di Michele Petrino
Damon Knight, Il pianeta dei superstiti, Urania Collezione n. 38, Mondadori, 2006, pp.198, € 4,90 [per richiederlo, contattta questo indirizzo]
[Questa recensione appare purtroppo in ritardo rispetto all’uscita in edicola di uno dei migliori romanzi di fantascienza di tutti i tempi: malinconica, crudele, cupissima riflessione sulla vacuità di tutte le varianti del nazionalismo, in cui anche i personaggi negativi hanno una loro fosca grandezza e quelli positivi dubbi sulle loro azioni. Raccomando ai lettori di Carmilla di cercare di procurarsi un romanzo che difficilmente potranno dimenticare.] (V.E.)
Spesso i migliori libri di fantascienza partono da un’intuizione, da un’idea.
Certo, questa poi va sapientemente sviluppata e organizzata e ampliata, ma per fare questo, com’è intuibile, occorrono grandi scrittori.
E Damon Knight (1922-2002) grande scrittore lo era sicuramente. La sua intuizione fu quella di descrivere la più intima essenza della razza umana usando la lente deformante della Sf e raccontando di un futuro in cui la terra, resa inservibile da anni di guerre e sfruttamento, non è più in grado di ospitare l’uomo. Costretto in tal modo a esiliarsi in una diaspora appena tollerata dagli abitanti dei pianeti in cui i nostri simili vanno a chiedere asilo, e il permesso di creare delle colonie.
Il protagonista del romanzo è Laszlo Cudyk, un piccolo commerciante di oggetti rari e preziosi, con un passato di scrittore, che va avanti “per inerzia e un residuo di curiosità”.
Cudyk vive nel quartiere umano del pianeta abitato dai Niori, esseri alti e nobili, puri e privi di violenza. Il quartiere vive il suo purgatorio, cercando di riempire il vuoto di una terra assente, diventata anch’essa solo un simbolo di morte. La vita si svolge lenta ed ordinata fino all’arrivo del rappresentante di quella fazione di umani che vorrebbero tornare sulla Terra, ricostruendola grazie all’aiuto delle altre specie della galassia. A esso si contrappone Rack, capo della fazione avversa che vuole invece per gli uomini un destino di dominatori dell’universo, da conquistare schiacciando tutti gli “insetti”, ovvero le altre specie della galassia. Rack assassina il rappresentante della fazione nemica e, alla guida dei suoi uomini, dà vita al piano di distruzione degli altri pianeti, che avrà esiti tragici e inevitabili ripercussioni sulla vita della colonia terrestre di Cudyk.
Knight ci presenta una civiltà umana che implode di fronte alla scoperta dell’universo, che vacilla in seguito alla perdita della sua posizione di centralità. Ed è proprio a una non più credibile visione antropocentrica e imperialista che resta attaccato Rack con il suo folle piano, simbolo di tutti i guerrafondai passati presenti e futuri che hanno costellato la storia dell’uomo, propugnando violenza e sopraffazione spacciata per senso di appartenenza.
Knight ci pone di fronte a tutti i nostri limiti: l’uomo che finalmente può confrontarsi con le stelle ne esce rimpicciolito, inferiore nei confronti di una galassia di cui a lungo ha fantasticato senza comprenderla. Forse solo un uomo nuovo, senza conoscenze di arti militari e di astronomia potrebbe vivere una vita degna di essere vissuta in questo universo sconfinato, ma è un’idea vana: non si può mettere un freno alla mente umana, alla sua affascinante capacità di evolversi. D’altronde è questa la maledizione dell’uomo, il suo essere insieme, oltre che sanguinario e guerriero, anche fragile e capace di sentimento, come la donna che impazzisce perché innamorata non corrisposta di un Niori che non riesce neanche a penetrare il significato della parola “amore”. Una razza tragica dunque, la cui tragedia sta proprio nel fatto “che non siamo del tutto tragici, bensì un guazzabuglio pieno di contraddizioni: angeli con le orecchie d’asino”.
E’ questo relativismo il motore della sofferenza universale. Se tutta la galassia fosse stata popolata da specie guerriere, ci sarebbe stata almeno una pace armata, un controllo minaccioso sulla nostra specie. Prospettiva allettante solo perchè non sarebbe stata peggio del mondo a cui gli uomini erano già abituati, e soprattutto non avremmo dovuto portare noi tutta la colpa. Una colpa che provoca vergogna e che ci impedisce, proprio quando le avevamo conquistate, di poter guardare verso le stelle.
“Quando ogni azione portava alla catastrofe, coloro che non facevano nulla erano colpevoli quanto quelli che agivano. “
Cudyk è il simbolo della passività dell’uomo sconfitto dalla sua stessa natura, e anche se in lui adesso vi è consapevolezza, è solo uno sterile mutante della razza umana (“dentro di noi portiamo semi di un mondo migliore, ma essi moriranno con noi”). Agisce solo una volta: quando Rack sta per scappare nuovamente, sente l’impulso di fermarlo. Ma è giusto il suo gesto? E’ impossibile saperlo e forse neanche importante, perché l’umanità è comunque spacciata, capace di muoversi solo in branco, lasciando all’individuo isolato il compito di osservare e registrare malinconicamente gli errori e le violenze della collettività.