Uno degli eventi che, mercé gli impegni di giuria per la sezione Orizzonti, mi ero perso alla Mostra del Cinema di Venezia è stato l’ultimo film di Stephen Frears, The Queen. Celebratissimo sui quotidiani (italiani) a partire dal giorno successivo alla proiezione e dato per scontato vincitore dai cronisti (italiani) fino all’ultimo, questo ibrido tra soap-opera e melodramma gay su quanto è bella e imperscrutabile Mamma sembrava sbaragliare tutto e tutti, il che era vero: l’ho visionato ierisera e ne sono rimasto sbaragliato. Sono incredulo, passata ‘a nuttata: Frears, regista di (passato) notevolissimo impegno politico, si dedica a magnificare le sorti progressive di un premier che è stato la versione maschile della Thatcher e anche peggio, mentre simpatizza con la signora coronata sulla quale tutto c’è da dire tranne che le imbarazzanti e tremule decisioni nei giorni postmortem di Diana. Ridicola pellicola. Occasione persa per dire cosa sia davvero la Corona inglese nel mondo – non solo nel Regno Unito.
La trama è presto detta, perché qui trionfa il particolare (le lenzuola dove due vecchietti nobili dormono, le colazioni con i barattolini di conserva, il Land Rover da scarrozzare nella tenuta privata, etc.): Elisabetta II, accompagnata dalla sua famigliuola sgradevolmente votata al rispetto di un protocollo rigido e anemotivo, è furiosa per il successo popolare dell’ex nuora, che ha rubato successo e amore alla Corona, e che da morta oscura la genìa più disumana del pianeta. A salvare dalla crisi la famiglia Reale (che più irreale non si può), arriva un sosia di Tony Blair, che interpreta Tony Blair, con i suoi umani consigli istericamente pensati come strategie di riappropriazione del favore popolare. Molti inserti di immagini televisive straviste in tutto il pianeta: tg, dirette, le sequenze del funerale – così gli spettatori al cinema hanno facile gioco a identificarsi e a rimanere attenti, perché in quella visione dall’etere loro c’erano. Fine, con il ritorno della Regina a Buckingham Palace per evitare lo tsunami del popolino, trionfo con Blair che passeggia tra i fontanili regali in compagnia di una nonna della nazione che, ahimè, fu ragazzina nominata precocemente Regina e quindi educata a essere incartapecorita: che sorte infame, che brutto karma, poverina…
Da non crederci.
Da non credere il gioco delle somiglianze (tranne Carlo, che sembra la versione giovanile e macrocefalica di Sergio Endrigo), con tutti i sosia dei personaggi storici, da Cherie Blair a Filippo il gaffeur, mentre la “grande interpretazione” di Helen Mirrer (premiata con la Coppa Volpi, alla cui caccia la Regina non rinuncia, anche se nel film si cerca di impallinare cervi) è soltanto una mimesi, la più accurata possibile, dell’Elisabetta vera.
Da non credere il lutto lacrimoso di Carlo, che chiunque abbia studiato il caso Diana (e il sottoscritto l’ha fatto) sa perfettamente essere un gelido cobra, un uomo che ha indotto la giovane Spencer a dormire separata da lui, nella nursery di Buckingham Palace (un’umiliazione, anche se la nursery di Buckingham Palace è trentadue volte casa mia), a tentare goffamente il suicidio buttandosi giù dalle scale e a praticare autolesionismo fino a bucarsi una tetta con una Bic davanti agli attoniti servitori di Carlo stesso (in totale sono 42, quasi tutti omosessuali e per questo ribattezzati “Pink Mafia”). Carlo fu l’uomo che allontanò da Diana, essendo lei in piena depressione, l’unica persona con cui si confidava: la guardia del corpo, che morì in un incidente stradale ambiguo a una settimana dall’allontanamento, in Scozia – evento luttuoso che Carlo scelse di annunciare a Diana due secondi prima che si aprisse la porta della loro limousine a Cannes per il Festival, il che spiega le foto di una Principessa in crisi di nervi e piangente sulla Croisette. Nel film di Frears, Carlo è mostoso come la marmellata che reiteratamente Elisabetta spalma su tartine presso la sua tenuta privata, una specie di Lussemburgo dove i Reali si occupano di corna (14, per la precisione: quelle di un cervo, non le proprie) per distrarre i due figli di Diana dalla morte della madre. Il centro del film è per l’appunto l’uccisione del cervo reale, con Elisabetta che trattiene le lacrime: non si sa se metafora del cadavere di Diana o del cadavere della monarchia o delle questioni di corna ben risapute – comunque è l’apice del film.
Da non credere la totale assenza dei particolari che, a distanza di anni, mantengono aperte due indagini (di cui una ufficiale francese e una esplorativa inglese) sulle reali cause della morte di Dodi e Diana: quasi definitivamente accertato che Henri Paul, l’autista infamato e dato per alcolizzato, non era alterato mentre era alterato il suo cadavere, che non era il suo, ma quello di un suicida parigino rimediato la sera stessa dell’incidente alla morgue della Santé e immantinentemente cremato, per evitare indagini tossicologiche o peggio; individuata la famigerata Uno Bianca che assistette dalla corsia opposta al supposto “incidente” e che apparteneva a un fotografo ritrovato morto nella medesima vettura una settimana dopo il fatto, suicida secondo le perizie, ma con la portiera dell’auto chiusa dall’esterno; stabilito con certezza il totale blackout delle telecamere presenti agli imbocchi e dentro il tunnel dell’Alma; risollevata la questione dell’inoculazione di formalina nel cadavere di Diana, elemento che impedì ogni accertamento clinico sul corpo; contate quaranta persone (sempre le stesse) riprese dalle telecamere del Ritz a passeggiare per 18 ore davanti all’hotel, in completo grigio scuro e occhiali da sole. Di tutti questi elementi (e dei molti altri che emergono dalle indagini private), Frears non fa menzione.
Da non credere che la Regina, i cui corpi speciali da anni alimentano la jihad con gli scopi che sono davanti agli occhi del pianeta, che controlla gran parte del cartello mondiale del grano, che ha voce in capitolo tra le Sette Sorelle del petrolio, che finanzia terrorismi in ogni Stato si opponga alla politica angloamericana, che fa baronetti i più reazionari tra i presidenti Usa (il che dovrebbe fare riflettere sui reali rapporti tra Stati Uniti e Corona) venga presentata come un’avvizzita madama che ricorda più la Juve in serie B che il capo dell’èlite tecnocratica impegnata a fare e disfare Trilateral, Bilderberg e quant’altro decida i piani quinquennali dell’occidente industrializzato.
Una fotografia mediocre per un piano narrativo che manda in visibilio la mia portinaia: un fotoromanzo dell’assurdo, in cui vedrei bene Ciavarro nel ruolo di cadetto. Una muccinizzazione di Frears, che i cronisti cinematografici italiani continuano a incensare: a segnalare lo stato delle cose, cioè che l’occidente non è nelle mani del Salvatore, ma del Salvatores. Avanti così: facciamogli del male sul terreno di guerra, e facciamoci del male al cinema.
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