di Mauro Baldrati
Scrivere una recensione che riguarda Giacomo Leopardi è operazione delicata e rischiosa, perché è sufficiente un piccolo errore, una svista, un dettaglio invertito per scatenare l’indignazione dei leopardiani più attenti.
I quali peraltro hanno perfettamente ragione: è un segnale di amore per il proprio poeta, amore, rispetto e precisione. Io, per esempio, una volta ho letto un articolo del critico musicale istituzionale del Corriere della Sera nel quale un pezzo dei Cream veniva attribuito a Jimi Hendrix. Non ci potevo credere. Non sono mai più riuscito a leggere un articolo del suddetto, che ai miei occhi aveva perso ogni credibilità.
Pertanto mi sento in dovere di chiedere scuse preventive per eventuali errori, precisando che il personaggio di cui parliamo, il poeta di nome Giacomo Leopardi, è l’interprete del film Il giovane favoloso, e lui solo, benché nelle intenzioni degli autori vi sia rispondenza, storica e filologica, col personaggio reale.
Lui, Leopardi, definì Bologna, nella quale soggiornò nel 1827, una città dove “tutto è bello, nulla è magnifico”. Ebbene, il film di Martone – dichiarazioni enfatiche e luoghi comuni dei recensori a parte – è magnifico. Le immagini, la poliedricità del personaggio, la ricostruzione storica, la recitazione eccellente ne fanno un’opera intensa, impegnativa. Al centro vi è la poesia, della quale tutto il film è permeato, come una creazione misteriosa – forse la più misteriosa dell’animo umano – che sembra scaturire, come la lava del Vesuvio nell’eruzione dell’ultima parte del film, dalla sofferenza e dall’infelicità.
“Sono un uomo infelice” dice Leopardi, quando fronteggia i critici “democratici” e liberali che gli hanno appena negato un premio letterario importante. Troppa malinconia, troppa infelicità, gli rimproverano. Si deve parlare di felicità delle masse, di cose positive. E lui ribatte: come possono essere le masse felici se sono composte da individui infelici? Sembra anticipare Antonio Gramsci, un altro grande intellettuale che per certi aspetti ricorda Leopardi, per gli stessi disturbi fisici, la scoliosi, la gibbosità, e la profonda depressione alla quale era soggetto. La rivoluzione, diceva Gramsci, è possibile solo a condizione che si crei un “uomo nuovo”. Il quale deve rivoluzionare anche se stesso, senza rifiutare l’umanesimo in nome dell’attività politica.
Gramsci, dal canto suo, reagiva alla propria condizione con l’attività politica totalizzante, col materialismo dell’estroversione, dell’impegno sociale. Leopardi invece ne era coinvolto come unione cosmica, ne era travolto. La costruzione dell’infelicità leopardiana, che potrebbe essere paragonata allo spleen del quasi contemporaneo Baudelaire, sembra scientifica, accurata, meticolosa, e risale alla giovinezza nella natale Recanati.
La prima parte del film è atroce. Il giovane Giacomo è prigioniero, ostaggio in una casa-sarcofago costruita in un paese-cimitero. La casa è popolata da spettri, o forse da demoni. Il ragazzo, taciturno, stravolto, è sempre chino sui tomi della enorme biblioteca del padre Monaldo, insieme al fratello e all’amata sorella Paolina. Fuori dalla finestra una vita sembra esistere, una vita popolare fatta di carretti, di cavalli, di grida. Una vita estranea, nel silenzio funebre della casa. Si è fatto un gran parlare, nelle recensioni, di Monaldo come di un padre “severo” ma che ama suo figlio, lo protegge. Insomma, tanto per non farsi mancare un po’ di buonismo all’italiana, una sorta di recupero della figura paterna. In realtà Monaldo è ben rappresentato per quello che è: un lugubre reazionario bigotto, che protegge e stima suo figlio solo se accetterà di trasformarsi in uno dei tetri abati letterati nerovestiti, cultori di una letteratura morta scritta da autori decrepiti (da loro stessi uccisi e mummificati). Lo ama e lo amerà solo se deciderà di rispettare la chiesa, la tradizione, la visione conservatrice antiliberale. E la madre è persino peggio: una mummia nera, “neversmiling”, punitiva, anaffettiva, minacciosa.
In questo contesto il giovane Giacomo non è un ribelle. E neanche un rivoluzionario. Si avvita nel suo destino, nella sua solitudine. Probabilmente sviluppa, o affretta, la propria malattia. Se vuole uscire dal sarcofago, lo fa chiedendo. Lo fa supplicando. Implora il padre, e il trucido, bigottissimo zio di lasciarlo andare. Di concederli la libertà. E avrà in cambio un rifiuto, mentre il coperchio del sarcofago sembra richiudersi, con una sinistra evocazione di E Johnny prese il fucile, di Dalton Trumbo.
Poi il film fa un salto temporale di dieci anni e ritroviamo Giacomo a Firenze, in compagnia dell’amico Ranieri. Dunque ce l’ha fatta a fuggire dalla tomba. L’uno scoppia di salute e di energia, passa da una nobildonna all’altra. Mentre Giacomo continua il suo cammino nell’aggravamento della malattia e sta a guardare. Sembra che viva la vita dell’amico, riflessa nella sua, come osservatore. In questa fase trova anche un po’ di spazio l’ironia leopardiana, a tratti graffiante, ma non vi è dubbio che una parte importante è occupata dai suoi infelici rapporti con le donne. Per dire, il soggiorno bolognese, del quale non c’è traccia nel film, è esemplare. Era innamorato perdutamente della contessa Malvezzi, che lo vezzeggiava, lo coccolava, probabilmente lo seduceva, finché il povero Giacomo, come probabilmente avrebbe fatto qualunque maschio al suo posto, non si dichiarò. Ottenendo in cambio un tremendo voltafaccia che lo scaraventò nella disperazione più nera, e nel rancore – giustificato? – verso la contessa. E qui come non ricordare la povera Janis Joplin, che ovunque andava era preceduta da una piccola corte di ancelle adoranti: poi “puntava” un ragazzo carino, perché, come Leopardi quando si confida col letterato Pietro Giordani, aveva solo bisogno d’amore, di calore, “di vita”. Ma il ragazzotto si appartava con una delle ancelle, sparivano insieme e Janis rimaneva sola, disperata, a smaltire la solitudine e la sconfitta con l’alcol e le lacrime.
Infine si va a Napoli, passando per Roma, con qualche frequentazione di salotti, storie d’amore di Ranieri con la contessa di turno, una città che sembra aliena, dove Giacomo trova da un lato allegria, amicizia, con quell’amore per i tipi del popolo che non può non ricordare l’attenzione di Proust per i “segni” popolari. Ma qui, a differenza della Ricerca, i “segni mondani”, così analizzati da Proust, così oggetto di sarcasmo, così futili, in Leopardi sembrano assenti. E’ tutto rivolto ai segni dell’arte, difficili da raggiungere in Proust, perché rappresentano il percorso finale, l’obiettivo di una vita di ricerca. Leopardi sembra puntare dritto a quelli, dichiarando più volte che detesta i salotti, che pure è “costretto” a frequentare, e la fama letteraria. E qui sono molto belle le recite poetiche di Elio Germano, che in effetti risulta l’attore forse più adatto in assoluto per questa parte. E Napoli diventa anche una discesa agli inferi. Emblematica la scena del bordello (potremmo definirlo “lupanare”), dove lo invia Ranieri per fargli finalmente conoscere l’amore carnale, dopo avere istruito a dovere le prostitute. Ma Giacomo, sempre più gobbo, e storto, viene crudelmente sfottuto e inseguito da un branco di scugnizzi e di “pulcinelli” che lo insultano e lo deridono, obbligandolo a fuggire.
Il “salto” è già avvenuto. Proprio come in Kafka. La malattia ha già preso il sopravvento, portando sofferenza, invalidità, ma anche una forma particolare di liberazione. A Kafka la malattia “serve” per allontanare certe prospettive di vita che giudica spaventose, come il matrimonio, la famiglia, la fine del celibato, l’unica condizione dove può realizzare la sua unica vocazione, la scrittura. Leopardi sembra subire questa condizione, perché vorrebbe una vita vera, ma non può. O non vuole? E’ costretto? E’ la condanna dei demoni neri che l’hanno rovinato nella mostruosa biblioteca tombale di famiglia? Questa potrebbe essere un oggetto di discussione infinita, anche con un’analisi dei testi. Ma non è questo il contesto. Abbiamo un Leopardi ormai totalmente invalido, che pur tuttavia riesce a camminare per la città devastata dal colera, osservando, esplorando, e la sua invalidità lo libera, per così dire, di una parte della sua sofferenza, come il rimpianto, il senso di esclusione, mentre la poesia avanza, occupa sempre più spazio, diventa ragione assoluta di vita.
Fino alla splendida, emozionante conclusione de La ginestra, il Fiore del Deserto, il suo penultimo poema, recitato magnificamente da Germano alle pendici del Vesuvio, durante il soggiorno finale di Torre del Greco, nel 1836:
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.