di Ted Baxter
John Updike è, dalla cima dei capelli alle unghie dei piedi, quello che si definisce un vero wasp: un white anglo-saxon protestant; è anche un signore di una sessantina d’anni che ne dimostra, fortuna sua, dieci di meno. Ed è stato baciato da un invidiabile successo.
Nato a Shillington, in Pennsylvania, dopo essersi laureato ad Harvard, ha frequentato corsi di specializzazione a Oxford. Il suo primo romanzo l’ha pubblicato a 27 anni; era il 1959, e s’intitolava The poop-house fair, descriveva la miserabile vita degli sfortunati ospiti di un centro per anziani. Vinse il premio Rosenthal, e da allora non si è più fermato.
Nel ’60 ha pubblicato Rabbit run, storia di un giovanotto con innumerevoli problemi, e che non sapeva come districarsi tra due donne (il risultato è che le rende entrambi incinte). Con questo libro Updike è diventato ricco e famoso. E’ stato pubblicato anche in Italia, rispettando alla lettera il titolo: Corri coniglio. E’ anche una specie di saga: seguiranno infatti Rabbit redux e Rabbit is rich (Il ritorno del coniglio e Sei ricco, coniglio); quest’ultimo romanzo, fra l’altro, gli ha fruttato il premio Pullitzer, l’American Book Award e il National Book Critics Circle Award.
Sono trent’anni che Updike lavora sulla macchina da scrivere; uno dopo l’altro ha sfornato una decina di romanzi e, complessivamente, una ventina di volumi; tutti best-sellers, centinaia di migliaia di copie vendute negli Stati Uniti e in altri paesi sparsi per il mondo: “Ovunque”, dice, “tranne che nei paesi arabi”.
Sposato, quattro figli, accanito giocatore di golf, cultore di jogging, Updike ha fissato la sua residenza a Georgetown, nel New England; possiede una grande villa di 14 stanze in riva all’Oceano Atlantico, circondata da una mezza dozzina di ettari di terra, enormi prati verdi, piccole baie, spiagge incontaminate. Un luogo che sembra uscito dalla penna di Scott Fitzgerald.
Vent’anni fa Updike era solo un giovanotto promettente, che collaborava al prestigioso New Yorker con romanzi, racconti e poesie (successivamente raccolti in The Carpentered Hen), e curava una rubrica intitolata “Tutta la città ne parla”. Di lui si diceva che stava per imporsi come continuatore della tradizione letteraria di Sinclair Lewis, il premio Nobel 1930, autore di Babbit e Velocità (e non sarebbe il caso di riscoprirlo, Lewis, e di rileggere le pagine ingiallite e impolverate dei suoi libri? Qualche sorpresa non mancherebbe…).
Oggi Updike è ricco, tranquillo; Manhattan è ai suoi piedi. La cosa buffa è che lui per primo non si fida molto di tutto questo successo. “La celebrità”, dice, “ha condotto più d’uno all’imbecillità”. E’ anche reticente quanto basta: “O si lavora, o si rilasciano interviste”.
Siamo serviti. L’invito, esplicito, è a non perdersi in chiacchiere. Tuttavia, fuori dall’ufficialità, Updike è un tipo piuttosto simpatico. Ogni mattina, ormai da molti anni, si arrampica lungo la scala di legno che conduce al suo studio, e si chiude in quello che è il suo regno incontrastato. E’ lì che lavora, scrive, pensa i suoi romanzi.
Da ragazzo non pensava certo di guadagnarsi il pane con la macchina da scrivere. Gli piacevano i fumetti: “Tutti i miei risparmi finivano lì”. Sognava di fare il cartoonist. A 20 anni gli capita tra le mani la Recherche di Marcel Proust. Una folgorazione. Da quel momento Updike lascia perdere i disegni, e decide di fare lo scrittore.
Lavoratore infaticabile, ma anche lettore vorace. Lungo gli scaffali della sua immacolata libreria, sono allineati centinaia di volumi. Di tutto: Dante e Shakespeare; Doris Day (la biografia dell’attrice, proprio lei), e Teillhard de Chardin. “Sono di bocca buona”, confida. Ma è vero sino a un certo punto. Infatti è un lettore attento e un critico raffinato. Ha letto centinaia di libri, che recensisce per le numerose riviste a cui collabora. Giudizi precisi, sintetici, sicuri sugli autori che preferisce: Virginia Woolf “è come se avesse condito un po’ la mia vita”. Jorge Luis Borges “è dotato di una meravigliosa austerità, un’eccezionale, semplice gravità”. Raymond Quenau “capace di rendere ogni cosa debordante, eppure tutto è tenuto insieme come in un soufflè”; e Ferdinand Céline “è uno dei geni del nostro tempo”. Colette lo affascina, “per la sua freschezza e il suo mondo così minuscolo: un gatto, un raggio di sole, qualche frutto sul tavolo e il suo amante nella stanza vicina; può scriverci pagine su pagine. Ed è confortante”. Ancora. Albert Camus: “Al college i corsi dedicati a lui erano quelli che seguivo con più attenzione”. James Joyce: “un genio che salta fuori ad ogni riga”. Woody Allen e Pelham G. Woodehouse, “perché ho cominciato che ero una persona molto divertente; mio Dio, come ho potuto diventare così serio?”
Appassionato dell’Europa, non dimentica l’America. Si tiene costantemente informato sulle novità, e ha cura di leggere tutto quello che scrivono i suoi colleghi. Philip Roth, Bernard Malamud, Saul Bellow sono gli autori verso i quali nutre “una sconfinata ammirazione”. Rimpiange di non essere riuscito a conoscere Vadimir Nabokov, l’autore di Lolita. “Avrei voluto verificare se l’uomo era all’altezza dello scrittore”.
Dalle finestre della sua villa si vede l’oceano: “La letteratura”, dice, “è come la scia che lasciano certe barche. Un luccichio, un lampo”. Poi aggiunge in tono più serio: “Amo gli scrittori che sono capaci di restituirci e conservare le cose del mondo. Corriamo sempre più il rischio di diventare ciechi”.
Nei confronti dell’intellighentia newyorchese è acido, severissimo: “Il fatto è che a New York quello che conta è il denaro. Mi sono sempre sforzato di vivere modestamente, con poche pretese. Laggiù invece lo scrittore deve pensare ai suoi libri come investimenti economici. La cosa mi paralizza”. Una delle cose che detesta di più è che gli scrittori siano diventati come degli attori: “Vanno in tv, parlano di attualità per trenta secondi; è ridicolo, ho una concezione più nobile dell’artista”.
Dunque: ricco e famoso contro-voglia?
“Io sono diventato famoso perché altri, nel frattempo, erano morti. Un po’ come il vice-presidente che diventa presidente. Io cerco di resistere. Alla fine, però, si resta quasi soli, a sapere come si tiene in mano una penna…”.