di Tommaso De Lorenzis

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«Il principe, assolutamente esausto e disperato, si distese anche lui sui cuscini e avvicinò il viso a quello pallido di Rogožin; le lacrime sgorgavano dai suoi occhi e cadevano sulle guance di Rogožin, ma è probabile ch’egli stesso non si rendesse più conto delle proprie lacrime e non ne sapesse nulla…»
F. Dostoevskij

«Un poliziotto, qualche viveur, due o tre magnaccia della penna, un’infinità di squilibrati, un cretino, ai quali nessuno avrebbe niente in contrario se venissero ad aggiungersi poche persone sensate, dure e probe, cui verrebbe data la qualifica di energumeni: non c’è di che costruire una squadra divertente, inoffensiva, a perfetta immagine della vita, una squadra d’uomini pagati un tanto al pezzo e che vincono ai punti?»
A. Breton

L’Idiota

Nelle pagine de La vampa d’agosto, vanno liquefacendosi, come meduse su sabbia incandescente, le vanitose convinzioni del polar contemporaneo. Un’altra morte si aggiunge all’infinita teoria di consunzioni/rinascite che annovera i più fecondi momenti della storia del «genere». Andrea Camilleri ha consegnato alla letteratura poliziesca un perfido enigma, la cui insolubilità abita il campo instabile del paradosso narrativo.

Una volta ancora, l’impasse della “logica gialla” appare al centro della scena, nelle forme d’un sovvertimento strutturale, consumato a debita distanza dagli stessi canoni della «crisi». Il tempo del finale aperto, della molteplicità di soluzioni e degli incalcolabili capricci del caso, è passato, come pure l’età dei piedipiatti — «pesatori d’anime» e «accomodatori di destini» — eternamente sospesi tra criminologia e psicoanalisi, volontà delittuosa e coazione omicida, Quai des Orfèvres e Hôpital général. Tuttavia, la debolezza della ragione e dell’intuito torna a fare paura e occorre prestare attenzione, perché la disfatta è una bestia in agguato, che non nutre pietà per alcuno.
La débâcle delle funzioni preposte all’attività indagatrice non si limita a confermare la ben nota insufficienza del “vero”. Di là dal miraggio d’una certezza da dimostrare, l’ordine va in frantumi, portandosi appresso i quieti ideali, la saggezza spicciola e gli insopportabili valori, che reggono il cosmo del celebre commissario di Vigàta. La risateddra spezzata come tanti pezzi di vetro che cadivano ‘n terra — quest’implacabile colonna sonora della Beffa — non ferisce soltanto l’orgoglio di un uomo e la sagacia di uno sbirro. Piuttosto, sfregia il volto dell’odierno poliziesco seriale, del filone letterario che ha esorcizzato l’incubo della sconfitta, imprigionandolo nella tristezza d’occasione, nel lugubre presente da reduci, nel gesto alcolizzato, nel dolore d’un passato remoto, nel patema sentimentale o nel blocco d’una qualsiasi fobia.
Il Gonzo, il martire del Raggiro, l’Illuso, il rovescio dell’Indagatore, l’antico archetipo dello Sciocco che si crede edotto, l’ignaro «gemello» del filosofo che si professa ignorante, sembrava definitivamente estromesso da un polar pacificato, pronto a trasformare l’Errore nella parodia di un’indagine goffa, il problema dell’“autenticità” in una denuncia giornalistica e la Rovina in una sindrome d’abbandono. Cosa avrà il sapiente più dell’idiota? La domanda è rimasta senza risposta, perché il «niente» da urlare a pieni polmoni avrebbe fatto sentire imbecille troppa gente. E quindi, visto che l’interrogativo pesava come un macigno, s’è deciso, sotto l’insegna d’un sorriso bonario, che l’Idiota dovesse esser cretino, maldestro e anche squilibrato. L’Olimpiade dei bisonti schizofrenici, degli ispettori pasticcioni e degli avvocati claustrofobici, cominciò così. Ora, dopo La vampa d’agosto, tifiamo Settembre Nero.

L’Errore è tragico ed è bene non ridere. Al contrario, c’è da chiangire.
Lo s-baglio o, meglio, l’ab-baglio di Montalbano — accecamento indotto dai riverberi del solleone, da una chioma di «pallido oro» e dalla ‘nnuccenza risplendente dei vent’anni — resta senza compensazione, allontanandosi — nel suo dolorosissimo compimento — dai blasonati modelli della tradizione. Quest’abbaglio ha poco a che fare con l’inchiesta errabonda, moltiplicatrice di errori funzionali, ma pur sempre indirizzata verso una meta, che caratterizza le migliori opere hard-boiled. E non intrattiene alcun legame con quel “granchio”, produttore di rimorsi e sincopi investigative, che — in Un échec de Maigrets’appiccica addosso al poliziotto di Simenon, per essere scacciato — infine — da un’intuizione acciuffata nel profondo dei sogni. Camilleri non ha nemmeno provato a riscrivere, in salsa siciliana, la malinconica dignità che, in The long goodbye e in C’era una volta in America, Marlowe e Noodles — cavallereschi idioti del Secolo XX — oppongono al tradimento dei vecchi amici. Nell’estate rovente, un’energia diversa si fa strada tra le maglie del poliziesco, intrufolandosi sotto i significati più ovvii. Drammatica forza del fallimento e dell’imbroglio, della caduta e della finzione, del delitto e del castigo, del desiderio che ottenebra e della rappresaglia che uccide, il Noir spadroneggia in un finale a dir poco rocambolesco, che compone, e impone, il dolente ritratto della Vittima. Ma quando il soccombente non è un predestinato, un maledetto privato perfino del sole, l’angoscia — mista a sbalordimento — si moltiplica. Il colpo non è più solo “di scena”, bensì diventa una botta assestata in pieno viso.
Tutto sul nero, quindi. E rien ne va plus

Dal punto di vista dei modelli, La vampa d’agosto ostenta un intreccio volutamente classico, plasmato su traiettorie ordinarie che, nelle mani dello scrittore, si rivelano armi micidiali. Camilleri, la spesa al mercato della vecchia «letteratura culinaria», l’ha fatta come si deve e gli ingredienti ci sono tutti: una ragazza stuprata e sgozzata; il casuale ritrovamento del catafero a distanza d’un lustro abbondante dal fattaccio; un porco bastardo di rara abiezione su cui s’appuntano i soliti sospetti; un alibi da scardinare; un trabocchetto organizzato secondo la vetusta iconografia; e una comprimaria bella da morire, sorella gemella della vittima, che s’offre per l’ambito ruolo di esca.
La conformità agli schemi è strenuamente difesa fino all’improvvisa apparizione dell’aggettivo «stracangiata», che — più di una voce o d’una brusca svolta di trama — denota un magistrale trapasso di genere. È a questo punto che il lettore, circuito (ma sarebbe meglio dire «sommamente rincoglionito») dal morbido ordito degli stereotipi, paga a caro prezzo il peccato di presunzione. A 58 righe dalla conclusione, infatti, Camilleri opera un perfetto ribaltamento della «grammatica» gialla, sospingendo critici e commentatori oltre la linea di un’immaginaria difesa letteraria, in un fuorigioco della lingua dove ci si ritrova con la bocca aperta e la penna a mezz’aria. L’insolubile mistero della fiamma agostana è proprio questo: per raccontare la dismisura del noir, bisogna confessare l’atto vendicativo che ripristina l’ordine infranto del giallo.

à rebours

L’abbiamo già detto: bisognava prestare attenzione.
Nel gioco riuscito della detection è obbligo ripercorrere il tragitto in senso inverso, per individuare il passaggio in cui la concentrazione è calata e un dettaglio risolutivo s’è mimetizzato nell’ambiguo tessuto dei segni. Nel caso de La vampa d’agosto, il procedimento genera un insopportabile senso di frustrazione, perché le tracce, profuse con inconsueta generosità, sono tutte lì, per quanto sepolte sotto un rigoglioso giardino di clichés. «È un bravo artigiano», era solito scrivere Jean-Patrick Manchette a proposito di qualche collega capace. Parole sante, ma se sotto il buon manufatto color canarino, si nasconde una Monna Lisa nera come il carbone, e se non t’accorgi del travestimento, allora c’è da incazzarsi sul serio.
Sarebbe stato opportuno, ad esempio, non fidarsi della logorata costante meteoropatica che fa della letteratura poliziesca una branca della climatologia. «D’altronde non era l’unico a Parigi, come nel resto della Francia, a essere irascibile: non si era mai visto un tempo tanto piovoso, freddo e tetro a marzo»… «Una foschia afosa avvolgeva Marsiglia»… «Questa primavera, per la prima volta, mi sono sentito stanco e vecchio. Forse, dipende dal tempo schifoso che abbiamo avuto a Los Angeles o dalle poche schifose indagini che sono riuscito a rimediare»…
Da sempre, la cosiddetta «paraletteratura» alimenta il riflesso romantico tra condizioni dell’atmosfera e stati dell’animo. L’immaginario della fantascienza distopica elesse la notte perenne a eloquente indicatore di perdizione e sfacelo. I reumatici effetti della pioggia — prove dell’inesorabile fluire del tempo —, la caligine — emblema della sudicia essenza del male —, il refolo inatteso, avviso d’un pericolo incombente, sono strumenti che non mancano mai nella cassetta dell’operaio-scrittore. La canicola non è da meno. Simbolo della fatica interpretativa, paradigmatico ostacolo posto sul percorso dell’intelletto, l’afa del «genere» è una figura di comprovata affidabilità. Questa volta, però, Montalbano la patisce più del dovuto, e in maniera bizzarra, come dimostrano gli improvvisi, ripetuti e infantili striptease che offre a un pubblico imbarazzato. Ma al fuoco della «fornace» è impossibile sottrarsi e anche l’agognato vento di mari avrebbe un «retrogusto amarognolo, come abbrusciato dalla vampa d’agosto», che tutto consuma e niente risparmia.
La calura, inoltre, allude al senso della vecchiaia incipiente e al dubbio sulla tenuta delle capacità psico-fisiche. Nella consuetudinaria certezza che l’intralcio, prima o poi, sarà superato, si prende per momentaneo ciò che invece è definitivo. Così, la connotazione stagionale, quindi per definizione effimera, camuffa l’inappellabile tracollo delle facoltà. E nonostante il poliziotto dichiari esplicitamente la propria inadeguatezza («i pensieri hanno perduto ogni brillantezza, sono diventati opachi e si muovono a rilento»), la confessione è rispedita al mittente, nel convincimento — indebito — che l’estate muterà in autunno, la fiamma cesserà di ardere, la legge pareggerà il delitto e la verità trionferà. Errore: la vampa divora le strutture del poliziesco e perde irrimediabilmente colui che ha provato a estinguerla.

Ma non è questo l’indizio più importante. Prima della sofferta ammissione, infatti, il commissario incappa in un paradossale malinteso che costituisce la vera chiave del rebus. Desideroso di punire il perverso gusto del dottor Tommaseo per i reati a sfondo sessuale, Montalbano decide di scaricargli il penoso onere dell’incontro con i famigliari della ragazza uccisa. L’esca, utilizzata per blandire i nauseanti appetiti del pubblico ministero, è una boutade circa l’esistenza di un’improbabile sorella gemella: ancora più avvenente e «di gran lunga più bella». Sorpresa. Stupore. Sgomento. La gemella esiste davvero, per l’incontenibile soddisfazione del magistrato maiale. Il segnale è vampeggiante. Nel rovesciamento umoristico, si palesa un concentrato di «assurdità immediata», che coglie — come inconsapevole preveggenza — il senso della realtà. Oppure è l’oscuro campo magnetico del desiderio a intuire, in un materializzarsi dell’oggetto della libido, l’effettivo svolgimento degli eventi? Chissà. Di una sola cosa si può essere certi, e cioè del fatto che, nell’inversione/inveramento, l’ingannatore (Montalbano) si ritrova vittima dell’ingannato (Tommaseo). Siamo pronti a scommettere: lo schema non si ripeterà. Errore: l’imbroglio, infatti, sguscia dal registro grottesco per duplicarsi in quello tragico. L’inizio del noir è a pagina 112, astutamente protetto dai teatrali equivoci della commedia del doppio.
Andrea Camilleri sfata, così, un altro luogo comune del polar italiano, esorcizzando quel canone che in passato ha colpevolmente contribuito a riproporre. Parliamo di una certa, “cordiale”, giustapposizione di comico e “criminale” che, se non è garantita dal cinismo di un George Higgins o dalla mestizia di un Cornell Woolrich, rischia di produrre disastri incalcolabili. Droga d’alleggerimento, strumento della connotazione burlesca, l’umorismo governa, oggi, un vasto processo di ristrutturazione dell’industria culturale. L’offensiva mediatica, che consacra l’attuale età del «genere», si regge proprio sulla riconversione dei suscitatori di comicità in soggetti del poliziesco. Dopo la fantascienza buffa di Nirvana, l’operazione si ripete con successo grazie al polar svagato e domestico. Le apparizioni di Diego Abatantuono e Claudio Bisio in prodotti cinematografico-televisivi dal colorito giallastro sono solo la punta dell’iceberg d’una «convergenza» compiutasi sulla tratta Milano-Roma. Ovviamente, con tappa obbligata per le lasagne alla bolognese. In questo caleidoscopico miscuglio d’elementi, l’auspicata «fusione» dei generi diventa rimescolio casuale nel calderone del trash romanesco, patetica scolastica tardo-pulp, imbarazzante re-interpretazione della “gloriosa” cultura di serie b, o — peggio — consacrazione della barzelletta comoda, della battuta stanca, della celia da cenone di Natale e del calembour spicciolo. Spacchiamoci, allora, in una sardanapalesca risata innanzi all’assonanza Coliandro-“coriandolo”. Tra qualche tempo, ci faremo la pipì addosso per la rima «cazzo»/«Milazzo», cantando a squarciagola Osteria numero… Eccolo, il «genere» che doveva narrare il cupo mistero dell’«altra metà» e del lato oscuro.
Che la forza sia con voi.

Nella concretizzazione della distorsione umoristica, Camilleri evoca il flusso surrealista che — dagli albori del «genere» — alimenta l’energia nera. La sorella esiste, e l’archetipo dell’identico che si raddoppia funziona perfettamente. Tuttavia, il raggiro è ancora casuale, privo d’astuzia, lontano dal piano d’una ragione diabolica e alimentato da un imprevisto irrazionale. Il teatro è senza dubbio quello latino, nella versione di una postuma commedia dei gemelli, in cui un membro della coppia è defunto e l’altro compare sull’onda d’una probabilità statisticamente remota. Lo ripetiamo: l’applicazione del paradigma non poteva andare oltre. Invece, sì. Ultimo, pacchiano, tristissimo errore quello d’aver ristretto la letteratura del doppio alla figura del Sosia. Dietro le spalle di Plauto, Robert Louis Stevenson ghigna implacabilmente.
Il trabocchetto orchestrato dal commissario è l’ultimo tassello della maligna trappola, che la bella e innocente Adriana Morreale ha ordito mediante l’assoluta doppiezza delle parole e dei gesti. Nel compimento del giallo, quando l’assassino Michele Spitaleri cade sotto i colpi d’una vendetta inesorabile, l’imbroglio produce il totale capovolgimento del «genere». Così, la legge del taglione prevale sugli imbalsamati feticci di tribunali e questure. Il bene e il male si avvinghiano nel mortale abbraccio del Nero. Lo sbirro diventa complice d’un omicidio premeditato. La pistola d’ordinanza si fa arma del delitto. La connivenza e la corruzione non sono scelte immorali, bensì sentenze irrevocabili. L’ultimo denudamento non è rimedio per la calura o tentativo di estinguere la pulsione che avvinghia il corpo, bensì sforzo — vano — di liberarsi dal tormento della «conoscenza»: «E allura il commissario, sintenno che la terra gli sprufunnava sutta ai piedi, capì». Neanche il mare, tra le cui onde Montalbano ha trovato di tutto (dal refrigerio ai cadaveri), può fornire risposte. Ormai, è solo acqua che si mischia ad altra acqua: «Natava e chiangiva», «natava e chiangiva».
Che razza d’Idiota.