Chi desiderasse leggere una recensione all’ultimo film del giovane cineasta coreano, cerchi su Google. Qui intendo esercitare una capacità di discriminazione su un’arte che, come ho recentemente ribadito qui e qui, sta accelerando verso la crisi della finzione tutta elaborata in occidente, mentre da luoghi estranei ad esso provengono opere spiazzanti: opere d’arte. Forse non siamo più abituati a un’opera d’arte, forse le masse sono state diseducate in tempi recenti (e sottolineo “recenti”) alla percezione di che cosa l’arte cerca di intercettare e trasmettere. Ma al di là di questa china che finisce per sprofondare nelle più superficiali conclusioni post-adorniane, è proprio lo statuto dell’arte che vorrei discutere. Appoggiandomi a Time di Kim Ki Duk, ma anche ad altre opere.
Per esempio, l’iper-installazione di Jannis Kounellis allo Spazio Pomodoro a Milano (già esposta, ma sarebbe il caso di dire decomposta, a Roma nel 2002). E’ difficile parlare di qualcosa che è stereoscopico e composto di moduli di installazione: quindi, apparentemente di oggetti e immagini fermi. Il fatto è che non sono fermi. L’esposizione di Kounellis è tutta a piano terreno: c’è un labirinto sormontato da carbone [nella foto], si vedono i pezzi di legno in composizione che costituiscono uno stilema ben noto dell’artista, ci sono dodici sedie in cerchio attorno a una macchia di smalto nero, c’è un cubo-biblioteca senza aperture con quarti di bue appesi alle pareti, appaiono colonne a spirale in metallo che salgono fino all’altissimo soffitto. Tra queste opere si aggirano i visitatori, comprendono quello che comprendono, ricavano un’emozione, un’idea, un’induzione che non sto a discutere. Pochissimi sono coloro che si rendono conto che lo spazio dell’esposizione offre tre ballatoi, uno sopra l’altro, fino a sfiorare il plafone, e ancor meno i visitatori che salgono sopra quelle piattaforme minime. Salendo, a ogni livello, qualcosa si chiarifica: per esempio, si nota che le colonne a spirale non sono messe a caso, incominciano a scattare relazioni tra le singole installazioni, una richiama l’altra, tra opere distanti si osservano analogie significative. Un altro livello superiore e le colonne a spirale incominciano a esercitare un magnetismo potente e a dichiararsi (in citazione dalle “scale” di Brancusi) segnali della trascendenza umana. All’ultimo livello, si riesce a vedere che dentro la biblioteca a cubo, che non ha soffitto e alle pareti ha appesa carne morta, sul pavimento è gettato smalto nero e che lo stesso smalto nero, osservato da quelle dodici sedie zodiacali o apostoliche, brilla, perché da quell’altezza è colpito dalla luce di un faretto che, ad altezze inferiori, non si percepiva. Si capisce che quello smalto nero, che appare un po’ ovunque (solo adesso ci si fa caso) è il fenomeno umano secondo Kounellis. Questo organismo abnorme nelle dimensioni si intitola Atto unico e lo è davvero. Non è un’opera multilivello, come certi thriller di cui so qualcosa, per cui si stratificano piani di lettura differenti a diverse profondità, ma in un’unica impalcatura. Se dovessi compiere un parallelo tra la straordinaria esibizione di Kounellis e i romanzi (o i libri di poesia), dovrei andare anzi nella direzione opposta: è come se uno scrittore prima scrivesse un libro, leggibile e fruibile e recensito e accolto dalla comunità dei lettori, e poi quel libro lo trasformasse in qualcos’altro: un altro libro, magari più incomprensibile e scomposto o essiccato, una performance di corpo e voce, un’opera multimediale. Per ognuno di questi moduli, un’opera d’arte; nell’insieme, tuttavia, un’opera d’arte di opere d’arti, che è qualcosa che rimanda al ciclo epico, all’anonimato, al movimento di insorgenza colossale della letteratura che supera la minuscola egoità.
Questa premessa, che è però una conclusione e a cui va aggiunto l’effetto, che è quello di non produrre idee ma di catapultare l’umano in uno stupore che esclude il pensiero dialettico e calcolante, serve a fare comprendere quale opera stia componendo Kim Ki Duk [nella foto]: Time è una perla di un immenso ciclo composto da film eterogenei e distantissimi tra loro per modalità di rappresentazione, stili, tematiche, dialoghi, presenze e storie. Il filo che tiene insieme questa enorme eterogeneità è sottile e trasparente perché è la sostanza stessa delle storie: cioè l’immaginario come penultimità prima del silenzio, che è il modo in cui qui denomino l’atto metafisico e naturale dell’uomo: cioè la mente cristallina e lucida disposta a osservare al di là di ogni giudizio ciò che accade, il mondo come manifestazione al di là del bene e del male, come stupore relativo consapevole della sorgenza di quello stupore: che è se stessi, noi stessi che stupiamo.
Dopo le tappe fondamentali della maturità – Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora Primavera, Ferro 3 – La casa vuota e L’arco -, il più recente film di Kim Ki Duk, Time, si inserisce direttamente nella superficie dell’oggi e prende di petto il problema dei corpi e delle identità, sollevandolo ad apici di universalità sconcertanti. Si può dire che con Time si è a livello del piano terra della mostra di Kounellis, ma una volta che si sia discesi dai ballatoi in cui ci si è resi conto dell’impressionante organicità mobile e ineffabile della disposizione data alle opere. Time è la storia di un rapporto amoroso che, a causa di nevrosi tipicamente occidentali (l’amore non dura per il crollo dei corpi, per la stanchezza che implicano i medesimi lineamenti fisiognomici nel tempo), esplode utilizzando uno degli asset fondamentali del presente occidentale, e cioè l’ossessione della chirurgia estetica. I protagonisti cambiano volto e lo cambiano non come siamo abituati: non viene corretto il naso o il mento, ma si accede a un’altra faccia. Il confronto tra queste nevrosi, che vengono innescate come reazione a catena, comunica significati profondi sulla relatività dei corpi e delle identità. Tuttavia non è questo il centro dell’intenzione artistica di Kim Ki Duk. Che è un artista massimalista, perché aggredisce gli universali: il film termina con una morte, una ripetizione delle scene iniziali che sono mutate di prospettiva (ma non dal punto di vista delle azioni sullo schermo, che sono identiche alla sequenza iniziale) e costruiscono un loop ucronico totalmente inaspettato: come se il tempo non fosse mutato, ma la prosepettiva sì. E’ esattamente l’intenzione artistica di Kounellis: che cosa sia un istante è la domanda metafisica che corre tra le due opere d’arte dello scultore greco e del regista coreano. Sarò più preciso: che cos’è l’uomo in un singolo istante, un istante talmente breve da non avere il tempo di pensare alla propria identità, al proprio nome? Questo pozzo artesiano, che corrisponde a qualcosa di occidentale, ma talmente originario che ce lo siamo scordati, è la domanda platonica “tì èsti“, il “cos’è?” che fa la metafisica tutta. A questa domanda non c’è risposta, non può esserci: se c’è, si cade nell’ideologia, nella crudeltà del tempo che solidifica e metallizza le idee, e si finisce per spaziare dal nazismo alle stragi nei Balcani o in Iraq. La domanda deve restare aperta e il fenomeno umano è l’apertura di questa domanda. In Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora Primavera si osservava alla fine il monaco redento (che si credeva irredento), interpretato dallo stesso Kim Ki Duk che qualche minuto prima avevamo visto in posture perfette di Tai Chi sul ghiaccio, portare a fatica una statua di pietra pesantissima del Buddha su una vetta, da cui la statua stessa osserva la capanna/ashram al centro del lago, dove la storia si è svolta. Quello sguardo di pietra corrisponde allo scarto genialmente ucronico al termine di Time: tutta la storia viene riaperta e l’ucronia coincide con il tempo che dovrebbe spostare. Siamo a un livello di retorica artistica che supera la retorica, già di avanguardia e utilissima alla più recente e interessante letteratura, della distopia e dell’ucronia. Siamo a un livello di retorica che spacca perfino il ruolo degli archetipi, se lo sguardo umano è quello di una statua, cioè di un oggetto inanimato a forma di uomo che è nel tempo e però è fuori dal tempo perché non è cosciente del tempo, e ha proprio la forma di colui che ha trasceso il tempo, cioè il Buddha. Con la sua opera di opere, Kim Ki Duk arriva a spingere lo spettatore in uno spazio ultremo, supersottile, al di là del pensiero che ha forma: lo spazio in cui l’umano è davvero umano, lo spazio in cui si sa di non sapere e, pur sapendo di non sapere, continua a vedere il mondo e lo scorrere delle immagini, che dileguano come le storie e come le storie continuano a ripetersi, varianti infinite, stupefacenti. Del resto, da che punto si osserva l’interezza del divenire, che l’arte affronta immergendovisi, traendone archetipi, simboli ed emblemi? Da dove ci viene l’idea del divenire che regna ovunque? Da che punto mentale abbiamo l’idea della totalità del divenire e osserviamo questo miracolo, congestionato e stupendo, che è l’universo?
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