di Mauro Baldrati
Probabilmente se qualcuno cerca dei difetti nell’ultimo film di Gabriele Salvatore Il ragazzo invisibile ne troverà. Non perché il film sia in sé particolarmente difettoso. E’ l’argomento. Parla di adolescenti, il loro ruolo-non ruolo nella società, e lo inserisce in una favola, con tutto il retaggio karmico-genetico dei fumetti, dei superpoteri, e di una vicenda thriller con apparente target kids 14. Inoltre è così diverso dalle numerosissime storie preteradolescenziali di impianto americano, ragazzine e ragazzini ipertecnologici, davvero fumettistici, patinati, con quei doppiaggi standard, che ci hanno inondato per decenni, che in un certo senso è necessario disintossicarsi. Ovvero uscire dal genere fumetto, benché girato con attori in carne ossa, per entrare in un mix dove il fumetto viene usato.
Una volta la parola d’ordine era contaminazione. Andava di moda, tutti i nuovi libri, i nuovi film, erano una contaminazione di generi. Non era affatto sbagliato come concetto, poi però la moda è passata e oggi quasi nessuno osa più citarla, perché sa di ammuffito. O almeno così certi misteriosi spin-doctor dell’immaginario usa-e-getta hanno deciso.
Quindi, usciamo dal meccanismo infernale delle mode e utilizziamo un corrispettivo che nessuno potrà mai inserire nei supermarket delle varie tipologie: “straordinaria contaminazione…” e poi, qualche tempo dopo: “un travolgente esordio…” oppure, qualche tempo prima: “la voce più sincera della sua generazione…”, e così via: FUSION.
Questo concetto ha troppa storia sulle spalle per essere ridotto a un prêt-à-porter per poi buttarlo quando il flash è in calo e urgono nuovi stimoli, sempre più forti. La musica ci aiuta, come sempre. Lasciando da parte il jazz, perché l’argomento è troppo vasto, un mitico album live di John Mayall del 1971 si intitolava Jazz Blues Fusion; e Jimi Hendrix, un paio d’anni prima, teorizzava la sua musica come fusion (la parola è sua) di blues, jazz, freak-out, funky ecc. E anche di se stesso, infatti entrava anche lui, il suo corpo, come body artista. E una decina di anni dopo una giovane donna americana molto bella, furba e intelligente, operò una nuova irresistibile fusion di punk, disco, funky, pop, di nuovo con lei stessa come personaggio, che gettò New York nell’isteria, facendo dei suoi concerti degli eventi ai quali era impossibile non tentare di essere presenti: Deborah Harry, detta Blondie, che aveva tutti, ma proprio tutti gli uomini della città ai suoi piedi, suoi schiavi, disposti a tutto per lei.
Nessuno quindi può permettersi di giocare impunemente col sacro, con la storia. Non lo fanno neanche gli opportunisti più metafisici, i “creativi”, che usano quei tempi e quegli stili estinti ma sempre mitici come nostalgia, vampirizzandone il fascino incontaminato per pubblicizzare oggetti di consumo di oggi. La fusion è vincente, è il supergenere del futuro, anche se forse non sarà mai totalmente mainstream.
Il film di Salvatores è una prova di fusion. E come tale offre il fianco a raffiche di critiche inevitabili. Nella fusion il purista di blues trova un oltraggio alla sua musica, perché viene svilita, banalizzata; e così il cultore del jazz, del punk; ognuno troverà sempre forme fastidiose di deriva commerciale, di caduta nel pop, nel facile, nel didascalico. Qualcuno ricorda come fu accolto Bitches Brew dai critici puristi di Jazz? Arrigo Polillo lo stroncò indignato: insopportabile mediocratizzazione nel pop-rock. E la svolta elettrica di Bob Dylan a Newport? Un tipo in gamba come Pete Seeger perse completamente la trebisonda, arrivando a cercare di strappare i fili dell’amplificazione.
Il ragazzo invisibile parla di adolescenti. Chiunque avrà la possibilità di affermare che “l’adolescenza” è banalizzata. Ma sbaglia obiettivo. Non è un saggio sull’adolescenza, ma una storia. E il fumetto? Come si fa a banalizzare Batman, L’Uomo Ragno? Anche qui, è una visione limitata e limitante. Quando Stella, la ragazzina semidivina (per Michele, il super-eroe mingherlino) quanto inarrivabile, nonché prigioniera (e in questo alquanto proustiana) lo chiama proiettando nel cielo il loro disegno (una faccetta-emoticon), il lettore di fumetti che ama l’ironia, ma anche la cura per la sua arte, non può non gioire per la citazione di Batman. E poi la metafora dell’invisibilità riferita all’adolescenza: chi cerca saggi, studi, citazioni dotte (cosa perlatro più che legittima e rispettabile, intendiamoci), non potrebbe accettare il fatto che per esempio in scrittori noir come Manchette o Izzo non c’è mai una frase didascalica sulla violenza della società, ma il tutto è disciolto nel racconto, è tra le righe, proprio come i colori che si nascondevano tra le note di Jimi Hendrix?
Nel film dopo le doverose, forse inevitabili scene su Michele, ragazzo già invisibile anche quando non sa di possedere il potere dell’invisibilità, tormentato dai bulletti della scuola, ignorato dalle ragazze, c’è una svolta thriller un po’ fantascientifica (con citazione-chiave da Spider Man sulla creazione del super-potere), con adulti diabolici, anche nella mimica, contrastati dai ragazzini e da Michele-Invisibile-Batman. Tecnicamente, non si può aggiungere molto altro, perché il film ha un incedere avvincente, e saremmo costretti e sconfinare in uno spoiler abbastanza inopportuno. Una considerazione d’obbligo è sulla fotografia, piuttosto straordinaria, che fa di Trieste una città che sembra, appunto, disegnata, e la colonna sonora, che è il risultato di un concorso con più di 400 partecipanti, per l’inserimento di tre pezzi, e le musiche di Ezio Bosso e Federico De’ Robertis. Inoltre non è un film patinato, è elegante, ma niente middle-class style all’americana; anzi, è un interessante tentativo di fusion italiana, colta eppure leggera, che non ha nulla a che vedere con le pestifere commedie né con certa pesantezza un po’ trucida che qua e là ci caratterizza nei prodotti impegnati.