hanno pienamente partecipato a questa offensiva operaia contro l’ordine taylorista della fabbrica. Non è perché in Brasile, Argentina e Messico il taylorismo non è diventato fordismo (e questo perché non si è mai pienamente articolato con le lotte operaie) e non ha mai raggiunto la soglia della «piena occupazione» (e il corrispettivo sistema universale di welfare) che la sua crisi può essere evitata. Al contrario, essa appare in modo ancora più brutale, poiché non si limita alle nuove forme di frammentazione sociale, ma si amplifica, incontrando le tradizionali forme di esclusione, in unico groviglio. Il rompicapo è quello del quale discutiamo nei paragrafi dedicati al «nuovo patto», dove ci chiediamo che cosa significhi pensare il patto sociale in una situazione nella quale il conflitto tra capitale e lavoro non è più il volano della macchina di distribuzione del reddito e legittimazione della rappresentanza e quindi delle mediazioni che fondano lo Stato e al tempo stesso se ne dipanano. La sfida è dunque quella di pensare il patto non più come mediazione ma come organizzazione della produzione.
La crisi della sovranità dello Stato non è né una determinazione esterna dell’imperialismo nei confronti degli stati «dipendenti» e neppure una conseguenza interna della sua riduzione da parte dei governi neoliberali. Il capitalismo globalizzato non ha «inventato» la crisi della sovranità e ancora meno la sua crisi fiscale, ma ha cercato di affermare — attraverso nuove forme di sovranità sovranazionale, imperiale — il mercato come retorica e base di legittimazione di questa nuova effettività. Rincorrendo il lavoro sul terreno sociale dove andava diffondendosi la produzione, le politiche neoliberali hanno cercato — attraverso la retorica del mercato come spazio pubblico ipoteticamente universale e libero — di legittimare una politica sistematica di riduzione della cooperazione sociale a un insieme scomposto di frammenti che competono tra di loro. Da una parte, il capitalismo che organizza la produzione direttamente dentro la circolazione riconosce la dimensione necessariamente multipla che il lavoro assume, una volta che esso può divenire produttivo senza passare per il rapporto salariale. Dall’altra, mentre parla della necessaria riduzione del ruolo dello Stato, riorganizza il comando — sul livello globale e statale — esattamente sul crinale che separa la molteplicità libera del lavoro in quanto potenza della vita dai frammenti coatti della vita messa al lavoro. Su questo crinale, alcune volte impercettibile e altre spaventoso, si organizza la moltiplicazione degli statuti del lavoro in una modulazione ai cui estremi troviamo le forme di attività libera (forme di vita che producono, in comune, altre forme di vita) e, dal lato opposto, le forme di una nuova schiavitù. Su questo crinale si organizza la società del controllo, ossia la riduzione della libertà a rischio, della singolarità a individualismo. Lo spazio pubblico strutturato dallo Stato (il mercato come ideologia di una libertà isolata ed egoistica) organizza il potere come controllo dei flussi di un lavoro che si socializza e coopera secondo dinamiche proprie, autonome. Il meccanismo fondamentale del comando è dunque quello — statale — della moltiplicazione degli statuti del lavoro e dei lavoratori in modo da ridurre sistematicamente la molteplicità a frammento (a individuo) e su questa base conservare una dinamica di accumulazione che è essenzialmente politica, accumulazione di potere: il capitale come potere, potere accumulato, potere costituito. Se questo regime di accumulazione può certamente essere effettivo, gli risulta ben difficile risolvere il nodo della legittimità: sia sul piano politico che su quello economico. L’accumulazione non è più estrazione di tempo eccedente di lavoro grazie alle procedure disciplinari, ma cattura dell’eccedenza di vita attraverso i meccanismi di controllo. Definitivamente, l’accumulazione viene dopo il comando e quest’ultimo dopo la produzione. La produzione è un processo costitutivo che dipende dalla mobilitazione di un lavoro, la cui potenza si trova nella sua molteplicità.
Sia i «nuovi governi», sia i movimenti latinoamericani affrontano dunque la sfida di costruire una politica (un «nuovo patto») che, riconoscendo la potenza produttiva della molteplicità, riesca a tenere «insieme» le singolarità che la compongono. La sfida è dunque quella della costruzione di un comune che permetta alle singolarità di agire di concerto per produrre nuovo comune. Il rompicapo è dunque completamente nuovo e solo le lotte sapranno risolverlo. Non è vero che la frammentazione può essere combattuta solo su un terreno speculare a quello del potere, ossia sul piano della ricostruzione di un’impossibile identità nazionale sulla base del rafforzamento dello Stato e della sua sovranità. Il movimento argentino del 19 e 20 dicembre 2001, la rivoluzione boliviana, la moltitudine del palazzo Miraflores costituiscono altrettante smentite di queste visioni conservatrici. È ancora meno vero che la «reinvención de las instituciones» implichi la «reconstrución del Estado». La vera sfida per i «nuovi governi» latinoamericani è al contrario quella di reinventare le istituzioni aldilà dello Stato.
Risolvere il problema significa andare oltre un «Estado nacional» che non «constituye el espacio de la participación democratica». Un rompicapo che non può essere risolto senza l’apertura ai movimenti, senza che le nuove istituzioni trovino le loro basi costituenti così come la politica dei diritti umani del governo Kirchner ha trovato i suoi principi nello spazio di resistenza che è la Plaza de Mayo de las madres y abuelas.
LA SFIDA DEI «NUOVI GOVERNI» E DEI MOVIMENTI: COSTRUIRE LE ISTITUZIONI DEL COMUNE
In Brasile, Argentina, Venezuela, un vasto terreno di sperimentazione e innovazione democratica deve essere approfondito dalle relazioni aperte e orizzontali tra governi e movimenti. La posta in gioco è la costruzione di una nuova generazione di istituzioni che diano materialità al nuovo patto, ossia alla nuova relazione tra politica e produzione, tra movimenti e governi. La riforma dell’acqua in Uruguay è emblematica. Sono i movimenti che l’hanno promossa dal basso. Senza di loro, «il governo gira su sé stesso». Nello stesso tempo, è proprio la possibilità del rapporto tra governo e movimenti che crea nuove istituzioni.
Il caso argentino traccia l’orizzonte di questa sfida intorno a una questione precisa: — come spingere i planes per i disoccupati verso l’istituzionalizzazione di un reddito garantito (che già esiste) che non funzioni — com’è ancora il caso oggigiorno — come strumento di divisione, controllo clientelare, cooptazione e frammentazione del movimento piquetero? Ovvero, com’è possibile trasformare questo reddito in una dimensione comune che permetta a ogni singolarità — ad ogni deoscupado — di lavorare alla produzione del comune? Nello stesso tempo, come può fare il movimento piquetero, ad abbandonare — sul terreno produttivo — la rivendicazione elementare di un «queremos trabajar» articolato sulla prospettiva dell’occupazione, del posto di lavoro salariato?
Da un lato, la trasformazione dei planes in reddito universale libera le singolarità (ogni disoccupato, ogni uomo e donna) dal controllo basato sul ricatto della frammentazione. Dall’altro, le singolarità possono e devono amplificare le dimensioni produttive delle loro lotte — di lotte così produttive che hanno prodotto la trasformazione politica di questo decennio — su un terreno positivo. Ciò vale, ovviamente, per il movimento delle imprese recuperadas: una volta superata la fase acuta della crisi, cosa significa realmente «recuperare» queste imprese dal punto di vista della produzione del comune? Quel che per le imprese recuperadas può sembrare ovvio — nonostante le traiettorie delle varie esperienze non siano omogenee — è deciso anche nel caso delle assemblee barriales (di quartiere). Il declino di una delle più belle esperienze costituenti degli ultimi anni (le assemblee) è in generale attribuito a fattori quali il superamento della fase acuta della crisi; la mancanza di prospettiva politica; la moltiplicazione degli interventi ideologici esterni. Certamente, se ognuna di queste ragioni è valida, quella che ci sembra più convincente è la stabilizzazione della crisi. Ma, in tutto ciò non vi è nessun determinismo. La vera questione che si è posta alle assemblee è quella del potere e del governo. Il loro orizzonte può riaprirsi solo nella misura in cui esse (o altre istanze costituenti) riusciranno ad assumere produttivamente la questione dello spazio urbano e dei servizi che ne assicurano le dimensioni comuni.
Al contrario di quel che un approccio critico tradizionale può affermare, la maturazione della questione del governo non è un limite, ma l’orizzonte potente dei movimenti, aldilà di ogni melanconia!
Rio de Janeiro e Venezia, 30 gennaio 2006