di Sbancor

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Se l’Europa fosse qualcosa di più di una “espressione geografica,” vincolata a una serie di parametri e regolamenti idioti, e ad alleanze quantomeno discutibili, il suo compito sarebbe stato quello di intervenire immediatamente, assicurando, ad esempio, l’inviolabilità dello spazio aereo libanese. Evitando così la distruzione del Libano, la migrazione biblica degli sfollati, oltre a un migliaio di morti. Una posizione forte, certo, ma almeno chiara.
Ma Israele, come la Turchia dal 2004 è praticamente un paese NATO (vedi qui).
Difficile pensare quindi un esito diverso da quello della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU, che di fatto ha concesso a Israele un mese di tempo per protrarre i bombardamenti indiscriminati sul Libano.

La risoluzione dell’ONU 1701 è un capolavoro di ambiguità come ha ben evidenziato Paolo Chiocchetti su Carmilla.
Praticamente l’80% dei compiti spetta all’Esercito libanese, male armato, debole e, come sanno benissimo gli israeliani, formato ormai al 75% da Sciiti. Solo gli ufficiali sono cristiani o sunniti, ma molti parteggiano per il Generale Aoun, attualmente alleato a Hezbollah. Insomma una barzelletta.
Dall’altra parte l’intera risoluzione è filo-israeliana: non parla dei blocchi navali e dei consueti sorvoli del Libano da parte dell’aviazione di Tshal, che durano da almeno vent’anni. Di buono nella 1701 c’è solo il “cessate il fuoco”.
A una prima valutazione, dunque, gli obiettivi strategici degli USA e degli Israeliani sono falliti sul piano militare, ma forse hanno recuperato qualcosa su quello diplomatico. La domanda è: dove si riaccenderà il “terzo fronte”? Di nuovo in Libano, o a Bassora oppure direttamente in Iran con una campagna di bombardamenti?

Una notizia passata inosservata, a volte, è la chiave di interpretazione dei nuovi assetti geopolitici.
In Aprile l’Agenzia Russa Itar-Tass riportava le dichiarazioni di Manuchehr Mohammadi, ministro degli esteri iraniano che dichiarava la richiesta dell’Iran di far parte del Gruppo di Shanghai, (Shanghai Cooperation Organization — SCO).
Cos’è lo SCO? Nato nel 1997 fra Russia, Cina, Kazakistan, Kyrgyzstan e Tajikistan – i cosiddetti cinque di Shanghai — a cui si aggiunse l’Uzbekistan, lo SCO si proponeva inizialmente di risolvere i problemi relativi alla frontiera russo-cinese. Ben presto però i suoi scopi si sono allargati: nel 2001 fra le sue finalità fu inserita la “lotta al terrorismo in Centro-Asia, dove vi erano state infiltrazioni qa’ediste (wahabbite), particolarmente rischiose vista l’esistenza sia negli Stati dell’ex URSS che in Cina di ampie comunità mussulmane, addirittura maggioritarie nelle ex repubbliche sovietiche del centro Asia. Comunque all’inizio i suoi obiettivi sembravano modesti.
Oggi non è più così. All’iniziale funzione di anti-terrorismo, si sono aggiunte funzioni di cooperazione militare, economica e culturale. Esso rappresenta un’area di oltre 30 milioni di kmq e una popolazione di un miliardo 455 milion idi persone. Non solo nel 2005 il Gruppo di Shanghai è stato aperto ad altri Stati come “osservatori”: Mongolia, Pakistan, India e Iran.
Di fatto all’offensiva americana in “Eurasia” — il vecchio sogno di Brezinsky — che doveva puntare sulle repubbliche sovietiche del Centro-Asia si è contrapposta un’alleanza Russo-Cinese che in pochi anni si è consolidata enormemente.
Per comprendere la sua influenza basta pensare che dispone di due membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Il Gruppo di Shanghai vuole entrare nella gestione della “crisi nucleare iraniana” e non ha nessuna intenzione di lasciare all’America e a Israele il monopolio della politica estera mondiale. Si è creata una nuova “faglia” che rischia di riallontanare Oriente ed Occidente. L’Iran è esattamente sul confine della faglia.
E d’altra parte l’atteggiamento Russo-Cinese nelle recenti crisi mediorientali, e soprattutto verso l’Iran sembra non solo coordinato, ma volto a trovare soluzioni antitetiche a quelle americane. I Russi hanno proposto a più riprese di svolgere loro per conto dell’Iran i processi di arricchimento dell’uranio. Inoltre chiunque abbia un minimo di conoscenza in campo militare sa che quella dell’atomica iraniana è una minaccia estremamente relativa.
Vediamo perché. Il numero delle atomiche israeliane non è evidentemente pubblico. Ma ci sono delle stime: l’Intelligence americano le valutava a fine anni ’90 fra 75 e 130. Le foto realizzate da Mordechai Vanunu, che pagò con lunghi anni di carcere la divulgazione dell’informazione, facevano ritenere che vi fosse un potenziale fra le 100 e le 200 bombe. Le stime più alte arrivano a 400. Comunque stiamo parlando di una potenza nucleare in grado di polverizzare tutte le capitali del mondo arabo. I vettori di trasporto, oltre agli aerei, sono circa 300 missili Jericho 1 e Jericho 2 , il primo con una gittata di 500 km e il secondo da 1.500 a 4.000 km, a cui si aggiungono 12 missili Popeye Turbo con gittata da 200 km per sottomarini di classe Dolphin di fabbricazione tedesca.
A questo potenziale l’Iran può opporre pochi esemplari, forse prototipi, di Shabab 3 con una gittata di 1.900 km. In grado comunque di colpire Israele. E’ vero che l’Iran sta potenziando il suo programma missilistico, ma è anche vero che l’atomica iraniana non potrà essere pronta, secondo le stime AIEA, che fra cinque-dieci anni. E’ opinione comune infine che, dopo lo smembramento dell’URSS, il “Trattato di non proliferazione nucleare” abbia perso di senso. Israele, India e Pakistan non vi aderiscono, la Corea del Nord si è ritirata dai sottoscrittori e la possibilità che anche piccoli stati si dotino di armi nucleari, è estremamente alta, purtroppo.

Da un punto di vista militare l’intera questione è priva di senso. La forza del mondo arabo-mussulmano nei confronti di Israele è costituita dall’enorme differenza demografica fra ebrei e mussulmani. E anche questa è relativa, considerando le divisioni etnico-religiose all’interno del mondo arabo-mussulmano. Sul piano tecnologico la forza è tutta dalla parte di Israele. L’atomica iraniana, se mai verrà costruita, avrà una logica di “deterrenza”, come fra USA e URSS ai tempi della guerra fredda. Gli ambienti militari israeliani temono proprio questo: essere costretti a sedersi al tavolo delle trattative. E seguono gli americani nella guerra preventiva.

Ma allora come mai la crisi iraniana scoppia proprio adesso?

Alcuni motivi “geopolitici” appaiono già da quanto detto. Riassumendo: la politica americana per un “Nuovo Medioriente” non può permettere che fra i suoi due avamposti, l’Afghanistan e l’Iraq, esista uno “stato canaglia”, un “asse del male” il quale potenzialmente ha già in mano il controllo del governo iracheno e può giocare in Afghanistan la carta della minoranza azera e dell’”esecrabile banda di Golbodin Hekmatyar (Hezb-i-Islami) che ridusse in macerie Kabul con l’indiscriminato bombardamento e il lancio dei missili quotidiani.”. Così la chiamavano le donne del RAWA, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane (vedi qui). Oggi Hekmatyar è gentile ospite dell’Iran.
Il Governo Americano non può soprattutto permettere che il quarto produttore mondiale di petrolio e il secondo di gas entri nel “Gruppo di Shanghai”, dove c’è la Russia, secondo produttore di greggio, e primo per il gas. La geopolitica delle fonti energetiche verrebbe rivoluzionata definitivamente.

Ma, a differenza di diversi critici della politica americana, da Chossudosky a Chomsky, solo per citare alcuni punti di riferimento, io non credo che ci troviamo nella situazione di un “imperialismo classico”, cioè del tentativo di impossessarsi di risorse strategiche attraverso la guerra. Insomma: una guerra per il petrolio. Un piccolo esempio: Gli USA prima della guerra del 2003, in pieno embargo, importavano dall’Iraq in media più di 800 milioni di barili giorno, con il sistema “Oil for Food”. Oggi dopo l’occupazione ne importano 522. Nonostante gli attacchi della “resistenza” ad alcune centrali di pompaggio — peraltro limitati – il calo dimostra che il petrolio iracheno non era un obiettivo immediato degli USA. Diverso il discorso sulle riserve, ma quelle verranno amministrate probabilmente da un governo Sciita filo-iraniano, o da un improbabile Stato Kurdo.
No, il petrolio è una variabile del “Grande Gioco” Mediorientale, influenza sicuramente i conti della Exxon e di Halliburton, grandi elettori di Bush, ma non basta da solo a spiegare la destabilizzazione dell’intero Medioriente. Fra l’altro una “Guerra per il petrolio”, condotta secondo i canoni classici dell’imperialismo, avrebbe dovuto avere come obiettivo un ribasso del prezzo del greggio: l’esatto inverso di quanto si sta verificando.

Storicamente gli americani, fin dalla prima crisi petrolifera, sono stati avvantaggiati dagli alti prezzi del petrolio. Un petrolio più caro vuol dire creare una massa di liquidità in dollari (petrodollari) che non incide sull’inflazione americana, ma che viene “riciclata” in parte sui mercati finanziari, principalmente americani, e in parte in progetti di sviluppo nei paesi produttori, (realizzati in gran parte da società americane) ovviamente purché siano “amici”, come l’Arabia Saudita e gli Emirati. Il flusso di capitali così generato viene utilizzato per pareggiare il “deficit della bilancia commerciale americana” attraverso investimenti diretti e di portafoglio. Il risultato è che i cittadini USA possono continuare a vivere al di sopra delle proprie possibilità: una generazione di Oscar Wilde, anche se meno autoironici.

La guerra come forma di regolazione dell’economia in un periodo di crisi.

L’economia americana, come è noto agli esperti – anche se non ai giornalisti economici – è in crisi dal marzo 2000, quando tutti i principali indicatori, a partire dalla produzione industriale, iniziarono a puntare verso il basso, fino allo sgonfiamento prima della “bolla della new economy” e poi dell’intera borsa americana. E’ forse non del tutto inutile ricordare alcune di quelle cifre: nel secondo trimestre del 2000 l’economia americana passò da un tasso di crescita del 5%, allo 0% della fine del 2000, andando in recessione per due trimestri nel 2001. Nonostante gli sforzi della FED, che iniziò una serie vertiginosa di ribassi dei tassi di interesse, fino a portarli a valori negativi, sotto cioè il tasso d’inflazione, la Borsa registrò il peggior crollo dai tempi di Wall Street: l’indice Standard & Poors 500 perse fra il 1999 e il 2002 589,5 punti, pari al 67% del suo valore.

La tragedia del 9/11 avvenne proprio nel mezzo della crisi. Guardando l’indice Dow Jones si nota una pesante caduta di circa 400 punti i giorni 5 e 6 settembre dopo la rottura di quota 10.000, avvenuta a fine agosto. Il 7 ed il 9 la Borsa è chiusa per il week-end. Il 10 rimane piatta, come in attesa. L’11 gli aerei si schiantano sulle Torri e Wall Street chiude per circa una settimana. Seguono altri crolli del listino fino a portare il Down Jones poco sopra quota 8.000. Poi lentamente la ripresa.

Nel frattempo era scoppiata la “Guerra al Terrorismo” che, dal punto di vista economico, volle dire un aumento impressionante del deficit pubblico. La recessione fu scongiurata, la crisi finanziaria anche e l’America ricominciò a crescere a tassi del 3,5% annuo. Molto più dell’Europa.
Tutto ciò però ha avuto un costo in termini di deficit commerciali e pubblici. Nel periodo di Clinton l’America aveva accumulato un grande deficit commerciale, ma aveva un forte “surplus” nel Bilancio Federale, pari al 2% del PIL. Nell’era del primo mandato Bush si è arrivati a un deficit fiscale superiore al 4% del PIL. Ciò vuol dire che in meno di quattro anni una cifra pari al 6% del PIL americano è stato trasferito dallo Stato all’economia. Si tratta di una cifra enorme. A cui si assomma un deficit commerciale superiore al 5% del P.I.L.
“Gli Stati Uniti — dice Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’Economia, ex consigliere di Clinton e professore alla Columbia University) — stanno ampiamente contraendo prestiti, al ritmo di due miliardi di dollari al giorno, per pagare l’ampio deficit commerciale. Il più ricco paese del mondo vive al di sopra dei propri mezzi. Comunque, anche la più potente nazione del mondo non può sfuggire alla semplice aritmetica del debito: i soldi servono per pagare gli interessi e, eventualmente, ripagare i prestiti. Facendo così gli USA saranno più poveri.”
Negli ultimi giorni diversi economisti americani, non particolarmente anticonformisti, come Nouriel Rubini sul suo blog, e Paul Krugman, sul New York Times, hanno messo in guardia su una possibile prossima recessione dell’economia americana fra la fine del 2006 e il 2007. Questa volta sarà la “bolla immobiliare” a innescare la crisi che potrebbe estendersi al dollaro e ai mercati finanziari. Oltre a mettere letteralmente sul “marciapiede” migliaia di famiglie americane che hanno usato la crescita del prezzo delle case per “rifinanziare” i propri mutui a tassi ora sempre più alti.
A novembre ci sono le elezioni americane per il Congresso. La “Junta” Militare che governa attualmente gli Stati Uniti deve vincerle, se non vuol rimanere ingessata fino al 2008, data delle prossime presidenziali. Aspettiamoci il peggio.

Il Dio e il bambino

Come dire: il rischio che “Il Terzo Fronte” si riapra prima dell’autunno è concreto. E se il quadro geopolitico che ho provato a delineare ha una pur scarsa possibilità di essere vero, Il Terzo Fronte” non sarà uno scherzo: per la prima volta rischieranno di confrontarsi l’ormai consolidata egemonia americana e la nascente potenza euroasiatica. Nessuna delle due, né il “fondamentalismo liberista” yankee, né il “nazionalismo totalitario Russo-Cinese”, sembra poter incarnare un futuro possibile per l’umanità. Se un “altro mondo è possibile”, andrebbe cercato in fretta. Prima che, come scriveva Ezra Pound “Ognuno segua il suo Dio”. Ed Ezra Pound, benché geniale, non era propriamente uno scrittore “di sinistra”.

Per quanto mi riguarda il mio, di Dio è stato bombardato a Balbek. Un cacciabombardiere israeliano ha centrato, insieme a un bambino di dieci anni, anche una parte del Tempio di Bacco-Dioniso. Ma il mio, di Dio, c’è abituato. Da sempre muore ogni anno, e ogni anno rinasce, così come spero accada al bambino. Che forse altri non era che una epifania del Dio.