di Girolamo De Michele
Prefazione al secondo romanzo di Saverio Fattori: Chi ha ucciso i Talk Talk? Falsa biografia autorizzata di Marco Orea Malià, Alberto Gaffi editore, Roma, 2006
Se non sai chi erano i Talk talk clicca qui, qui e qui
Non si esce dagli anni Ottanta, cantano gli Afterhours: quante volte abbiamo (abbiamo chi? noi chi? — non importa) ripetuto questa frase? Quante volte abbiamo citato qualcuno — molti qualcuno, forse — che ha detto: quando penso agli anni Ottanta non mi viene in mente niente? Bene: è ora di finirla. Se non riusciamo ad uscire dagli 80s, allora bisogna cambiare strategia: entrarci, negli 80s. Dentro, e sopra: entrarci a gamba tesa, a piedi uniti. Tanto la moviola-in-campo, il potere sulla velocità di scorrimento dei fotogrammi della nostra storia, il potere di selezione e alterazione è sempre in mano a quelli che gli 80s li hanno inventati.
Sono loro a taroccarci la visione, a decidere quale lato dell’“oggettività”, quale frammento di “verità” gabellarci: che per una volta vada in onda l’immagine “vera” e “oggettiva” del loro ginocchio che ruota innaturalmente, il loro tibia-perone frantumato, i loro fottuti menischi che schizzano via come le lame rotanti dei loro robottini giapponesi. Per noi i cartellini sono sempre stati rossi, uno in più… Ci avete voluti cinici? Bene, ecco quel che siamo.
Come entrare negli 80s? Qual è la tana del Bianconiglio? La sala d’attesa della Stazione di Bologna? La bisca del Libano e del Freddo? Il pozzo di Vermicino? Una radio sperduta in qualche buco, o un buco perduto in una radio? Queste strade hanno utilità e danni per la nostra vita. Utilità: ciascuna di loro parte da un altrove esterno agli 80s, e da quell’altrove si dipana come un filo nel labirinto della coscienza di questo Paese, come dall’amorevole mano di Arianna. Questo altrove permette la distanza, cioè lo spazio della critica degli 80s. Ma anche, danno: da quell’altrove non si diventa abisso perché, con un piede fuori dagli 80s, non si riesce a scrutare l’abisso fino in fondo. Persino la più etica delle affermazioni — e mi rimane ancora la certezza che si possa sbagliare dalla parte giusta(*) — troverà qualche ammiccante ultimo uomo disposta a rovesciare la certezza in consolazione, e la consolazione in rassegnazione da cambiare al banco dei pegni.
Questo libro non cerca l’ingresso della tana del Bianconiglio: è già al suo interno. Attenzione: se non sai dov’è l’ingresso, non saprai come uscirne. Ma, appunto, non si esce dagli 80s. La bestia si combatte dall’interno. E cosa può mai esserci, all’interno del Paese delle Meraviglie, se non il più trendy dei parrucchieri, MarcOrèa Malià, l’uomo che ha scolpito il bulbo agli 80s? Perché un negozio di capelli (e perché proprio i Talk Talk)? Perché sì — o forse: e perché no? Gli 80s sono gli anni dell’azzeramento dell’etica. Operazione da manuale: azzerare ogni valenza riducendo ogni essere — uomo, donna, cosa — alla sua funzione, ogni funzione alla sua traduzione in un parametro economico. La valorizzazione del grado zero dell’alienazione nella metropoli dispiegata. Dal punto di vista degli 80s, un luogo vale l’altro (come i gruppi del pop elettronico del periodo): perché no, dunque?
E allora, come combattere la bestia? Ri-funzionalizzando gli oggetti d’uso de-funzionalizzati, risponderebbe il vecchio zio Benjamin, uno che di queste cose se ne intendeva. Dimostrando l’impossibilità di un grado zero di defunzionalizzazione. E allora la bottega di un tagliatore di capelli può diventare il luogo di passaggio di un frammento della storia d’Italia, il nodo di un Grande Complotto Paranoico che si snoda nei frame narrativi di questo libro. Perché un Complotto? Perché complotto=paranoia: sono gli 80s, bellezza! La paranoia al potere! Quali politici 80s non-paranoici, cioè mossi da altro che non la sindrome da assedio permanente, quali politici che non siano la versione spaghetti del presidente Schreber ricordi? Craxi, Berlusconi, D’Alema… Gli 80s sono geneticamente impregnati di potere — non di potenza: di potestas, di dominio, non di possibilità — e l’esercizio del potere è interfacciato con la paranoia. Tutti devono far parte del gioco, anche quelli che giocano contro: basta che non giochino fuori. Il potere, baby, il potere. La paranoia è la zona grigia in cui “salute” e “follia” sono indiscernibili, dove parole come “realtà” e “finzione” smettono di avere senso: dove non è più questione — per fortuna — di “fiction” e “faction”, parole di scarso peso specifico sulle quali si avvita talvolta la critica. Né ficton né faction, o forse ambedue: così come con i generi, altra annosa questione su cui la critica letteraria si avvita. Ceci n’est pas un noir, potrebbe recitare una fascetta fuori dal libro: ma all’interno un’avvertenza dovrebbe dire che Ceci est bien un noir! Frammenti di narrazione, un abbozzo di indagine, lampi gettati nell’oscurità delle trame: come se un Ur-noir fosse esploso, finito in mille pezzi, e Fattori ne avesse raccolto gli sparsi cocci, tendendo al limite la sua scrittura. Ecco quello che abbiamo: spunti narrativi, stracci al vento, frammenti imputriditi. Come la realtà di cui siamo abitanti, nella quale c’è pur bisogno che qualcuno, di tanto in tanto, ci ricordi che ci furono trame di cui abbiamo perso il senso (vagoni ferroviari dilaniati, stazioni saltate in aria, carni lacerate, membra tagliate dal tritolo e corpi martoriati dalle schegge) — o la capacità di dar senso — e trame che diedero alla nostra storia il senso che oggi abitiamo. Che resta frantumato e inconciliabile, perché così vogliono i signori della moviola-in-campo, padroni e taroccatori di una storia che non dovrebbe essere d’altri che nostra.
(*) Stefano Tassinari, L’amore degli insorti