di Alessandra Daniele
Lo stile limpido, il sarcasmo tagliente, la fulminante genialità di Fredric Brown (1906-1972) fanno della sua ricchissima narrativa breve una galassia di stelle, ciascuna potente e luminosa come una supernova, e capace di riassumere in sé l’universo, per poi dispiegarlo davanti agli occhi del lettore in un lampo folgorante, fatto per comunicargli il piacere puro della scoperta fuso con l’emozione profonda della consapevolezza.
Esempio ottimo, e sempre drammaticamente attuale, il suo leggendario racconto Sentinella (“Sentry”, 1954). La profonda, sconcertante verità di cui rende consapevoli sui concetti di ”mostro” e di ”nemico” è una lezione di vita preziosa e indimenticabile, che merita sicuramente di prendere il posto nei libri di scuola di molta retorica fuffa. Mentre il beffardo, inesorabile finale del suo altrettanto giustamente celebrato La risposta (“Answer”, 1954) compendia (e per certi versi trascende) secoli di teologia, e contemporaneamente decenni di sf cibernetica.
Vieni e impazzisci (“Come and go mad”,1949) ribalta con sarcasmo potente e terribile ogni comoda illusione umana di superiorità e controllo. L’angelo lombrico (“The Angelic Angleworm”, 1943) eretico
a partire dal titolo, decostruisce l’universo sul principio cabalistico della parola che plasma la realtà. E le sabbie azzurre de Il duello (“Arena”, 1944) evocano l’inconscio collettivo come non-luogo dove si decide davvero l’esito ultimo di ogni battaglia.
Maestro indiscusso della difficilissima arte della short story, Fredric Brown sintetizza con sapiente abilità metafore immaginose in paradossi spiazzanti e dissacranti analogie, mirando a trasmettere un divertimento intriso dell’ inquietante e affascinante consapevolezza capace di scardinare la cornice del nostro orizzonte, di spingerci a seppellire con una risata, amara ma goduta, le rassicuranti miopi certezze, per cercare risposte più autentiche e insieme accettare l’inevitabile presenza del mistero.
Stelle giganti al centro della sua galassia di racconti splendono i romanzi come Assurdo Universo (“What Mad Universe”, 1949) che con mirabile eleganza associa una trama incalzante, visionaria, e ironicamente autobiografica, un’arguta satira di archetipi e stereotipi della fantascienza stessa, una raffinata riflessione cosmologica che anticipa le teorie della fisica quantistica, e alcune tematiche dickiane sulla soggettività del reale. Una riflessione che tornerà anche in Marziani andate a casa (“Martians go home”, 1955) intrecciata ancora con la satira letteraria, sociale e politica, corrosiva e spietata come suo solito.
Parallelamente alla sua attività nella sf, Fredric Brown trova il tempo e le risorse creative per condurne anche una come prolifico autore di mistery, nei quali sarà ugualmente capace di infondere il suo spirito caustico e il suo gusto per l’imponderabile. Storie nelle quali la classica architettura narrativa della suspense, padroneggiata con maestria, viene inoltre arricchita da suggestioni intriganti, enigmi bizzarri, venature inquietanti, e l’investigazione sul crimine spesso procede di pari passo, quasi specularmente, con un’implicita ma palpabile autoanalisi dell’investigatore. Una concezione del “genere” dinamica, che anticipa quella attuale anche nelle tematiche, come dimostrano i crimini ”mediatici” de Il delitto che diverte (”Murder can be fun”, 1948), in cui l’assassino ”ruba” le idee per i propri omicidi a un autore di radiofiction, o il delirio del serial killer nel quale il protagonista scorge un riflesso del proprio, nel capolavoro La statua che urla (“The Screaming Mimi”, 1949), dai toni intensi del miglior psycho-thriller.
Ma la sf resterà sempre la preferita di Brown come rampa di lancio per i suoi strali satirico-allegorici sempre capaci di cogliere nel segno. Per la gioia dei suoi fortunati lettori, sia esperti e affezionati, che neofiti appena conquistati da quel formidabile condensato delle potenzialità della fantascienza che sono le sue storie.