di Alessandra Daniele
Robert Silverberg è un perfetto esempio di come nella fantascienza la creatività più immaginosa e visionaria possa dimostrarsi lo strumento migliore per raccontare la realtà.
Come molti altri grandi, Silverberg emerge negli anni 50 dal variegato maelstrom delle fanzine, scrittore già energico, ma non ancora raffinato. Dopo un periodo di crisi, coincidente con quello dell’sf stessa, al manifestarsi dei fermenti di quella rinascita che fu la New.Wave anche Silverberg rinasce come romanziere compiuto, pronto a dimostrare e realizzare l’intrinseca verità dell’apparente paradosso prima citato.
Nell’affrontare infatti tematiche sempre più complesse, profonde e controverse, la fluviale inventiva di Silverberg non si stempera, ma al contrario s’arricchisce e si espande, dimostrando appunto come il potenziale allegorico insieme visionario e cognitivo dell’sf possa rivelarsi la più completa e illuminante trasposizione della realtà. Abilmente sincretico, Silverberg è capace d’associare il gusto per la suspense, l’invenzione, e il sense of wonder attinto dalla Golden Age, alla sperimentazione stilistica e contenutistica propria della New Wave. Conflitti razziali, colonialismo, disastri ecologici, sesso estremo, alterazioni psicotiche, deliri dittatoriali, la sua sf pianta il bisturi nel cuore della realtà, e la costringe a riconoscersi nel suo specchio apparentemente deformante quanto invece rivelatore. Le società ”aliene”, distopiche, o falsamente utopiche costruite da Silverberg con immaginosa quanto dettagliata precisione sono infatti un provocatorio disvelamento dell’autentico volto della nostra, come le angosce dei suoi androidi organici, e dei suoi mutanti post-umani rispecchiano fedelmente le nostre.
Silvrberg ama spesso proiettare il suo lettore oltre i confini dell’immaginabile, affinché quel viaggio apparentemente proteso al di là dei millenni e delle galassie lo riporti in realtà all’interno di se stesso. Come accade ai protagonisti de Il figlio dell’uomo (“Son of man”, 1971), romanzo, e Breckenbridge e il continuum (“Breckenbridge and the Coninuum”, 1973), racconto, nei quali le più ricche e sorprendenti gallerie di variazioni sul tema delle future evoluzioni delle forme di vita terrestri suggeriscono interrogativi profondi sul vero significato dell’umanità, sia intesa come peculiare qualità dell’individuo, che come entità collettiva.
Silverberg è però altrettanto capace di scavare nell’intimo di una singola psicologia complessa, e trovarci l’abisso. Come in Morire dentro (“Dying inside”1972), romanzo che capovolge l’archetipo della salvifica acquisizione di poteri telepatici in quello della loro progressiva perdita, per raccontare il dolore d’una condizione umana in via di alienazione. O ne L’uomo stocastico (“The stochastic man”, 1975) in cui due diversi ”metodi ” per predire il futuro entrambi classici dell’sf, lo scientifico e il paranormale, si confrontano, si scontrano, e s’incrociano nella società, come all’interno della stessa psiche, per inchiodarle a un’inquietante ipotesi cosmologica finale.
Lo stile letterario di Silverberg è multiforme, arricchito ma non appesantito da un eclettico bagaglio culturale, e altrettanto è il suo impegno nel campo della letteratura fantastica. Antologista e curatore instancabile, ma soprattutto scrittore estremamente prolifico, seppure discontinuo, di racconti, romanzi, e saghe. Romanzi-labirinto, a volte beffardamente barocchi come Shadrack nella fornace (“Shadrack in the Furnace”, 1976,) visionario e caustico apologo sul potere e sulla sua vampiresca sete di immortalità. Già in parte esaminata, da un punto di vista opposto e non meno spiazzante, in Vertice di iimmortali (“To live again”, 1969) acuta metafora che esplicita quanto l’anima del commercio sia il commercio dell’anima.
Saghe planetarie, capaci di creare un universo parallelo intrecciando abilmente riferimenti simbolici a puro divertissement, come la pluriennale science-fantasy di Majipoor. Racconti-scheggia affilati come quelle dal.cui abile mosaico nasce l’efficace ottica multipla del romanzo Monade 116 (“The world inside”, 1971) con la sua schiera di personaggi emblematici e insieme autentici. Prigionieri più o meno consapevoli d’una ”utopia” molto più che ambigua che nasconde, sotto la maschera sorridente d’un edonismo bulimico e conformista, un implacabile totalitarismo psichico ciecamente lanciato verso la catastrofe. Ancora una volta, è impossibile non riconoscere nella loro brulicante, agorafobica società dei grattacieli-alveare, lo specchio oscuro e al tempo stesso chiarificante della nostra. Come è impossibile non riconoscere nel miglior Silverberg la migliore sf nella sua forma più matura, e più potente.