di Alberto Prunetti
Qualche anno fa su Carmilla segnalai in dettaglio la scomparsa dell’uomo che scomparve due volte. Scrissi del secondo sequestro patito dal muratore argentino Jorge Julio López, avvenuto nel 2006, del suo ruolo come testimone nella scomparsa di due desaparecidos, Patricia Dell’Orto e Ambrosio De Marco, e del processo a Miguel Osvaldo Etchecolatz, l’ex commissario della polizia bonaerense degli anni 1976 e 1977, gli anni più orribili della dittatura militare, accusato di brutali sequestri e torture e omicidi. Se avete visto il terribile film “La notte delle matite spezzate”, bene, il cattivo di turno è proprio lui. Sempre su Carmilla, poi raccontai di essere andato a Buenos Aires, di un asado, una grigliata di carne che un mio amico, un fotogiornalista argentino, aveva preparato per accogliermi al mio ritorno a Baires. E del fatto che tra gli invitati a quella cena c’era anche il fratello di quella ragazza scomparsa, Gerardo, il fratello di Patricia, lui stesso un bravissimo fotogiornalista. Scrissi ancora su Carmilla parlando di un libro fotografico curato da Gerardo, che conteneva splendide foto familiari di Patricia e anche alcune istantanee di Jorge Julio López, che aveva accompagnato Gerardo sul luogo di reclusione di sua sorella.
Da allora sono passati alcuni anni e le mie finanze non mi hanno mai più portato in Argentina (per fortuna i miei amici argentini vengono ogni tanto a trovarmi). Da allora però non è tornato a Buenos Aires neanche Jorge Julio López, desaparecido due volte, scomparso per sempre e mai cercato davvero dalla giustizia argentina.
Giustizia che perlomeno ha condannato, doverosamente, chi aveva interesse a farlo sequestrare, ovvero Etchecolatz. L’ennesima condanna per lui è arrivata pochi giorni fa. Mentre il giudice condannava Etchecolatz all’ergastolo (non per la scomparsa di López, ma per altri casi connessi al carcere clandestino di La Cacha), l’ex capo della polizia, vecchio e smagrito, fissava con sguardo da pokerista la presidenta delle Abuelas, Estela Carlotto. Imperturbabile fino all’ultimo, il repressore ha rotto la sua tranquillità solo dopo la lettura della sentenza, quando si è infilato una mano in tasca, ha estratto un pezzo di carta e una penna e ha scritto su una pagina del foglio qualcosa. Un fotografo ha allungato il suo zoom, mettendo a fuoco sul “papelito”. Aveva scritto proprio il nome di Jorge Luis López, che in quel momento non era parte del processo in corso. E poi, sull’altro lato, il genocida ha aggiunto un verbo interpretabile probabilmente come “secuestrar”. A quel punto, dal gabbiotto degli imputati il vecchio poliziotto ha provato a raggiungere i giudici per consegnare il foglietto ma è stato bloccato da alcuni agenti.
Il suo è un atto che getta un alone sinistro sulla scomparsa di Jorge Julio López. Cosa voleva fare Etchecolatz? Il suo è un atto di minaccia? Una provocazione? Un avvertimento sinistro? O un atto di disperazione per la nuova condanna? Di sicuro Etchecolatz non si fa scrupoli di rivendicare il suo passato. Durante un’udienza ha dichiarato: “Per gli incarichi che avevo ho dovuto uccidere e lo farei di nuovo”. Questo è Etchecolatz, che ha lottato per la difesa della patria, della famiglia tradizionale e dei valori dell’occidente cosiddetto “cristiano”. A costo di torturare giovani coppie di militanti, spesso appartenenti al cristianesimo di sinistra, che sognavano una nuova Argentina, una terra, una patria meno ingiusta.