Danilo Arona intervista Gianfranco Manfredi

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Cosa non ha fatto Gianfranco Manfredi in campo artistico? Sarà dura rispondere, ma l’attacco è tutt’altro che retorico perché il nostro scrive canzoni e canta, produce soggetti e sceneggia, lavora ad un fumetto cult di Bonelli (Magico Vento), ha recitato per il grande schermo e calcato palchi teatrali ed è giornalista professionista con un occhio di riguardo ai tanti aspetti della musica contemporanea.
Manca qualcosa? Sicuro, è un grande e coerente scrittore che dal 1978 a oggi ha prodotto otto titoli per Feltrinelli, Mondadori, Anabasi e Marco Tropea. In ossequio a quel tocco multiforme che caratterizza la sua vita e le sue “professioni”, ogni libro è una sfumatura diversa, un nuovo colpo d’occhio, magari una maschera intercambiabile che cela un volto inguardabile e sfuggente, e per questo affascinante.

Dal suo primo, vero libro di esordio nella narrativa, Magia rossa del 1983, all’ultimo uscito nel 2005 per Tropea, Nelle tenebre mi apparve Gesù, il fantastico e il surreale – colonne portanti del suo immaginario – si espandono, si flettono o si occultano camaleonticamente in un percorso carsico fra i generi di riferimento che, visto che il soggetto si chiama Gianfranco Manfredi, non ha quasi alcun senso “definire”. In epoche, gli anni Ottanta, in cui pareva blasfemo scrivere la parola “horror” in una quarta di copertina (e Stephen King veniva addittato come uno scrittore di romanzacci con il solo merito di avere trovato Stanley Kubrick sulla sua strada…), Magia rossa era stato timidamente battezzato come “romanzo parapsicologico” e Ultimi vampiri un’epopea storica rievocante la paranoia della peste vampirica.
Ma, al di là delle ritrosie dell’editoria che contava, gli elementi nella narrativa in progress di Gianfranco non si nascondevano affatto dietro il paravento dell’uso “nobile” dei generi popolari: Cromantica è un incubo gotico tra alchimia e quadri “da decifrare” che anticipa di vent’anni l’attuale ed esasperata moda dei “Codici”, Trainspotter del 1989 è un incubo noir pre-pulp che non dispiacerebbe a Tarantino e al quale va stretto il marchio del realismo in cui lo si vorrebbe confinare, Il peggio deve venire del ’92 annuncia in chiave fantastica l’incombente disastro delle nazioni dell’Est… E ancora altre virate, dal ’93 a oggi, nel grottesco e nel sociale, nella commedia nera e nell’avventura, con titoli quali La fuga del cavallo morto, Una fortuna d’annata, Il piccolo diavolo nero e Nelle tenebre mi apparve Gesù: ancora storie e contestualizzazioni tra loro diversissime, ma che sempre esprimono un inquieto “sguardo fantastico” sul mondo iper-reale dal quale siamo circondati e ci sentiamo soffocati.
Esaurita allora la funzione del critico – che per sua natura definisce, limitandolo, il mondo artistico dell’autore -, veniamo all’evento grazie al quale siamo qui oggi a intervistare questo amico di lungo corso che mi tiene periodicamente compagnia con le avventure “gotico-americane” di Magico Vento: la nuova uscita per i tipi della Gargoyle Books di Magia rossa, scoop editoriale per più di un motivo. In primis, perché la tendenza autoriale della casa editrice romana viene per la prima volta contraddetta in modo beneaugurante dall’ingresso di uno scrittore italiano. Poi, perché Magia rossa è anche un testo fortemente caratterizzato dal punto di vista politico. E ancora… Fermiamoci qui, e diamo finalmente voce a Gianfranco.

D. Ciao, Gianfranco. La prima domanda è sempre un po’ banale perché ha da rompere il ghiaccio, ma va formulata lo stesso… Spesso leggo che in tanti ti considerano il miglior scrittore horror del paese. Io non sono realmente convinto che tu scriva horror tout court e questo, secondo me, è la tua forza. Ma tu come la pensi al riguardo?

R. La prima volta che parlai di Magia Rossa a un editore (senza averlo ancora scritto) mi sconsigliò con queste precise parole : “dell’horror in Italia non frega niente a nessuno.” Si trattava, tanto per non far nomi, di Raffaele Crovi, che aveva appena preso le redini del gruppo Fabbri/Bompiani, casa editrice per la quale avevo tradotto Frankenstein liberato di Brian Aldiss (da cui poi Corman avrebbe tratto un film, girato pensa un po’ in Italia). Dieci anni dopo Crovi pubblicò con successo i romanzi di Tiziano Sclavi, autore di Dylan Dog. Aveva cambiato idea lui o era cambiata l’Italia? Non lo so. E’ vero che Magia rossa quando uscì (per la Feltrinelli) andò molto bene, anzi fece un certo scalpore. Ma non posso dire che il gotico dopo Magia rossa abbia fatto molti proseliti tra i giovani scrittori italiani. Quando poi proposi Ultimi vampiri alla Feltrinelli, lo accettarono, ma non ci credevano molto, infatti si fecero prendere in contropiede dal fatto che andò subito in classifica praticamente senza promozione. Quando cominciai la promozione il libro era già esaurito. La ristampa arrivò solo tre mesi dopo! Ancora oggi, se propongo un romanzo horror a un editore (che non sia un editore specializzato nel genere) mi vedo di fronte espressioni desolate e desolanti. Io poi, come hai giustamente rivelato, scrivo degli horror che sconfinano da rigide caratteristiche di genere. Del resto penso che l’horror debba per sua natura sconfinare: non è un genere, è un contro-genere, è contro tutti i generi e dunque persino contro se stesso. L’horror è la rivolta contro le regole, tutte. Non solo riguardo al contenuto, ma allo stile e alla struttura narrativa. Sia in letteratura che in cinema, l’horror deve rivoluzionarsi sempre. L’horror è l’inatteso. Deve spiazzare il lettore. Non può permettersi di essere prevedibile.

D. Magia rossa, nel 1983, esibiva inevitabili e tenaci collegamenti con la realtà politica di allora, dimostrando che il fantastico può diventare una bella lente d’ingrandimento sulle contraddizioni del sociale. Ha senso riproporlo nel 2006?

R. Sì, perché non credo affatto che il romanzo fosse piaciuto per i suoi risvolti politici, ma perché è un romanzo molto intenso. Leggendo non si ha la minima idea di dove possa andare a parare e fa proprio paura.

D. Hai apportato modifiche al testo?

R. No, per carità. Non torno mai sulle cose fatte. Una cosa pubblicata non è più del suo autore, è dei lettori.

D. Milano… Milano è protagonista incorporea del libro. Ma la Milano degli anni Ottanta e la morattiana metropoli del 2006 condividono ancora la dignità del contenitore ideale per le “imprese” di Reiner?

R. Sono tornato sullo stesso periodo raccontato da Magia rossa (il 1898) nel recente Il piccolo diavolo nero, da un’altra angolazione, storico-documentaria, cioè del tutto non fantastica. La Milano attuale mi interessa molto poco, sono andato a vivere in montagna. Torno sulla Milano che non c’è più, perché in sostanza penso che Milano non ci sia più. E’ una città non solo sfinita, ma finita. E la sinistra, pure molto influente in città, non se la vuole prendere, perché gestire un cadavere vivente fa paura. Da questo punto di vista il macello finale di Magia rossa era profetico: annunziava l’avvento non tanto di una città di zombi, ma di una città-zombi che è cosa anche più inanimata.

D. Ti seguo come soggettista e sceneggiatore di Magico Vento, a parere mio una delle creature più indovinate di casa Bonelli, dove esprimi una vena gotica quasi più “americana” di certi scrittori yankees… Fermo restando che stiamo parlando di “passioni”, forse anche generazionali, che ci troviamo fissate nel DNA (Lovecraft, Poe, i miti indiani, lo sciamesimo di frontiera…), ritieni che uno scrittore italiano alle prese con il fantastico (e con l’horror) debba sempre ritenersi dipendente culturalmente dal New England? Oppure affrancarsene?

R. Non so, io parlo per me. Vengo da una famiglia protestante e dunque per me il puritanesimo è stata un’eredità culturale importante. Chi ignora il puritanesimo (nella sua rigidità morale, ma anche nei suoi caratteri sovversivi) è molto difficile che possa scrivere degli horror-gotici. Ultimamente sono un poco tornato alle radici e sto facendo delle ricerche sul New England. Più studio e più mi ritrovo elettrizzato. Ecco… l’ho detto e già sento una vocina stridula: “Di queste cose in Italia non frega niente a nessuno.”

D. Esiste, secondo te, in letteratura una via italiana all’horror?

R: Una via italiana esiste solo nella cucina, per il resto non esiste più nemmeno per la moda, figuriamoci per la scrittura. Del resto va ricordato che l’horror moderno nasce da Poe e che per lui era una reazione al tentativo di Fenimore Cooper e altri, di una “via americana” al romanzo. Poe sosteneva che il romanzo moderno non aveva più nazionalità e che tantomeno poteva permettersela l’America, nata come somma di identità disparate. Oggi con la globalizzazione scatenata, pensare in termini nazionali è una cosa davvero insensata.

D. L’ultima: la tua ultima produzione letteraria, quella per capirci uscita per Tropea, e che prende in qualche modo le distanze dal periodo Feltrinelli, quello fantastico e noir… E’ il tuo futuro? E’ una fase che rappresenta lo scrittore di oggi? E non presagisci il rischio che, dato lo straripante successo che avrà il nuovo Magia rossa, il pubblico dell’horror ti rivoglia “tutto per sé”… magari con qualche nuovo titolo?

R. Seguo un percorso piuttosto libero, o forse dovrei dire condizionatissimo, ma dall’inconscio. Cioè scrivo quello che mi sento di scrivere in quel certo momento. E in questo momento l’horror è tornato a stimolarmi, anche al cinema. Dunque sì, ho in mente una storia horror, con al centro un personaggio femminile. E’ una storia che affonda nella cronaca del XVIII secolo. Terribilmente inquietante. Se non l’ho ancora cominciata è perché ne sono io stesso spaventato. So però che voglio scriverla sul posto , cioè nel Rhode Island, e ho già preso qualche contatto.

Grazie a Gianfranco Manfredi per la sua benevolente pazienza. E, fra tutti, facciamo in modo che l’horror italiano entri in classifica… Sarebbe un discreto scossone contro certi pregiudizi degli anni Settanta che ancora oggi fanno tendenza.