di Danilo Arona
Ha ragione Flavio Santi, narratore e poeta clamorosamente nato nel 1973 ad Alessandria (proprio lei, Bassavilla, dalla quale fuggì velocemente in tenerissima età…), quando sostiene che il gotico sotto varie maschere è una delle cifre di riconoscimento della cultura contemporanea. In un alveo transtemporale che, partendo da Poe e da James (l’Henry di Giro di vite, non l’altrettanto sublime reverendo) ci conduce attaverso le valli oscure e seminali del B-movie (Bava, Fulci, Romero) per innalzarsi al mainstream più autoriale che si possa immaginare (Coppola e Bergman, Apocalypse Now e Fanny e Alexander), il nostro descrive non solo la presenza invadente – vampirica – del gotico nell’officina culturale del millennio, ma anche il percorso personale, ossessivo, che conduce a questa lugubre e miasmatica “stazione” che è la Sicilia borbonica alla fine del 1700.
Non siamo molto lontani da quanto ci dichiarava poco tempo fa Gianfranco Manfredi (vedi La magia del vento rosso) a proposito dell’horror: “l’horror non è un genere, ma un contro-genere, è contro tutti i generi, persino contro se stesso”, perciò si può rischiare di trovarlo come “cosa carpenteriana” all’interno di altri generi intento a lottare per il predomino territoriale o semplicemente per non farsi fagocitare. Vero è che “gotico” e “horror” non sono proprio termini interscambiabili, dal momento che esteticamente propongono due differenti modelli d’approccio, ma stare al gioco è doveroso anche perché la tesi di un gotico che si insinua silenzioso e vampirizzante non può che trovarci d’accordo. E da anni (tanti) in Italia non sono pochi gli scrittori che filtrano il genere attraverso dotti travestimenti che mandano in crisi i librai quando devono piazzare i tomi sugli scaffali. Non sbaglia King quando dice che “i generi sono una finzione inventata dai librai per poter incasellare le opere nei loro negozi”, e forse c’è il rischio di scoprire, sul percorso di queste superficialissime riflessioni, che il gotico moderno rischia di divenire il collante fra correnti e scrittori diversissimi e all’apparenza lontani.
Ma qui ci blocchiamo per non uscire dal binario. Che non è un binario morto, ma per un autentico cultore della caligo animae un viaggio entusiasmante perché devastante. Magmatico e sanguinoso quanto colto e intelligente, che ripercorre i tòpoi della narrativa popolare in una storia a incastri dove l’eccesso quasi splatter viene elegantemente raffreddato da un elegantissimo stile barocco, in linea con l’epoca dalla quale ci giunge la storia. Che sono gli anni del Viaggio in Italia di J.W. Goethe, di cui il libro è il mitico capitolo mancante: un’esperienza putrida e orribile che inizia per il grande tedesco in un’oscura notte dentro una bettola palermitana quando un misterioso avventore, la faccia solcata da una profonda cicatrice, inizia a raccontare la rabbrividente saga dei nobili decaduti Bosconero, detentori dello “stemma baronale più spaventoso” dell’isola. A questo punto, ma siamo solo all’inizio, dopo una convenzione rispettosamente ossequiata – il racconto nel racconto di jamesiana (Henry) memoria – abbandonate mentalmente qualsiasi altra convenzione perché vi attende una vorticosa Apocalisse dove la Sicilia di fine Settecento, e Palermo in primo luogo, diventano il nostro stesso mondo pencolante sul baratro dal cui fondo demoni metaforici prendono le fattezze di sordidi vampiri che appestano l’isola, sconvolgendone persino il clima…
Sarebbe folle e presuntuoso (e ingeneroso) da parte mia descrivervi la fabula dentro la quale si muovono i folli protagonisti dell’eterna notte: quei “dieci incredibili giorni” in cui Goethe divenne testimone dell’invincibile potere delle tenebre vanno gustati, annusati, vissuti nella complice consapevolezza di chi sa che questo Male, per quanto metafisico, è purtroppo autentico, socialmente destabilizzante e politicamente radicato. I Bosconero entrano così nella memoria del lettore e nella costruzione del “gotico che verrà” come una sorta di “circuito parassita” da cui non sarà facile – ma guai a noi – liberarsi. Lunga vita, anzi “eterna notte” ai vampiri, quindi… ma i Bosconero non sono un gioco di genere, come certe interminabili saghe vampiriche made in USA. I Bosconero sono tristemente attuali, veri, puzzolenti: si chiamano mafia, corruzione, controllo vampirico sulle nostre vite. Ma già mi sto impunemente impadronendo del pensiero dell’autore al quale cedo la parola.
D. Caro Flavio, prima domanda di rito. L’eterna notte dei Bosconero è la tua opera seconda ed è – all’apparenza – un gotico classicheggiante. Al di là che le apparenze, spesso, ingannano, come arrivi a questa scelta comunque coraggiosa?
R. So di dire una colossale banalità, e pertanto chiedo venia: i traumi infantili ti segnano. Non devono essere traumi particolarmente profondi “di per sé”, lo devono essere per te. Ora, se vado indietro nella memoria e cerco di ripescare il mio primo ricordo, direi che è questo: a sette-otto anni, a letto, con la febbre, sconvolto da una puntata del Pinocchio giapponese a cartoni che vede il burattino alle prese con un terribile e allucinato vampiro. Ne ho un ricordo nitidissimo. E poi Deuteronomio, XII, 23: “Il sangue è vita”. Di fronte a una tale sentenza come si fa a restare impassibili? O ci si bagna in tinozze di sangue come la contessa ungherese Erzsébet Bathory, oppure si scrive un romanzo. Per ora ho optato per la seconda.
D. Il gotico… A mio parere in Italia spesso ci s’imbatte in non pochi equivoci interpretativi su questo immenso magma (anche) letterario. Posso azzardare, e ti suoni come un apprezzamento, che il tuo romanzo fa giustizia di tante interpretazioni malaccorte?
R. L’Epodo 17 di Orazio parla di streghe, Petronio nel Satyricon parla di necrofagia e licantropia, Apuleio di zombie nel racconto di Telifrone, l’Inferno di Dante è una sarabanda di purissimo splatter, Petrarca in una epistola latina racconta una possessione demoniaca (altro che L’Esorcista), il Faust di Goethe ha per protagonista Mefistofele e mette in scena un sabba lunghissimo e truculento, Baudelaire parla spesso e volentieri di vampiri, Gogol vi dedica un racconto, ecc. Gli autori e le opere citate sono gotiche? Per carità!, direbbe qualcuno. Eppure vivono degli stessi elementi del cosiddetto gotico (suspense, sangue, morti viventi, fantasmi, nebbie avvolgenti, fuoco e fiamme, mistero, ecc.). Allora? Allora secondo me i generi semplicemente non esistono: esistono solo, wildianamente, libri scritti bene o male…
D. E posso anche azzardare che sotto la forma “classica” continui a sperimentare, come già fu per Diario di Bordo della rosa? E che forse, in più passaggi, rivolti il gotico come un calzino?
R. Spero di sì. Ho cercato di non prendere passivamente un modello e seguirlo. È così noioso… Anche perché il cinema ha capito benissimo quello che la letteratura spesso non ha voluto capire (ignoro le motivazioni: snobismo? miopia? pigrizia?): l’orrore è una chiave interpretativa potentissima. Lo dimostrano film come Vampyr di Dreyer, l’espressionismo tedesco, che è filmografia politica e antropologica (l’anticipazione del Terzo Reich, no? Kracauer docet), Rosemary’s baby di Polanski, Nosferatu di Herzog, che è anche un trattato epistemologico… Ma poi c’è la cosa più devastante: lo sfondamento della quarta parete, la vita vera. E qui tutto è orrore. Fatico a immaginare eventi più orrendi delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, delle devastazioni delle ultime guerre, dell’11 settembre, di Madrid, di Londra, dei genocidi…
D. Vampirismo settecentesco, Goethe, l’artificio di un manoscritto ritrovato, le tecniche jamesiane del “racconto nel racconto”: L’eterna notte dei Bosconero sembra rivolgersi a un pubblico colto e raffinato, non voglio dire elitario, che forse non è lo stesso che consuma King o libri della Gargoyle Books. Ci hai pensato a decifare un tuo pubblico a fronte di un’opera come questa? Nelle note di copertina si leggono i nomi di Lynch e proprio di King, ma certa critica ti ha accostato a Karen Blixen…
R. Mah, guarda, il lettore è più intelligente e sfaccettato di quanto spesso credono le case editrici. Se penso anche al recente successo di un libro complesso e colto come Con le peggiori intenzioni di Piperno. Ma gli stessi Il nome della rosa di Eco e Il profumo di Suskind, per citare due romanzi-faro per me, sono libri estremamente articolati, per niente facili. Nel mio piccolo mi sono sforzato di creare più livelli di lettura, in modo che anche l’appassionato di King ci si ritrovasse. Eppoi diciamolo: Le notti di Salem è noiosissimo! così ripetitivo e prevedibile. Spesso certi libri “di genere” sono narrativamente molto legnosi e meccanici: automobiline giocattolo, innocue e servili. Se devo fare dei nomi, allora le opere di Anne Rice mi sembrano più articolate, lucide e taglienti. Finora ho ricevuto reazioni molto positive da lettori completamente diversi, ma sto aspettando quella che con mia moglie ho ribattezzato “la prova Maurizio”: il portiere del Comune dove lei lavora è un appassionato lettore di King & C., se avessi il suo assenso sarebbe un bel risultato. Ti farò sapere.
D. Ho letto nelle tue note biografiche che hai scritto il libro dinanzi a Villa Diodati, luogo d’elezione della “nascita del gotico”. A me pare un assoluto e incontestabile esempio di “sincronicità junghiana”, ma forse è anche vero che per scrivere di demoni occorre farsi sfiorare dall’ala del demoniaco… Sei d’accordo?
R. Quella scoperta fu folle… Sono stato sei mesi a Cologny, la “Beverly Hills” di Ginevra — credo che non mi capiterà mai più in vita mia di vivere in un quartiere così lussuoso —, ogni mattina e ogni sera passavo davanti a quella villa senza sapere cosa fosse. Da novembre ad aprile del 2000 (o 2001 non ricordo bene). Indubbiamente però “qualcosa” (the thing…) mi aveva catturato. Ipnotizzato. Un finesettimana rifiutai la visita dall’Italia di Chiara, la mia futura moglie, adducendo il più cretino dei motivi : “Devo scrivere il nuovo libro…”. Era vero ma sembrava paradossale. Me lo rinfaccia ancora adesso. Sì, “Qualcosa” comunque credo mi abbia sfiorato: in questi anni, mentre lo andavo scrivendo, ho avuto spesso incubi, sogni a occhi aperti, dejà vu, strane coincidenze e presagi. Sono cose molto personali e non mi va di parlarne.
D. Sei originario del Friuli, terra di misteri e di folclore stregonesco. Conosco un altro friulano, il regista Lorenzo Bianchini, che secondo me sarà il futuro re – o uno dei sette – dell’horror italiano al cinema… Nelle sue opere, al di là della tecnica “dialettale”, si “respira” il Friuli e, più in generale, la volontà di riferirsi a una mitologia italica, al riparo da invasioni culturali “extracomunitarie”… E in Flavio Santi?
R. Anch’io conosco e ammiro Bianchini! Lidrîs cuadrade di trê, girato al mitico Malignani di Udine, è un piccolo capolavoro. Quanto al resto, siamo in Europa, e come tali ci dobbiamo pensare — lo dico anche in termini di letteratura: ci dobbiamo pensare “continentali”, “europei”, non semplicemente “italiani”, ormai è tempo — però è innegabile che, papà Hemingway insegna, si parla meglio delle cose che si conoscono. Il Friuli è terra di vampiri fin dal 1600, il famoso caso del Giure Grando… in Italia ci sono stati casi di criminali ematofagi (su tutti Vincenzo Verzeni), e in particolare il Sud ha un legame viscerale col sangue: alla fine del XVIII secolo nel Regno borbonico si registrarono casi di vampirismo, il principe Raimondo di Sangro mummificava cadaveri e si dava al satanismo, Villa Palagonia a Palermo è un tripudio di statue oscene e perverse, oppure la cripta dei cappuccini nella stessa città, e sempre a Palermo Goethe si era messo sulle tracce di Cagliostro (salvo poi incontrare i vampiri…), e poi certe leggende calabresi, ecc. ecc. Io ho cercato di far reagire un po’ tutte queste cose.
D. Tu esci per Rizzoli. Editoria che conta e che si guarda bene dal pronunciare e dallo scrivere da qualche parte la mefitica parola anglosassone: “horror”. E’ una vecchia storia, da cui forse non se ne esce… Ma tu adesso ci sei dentro. Che ne pensi?
R. Che è una bellissima parola. Quando la sussurra Kurtz-Brando in Apocalypse Now è da brividi: “L’orrore… l’orrore…”. Viene dal latino horreo, ha a che fare col diventare ispidi, irsuti, spinosi. L’orrore è una componente fondamentale dell’arte: Le Baccanti di Euripide sono “horror” (lo squartamento di Penteo è puro splatter), Eschilo è “horror” (quel sublime verso che dice: “Il fetore del sangue umano mi sorride”), le tragedie di Seneca, Shakespeare con tutti quei fantasmi e quegli sgozzamenti, gli esempi sono infiniti… anche Sveva Casati Modignani, a modo suo, è “horror”…
D. Forse sbaglio, ma quel “potentato del male” che spesso citi ne L’eterna notte dei Bosconero allude forse a qualcosa di minacciosamente contemporaneo….
R. Mafia, corruzione, immobilismo, parassitismo, guerre, malattie, povertà…
D. Qual è il futuro letterario di Flavio Santi? Se il mercato ti premierà, tornerai sul luogo del delitto (il gotico)?
R. Il successo di un libro è una stranissima alchimia: io ovviamente auguro al mio romanzo il maggior numero possibile di lettori. Credo che uno scrittore debba scrivere, schizofrenicamente, per il mercato e nonostante il mercato, ossia con la consapevolezza di avere un lettore cui rendere conto, sempre e comunque, ma senza inseguire forzatamente brand management, exit poll, ruffianate a tavolino, mode e andazzi vari. I lettori non sono anonimi numeri di una massa burina da infarcire con le Melisse di turno. Non sono polli da batteria, da accecare con effettacci mediatici o strilli giornalistici. Comunque, successo o non successo, sono già alle prese con una rilettura dell’altro mito gotico: Frankenstein. Che è una stupenda allegoria del cyborg, del post-human, dell’artificiale che tanto ci piace e che è un po’ l’insegna del XXI secolo. Ma anche lo zombie mi interessa molto, e non è detto che non lo usi prima o poi. Mi affascina meno invece il lupo mannaro, forse perché troppo smaccatamente animalesco, non so — del resto essendo io abbastanza glabro forse non si è stabilito il contatto…
[Flavio Santi, L’eterna notte dei Bosconero, Rizzoli 24/7, 2006, pp. 273, € 16,00]