di Marilù Oliva
Caterina Falconi, Sotto falsa identità, Galaad Edizioni, Teramo 2014, pp.152, € 12,00
Sotto falsa identità è l’ultimo romanzo di Caterina Falconi, sulle prigionie e l’emancipazione. L’abiezione e il riscatto. E’ l’intreccio delle storie di quattro donne, ciascuna incarcerata a modo suo. E tutte in attesa che qualcosa irrompa nella loro esistenza e apra un varco al cambiamento. La protagonista Reiko, medico di base, meticcia, mutilata dalla perdita di un antico fidanzato, intrappolata in una dipendenza amorosa mortificante, si intrufola nel profilo facebook dell’amante sposato sotto falsa identità. Il fake creato avrà il volto e le caratteristiche del fidanzato misteriosamente scomparso anni prima. L’obiettivo è sedurre la rivale Luisa, penetrare nell’intimità virtuale dei coniugi, altrimenti inaccessibile. Il gioco sortisce l’effetto di smascherare i partecipanti e ribaltare i ruoli, con conseguenze perniciose sull’equilibrio mentale della sua ideatrice, già duramente provata dal lutto. Più resistente si dimostra la bella Luisa, rivale di Reiko e moglie di Marco, a sua volta ingabbiata in un conformismo anonimo e in una garrula superficialità. Ma la prigionia peggiore, tra i personaggi femminili che si alternano in questa sorta di lungo racconto a tre voci, è forse quella di Marilena, un’anziana segnata da un passato di violenze domestiche che, da un giorno all’altro, viene prelevata con l’inganno dal ricovero che la ospita e costretta a riunirsi al vecchio marito, ormai malato di alzheimer. Artefice del sequestro è la figlia Elisabetta, che crede di vendicarsi così del disamore patito da bambina.
E se la vicenda di Reiko diviene presto una picchiata nell’abiezione, quella di Marilena, ostaggio di una malata di mente messa in condizione di nuocere dall’indifferenza del paese, ha un’escalation spaventosa, da cronaca nera. All’anziana vengono tolte le chiavi di casa, scucite le tasche. Il telefono fisso è rimosso. Marilena è obbligata a dormire in un letto con le sponde (da cui non riesce neppure a scendere senza aiuto) assieme all’uomo violento da cui si era separata tanti anni prima. E’ drogata, perquisita, umiliata.
Eppure, quando tutto sembra perduto, l’affetto sincero e la tutela di un amico innescano in Reiko la forza di reagire. A riprova, forse, che sapersi amati è una consapevolezza salvifica. E se la scoperta della verità sulla scomparsa del primo fidanzato restituirà a Reiko la percezione della propria interezza e dignità, l’anziana Marilena si salverà sa sola, con un audace colpo di mano. A dimostrazione che è sempre possibile, anche se è difficile in un’età fragile come la vecchiaia, rialzare la testa e impugnare di nuovo le redini del proprio destino.
La reclusione di Marilena
La chiave macina due giri nella toppa ed Elisabetta rincasa. Immusonita, corpulenta, sbatte il portone, appende la borsetta allaCater cappelliera, lancia uno sguardo allo specchio dell’ingresso e strofina le labbra sbafate di rossetto mattone. Stira la bocca in un meccanico sorriso all’ingiù, e distoglie dal proprio riflesso gli occhi delusi. È contrariata per le mancanze di riguardo immaginarie e reali di cui è stata oggetto. La gente ce l’ha con lei per colpa di quella puttana cinese che l’ha diffamata. E adesso tutti nel paese credono che maltratti i genitori.
«Come stai mammà?» si interrompe salutando Marilena in dialetto. Come una frana sotterranea sospetti e malumore precipitano dentro di lei. Con le dita rosicchiate sbottona il cardigan, lo sfila con una certa fatica dai cotechini delle braccia. La casa la investe col suo rassicurante afrore, la penombra, i tonfi delle gatte che zompano giù dalla credenza e le trotterellano incontro.
«Papà coma sta?»
«Tuo padre riposa, e io sto un po’ annebbiata» risponde conciliante Marilena. Elisabetta farfuglia qualcosa, porta le mani corte al capo e rabbercia una coda bassa che ferma con un elastico che ha adocchiato sulla mensolina.
Marilena la studia con gli occhietti fintamente svagati. Ha capito che se l’asseconda e la consiglia la disinnesca. Che Elisabetta non aspetta altro che affidarsi, con un po’ di reticenza, alla tutela di altri. E la intenerisce per questo, anche se subito dopo si ricorda di quali terribili atti di sopraffazione sia stata capace.
Elisabetta slaccia le scarpe e infila i grossi piedi in due pianelle unte. Ciabatta verso la cucina, intralciata da Umana e Negra che le
si strofinano freneticamente contro i polpacci. Va al lavello, prende un bicchiere dallo scolapiatti, fa scorrere l’acqua prima di riempirlo e bere rumorosamente. Marilena la osserva, oggi la figlia indossa una maglietta di voile nero incrostata di paillette sul davanti, e pantaloni di taglio classico blu. I capelli, serrati dalla coda mozza, si ergono fallici e grotteschi sulla nuca. Marilena si chiede perché, sempre più spesso ultimamente, Elisabetta indossi capi sexy. Se sia innamorata di qualcuno. Se abbia ai avuto rapporti. Domande che sprofondano nella sua stanchezza.
Le gatte saltano sul lavandino, costellano il ripiano di impronte biancastre. Marilena reprime un conato di vomito. Dalla pattumiera sale un tanfo di cavolo avariato.
«Ho fatto i piatti» prosegue monocorde. Da un mese si finge collaborativa, comprensiva, amorevole, interessata alla sorte dei gatti, e rafforza l’ascendente che si è accorta di esercitare in questa nuova veste sulla figlia. Elisabetta si gira, la guarda, ed emette: «Dobbiamo buttare la spazzatura».
Marilena annuisce. La sporcizia che appiccica attorno a loro è tale che svuotare la pattumiera non risolverebbe quasi niente.
«Soprattutto dovresti ricomprare i croccantini al pollo» butta là, mentre lo sguardo di Elisabetta si confonde e ha una nuova schiarita.
«Adesso metto a bollire gli spezzoni di pasta. E per stasera ci mischiamo gli avanzi delle scatole» incalza, avvincendo la figlia in un ipnotico flusso di cazzate. Elisabetta annuisce raddolcita.
Più tardi, mentre senza vederla fissa la televisione da una sedia a dondolo, e al marito in carrozzina parcheggiato accanto al divano crolla la testa sul petto, Marilena ascolta i passi di Elisabetta che scende nel vicolo con il pastone. Il chiacchiericcio dei turisti che passeggiano sotto casa, le esclamazioni, il rumore delle macchine che sfilano ininterrottamente nella strada entrano dalla finestra aperta. Le viene in mente di affacciarsi e di chiedere aiuto, ma poi si dice: “Quella risale e chiude le finestre e poi me la fa pagare. Oddio! Ma perché una macchina non la mette sotto? E se invece mi butto io? E se non muoio dopo? E mi paralizzo? E mi ridanno a lei?” L’eventualità di ripiombare nella doppia prigionia di un corpo rotto e di una folle le fa scuotere la testa in un convulso rifiuto. Deve resistere. Deve portare pazienza. E spinge un pugno tra i seni per darsi forza, come quando era incinta. Cerca di calmarsi e fa di nuovo il punto della situazione: ha individuato lo stipo con i sonniferi di Enzo. La sorveglianza di Elisabetta sembra essersi allentata, ma basterebbe un nonnulla a riscatenare i sospetti, le persecuzioni. No, deve avere pazienza. Deve aspettare il momento propizio, pregando che allora non le manchi il coraggio.