di Enzo Melandri
Dopo l’articolo ZOON POLITIKON. Bolk e l’antropogenesi [1 e 2], pubblichiamo un altro testo poco noto di Enzo Melandri, il filosofo autore de “La linea e il circolo”. Si tratta di un testo del 1983, compreso nel volume collettivo “La creatura e il pleroma” [a cura di Antonio Covi, Roma-Cosenza, ed. Lerici], un volume militante scritto in favore degli imputati del Caso 7 aprile da alcuni intellettuali (oltre a Covi e Melandri, D. Corradini, G. Scarpari, P. Dusi, J.-P. Faye, R. Canosa, A. Santuososso, M. Galzigna, C. Formenti, M. Cacciari, S. Caruso, G. Contri, G. Mosconi, P. Schiera, S. Acquaviva, G. Baget Bozzo) che non scelsero la linea del silenzio e/o dell’indifferenza. Come sempre, Melandri mette la sua lucida intelligenza all’opera nell’analizzare un fenomeno all’interno delle sue relazioni con il background e con le possibili alternative che da esso potrebbero aprirsi. Molti dei temi allora trattati hanno ancora una forte attualità (compresa la trattazione della figura del pentitismo, in qualche modo annunciata da certe presenze oggi “sorprendenti” nell’indice di questo testo), e smentiscono il facile luogo comune che vuole Enzo Melandri essere un filosofo “oscuro” e “difficile” (g.d.m.).
Passare d’infilata attraverso i due assi ortogonali del sistema sociale, la “struttura” e la funzione”, questo è il problema teorico. E qui parlar di Bestie, di Cavalieri, di Demoni e di Angeli può andar altrettanto bene che l’uso dei più raffinati concetti tecnici o supposti tali. Sotto l’aspetto pratico mi ritrovo invece molto scettico e piuttosto sfiduciato, ma cercherò di argomentare anche questo momento esistenziale. Questo perché son d’accordo nel non voler ridurre la coscienza alla pura semplice registrazione della conoscenza, sia pure obiettiva e ideologicamente “pura”, degli stati di cose e rapporti di forza attualmente esistenti o in vigore. Da un punto di vista etico-politico, la morale che si ricava dalla riduzione gnoseologica della coscienza si dice biblicamente “filisteismo”.
Da una analisi paradigmatica emergono come rilevanti quattro motori sociali: il potere economico, o il “capitale”; il “lavoro”; il potere giudiziario-esecutivo, o lo “stato”; il potere informativo, o il consenso indotto nell'”opinione pubblica”. I motori sono collegati a macchine che trasformano l’energia o scatenano altre energie per produrre determinati effetti. Caratteristica delle macchine è di non esser mai perfette, nel senso che accanto agli effetti voluti ne producon anche altri, non voluti e perfino dannosi. Perciò ogni macchina è corredata di governali (volanti, relais, freni, ecc.) atti a regolare il funzionamento secondo l’effetto voluto. Ma anche i governali sono macchine, e tale è da ultimo anche l’uomo che li guida. Quindi c’è sempre alla fine un margine più o meno ampio di effetti non voluti. Questo stato di cose definisce all’origine il problema della (relativa) ìngovernabilità del tutto.
Mi rendo conto che la “tesi di ingovernabilità” è ideologicamente assai sospetta, giacché induce (anche se non necessariamente) al filisteismo in sede etica. Tuttavia io ci vedo un senso più profondo, che contiene un nucleo di verità. Per metterlo a fuoco, proporrei la distinzione tra una ingovernabilità dello hardware e una del software, la prima per principio (o al limite) assoluta e la seconda (solamente) relativa. Mi spiego. Il mio cervello (la sua fisiologia, il suo funzionamento, il suo modus operandi) è per me essenzialmente hardware: l’attività del pensare è di per sé inconscia. Tutto quel che conosco è il suo output; di qui, per feed-back e in rapporto a certe norme da me prefissate, regolo le informazioni da fornire, l’input. Queste sono di due tipi: informazioni (A, B… -K, -L, … ) e regole (se A, allora C, …, se B, allora D). Tutto questo appartiene al “software”, che io posso modificare a piacere fino a costringermi a ragionare logicamente. Ciò pure non modifica mínimamente il funzionamento dello “hardware”, che va avanti per conto suo e resta fuori dal mio controllo. Mediante l’esercizio o cure ricostituenti del sistema nervoso, io posso migliorare le prestazioni complessive della macchina (velocità di esecuzione, durata della fatica, focalità dell’attenzione), ma non modificarne la meccanica. Talvolta, come nell’insonnia, non sono neppure in grado di chiudere l’ínterruttore. Per questo dicevo che anche l’uomo è macchina. C’è sempre un margine di produzione dello “hardware” che resta incontrollabile (o, meglio, incontrollato) da parte del “software”. Anche nella vita pratica, pur non essendo un attivista frenetico, io produco sempre più effetti di quanti non sia in grado di riconoscere come voluti o razionalizzabili per corresponsabilità. E pur costringendomi a ragionare logicamente, la stessa apertura (o non conclusività) della ricerca logica mostra come, per effetto dell’eterogenesi dei fini (“eterogonia degli effetti”) si diano poi costantemente più problemi che soluzioni.
Esaminiamo ora i vari poteri dal punto di vista dell’energia (motore), della macchina (trasformazione mirante a un effetto), della governabilità (regolazione dell’effetto) e dell’informazione disponibile e utilizzabile (a scopo normativo).
1. Il potere economico è quello che al presente dispone della massima energia, e la sua macchina industriale è in grado di scatenare anche delle energie naturalí dei massimi ordini di grandezza. Non si vede alcun limite nello sviluppo dello sfruttamento tecnologico di tale energia in sé. I dubbi e gli impedimenti sorgono dall’accrescimento in molti casi esponenzíale degli effetti indesiderati, anzi nocivi per la vita stessa. Emerge qui un problema d’ingovernabilità complessiva dello sviluppo economico. Di certo questo è connesso con la modalità capitalistica del suo c.d. “progresso”. Ma a 65 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre sono emersi due fatti che confermano la cecità, involontarietà o non, teleologica di questo sviluppo: (i) la mancanza di altemative governabili, contro la tesi di Marx per cui l’uomo sarebbe stato in grado di dirigere la sua politica economica e quindi la storia; e (ii) l’evidente impotenza dirigenziale dei potentati economici, i quali fan finta decidere ma in realtà “cavalcano la tigre” accompagnando le tendenze in atto o al massimo giocando d’anticipo al riguardo. Questo tipo di potere è quello che mi pare più simile alla Bestia, giacché nessuno lo dirige a meno che la sua testa non si metta al servizio della Bestia e ne diventi cosa sua. E qui anche l’informazione è solo quella che vale in quanto serve, come dire che il software è completamente asservito allo hardware. L’imprenditoria in fondo dirige tanto poco questo hardware quanto la finanza, la magistratura, l’esecutivo e il legislativo.
2. Il lavoro o meglio la potenzialità della forza lavoratrice è di un ordine di grandezza molto inferiore al capitale e a quanto questo può mettere m gioco, e inoltre con lo sviluppo della tecnologia tende a diminuire anche in percentuale sul totale. Tuttavia il suo intervento può esser rilevante e competere, quanto meno negativamente, sullo sviluppo produttivo. Scioperi e dilazioni di lavoro possono bloccare la produzione, o renderla non competitiva in certi settori. La macchina può fermarsi o può guastarsi per impedimenti di lavoro. Ma resta il fatto che il lavoro, se può frenare o accelerare la macchina, è ancor meno in grado di dirigerla dei suoi dirigenti istituzionali. Non solo lo hardware rimane inalterato, ma tale resta anche il software dirigenziale più elevato. L’organizzazione del lavoro come macchina è il sindacato e sotto questo aspetto il lavoro è in teoria governabile. Tuttavia anche questa macchina organizzativa, pur essendo tutta software, produce effetti non voluti e indesiderabili. Il sindacato difende e valorizza il lavoro (di chi è occupato), però per altro verso produce difficoltà di (nuova) occupazione, lavoro nero, disoccupazione. Inoltre esso induce nel lavoratore tendenza all’eterodirezione, deresponsabilizzazione e filisteismo aziendale. Non voglio dire che i lavoratori siano per ciò stesso “integrati”, perché la loro coscienza rimane pur sempre anomica rispetto alle imperscrutabili finalità aziendali; certo però non mi aspetto da questa parte lo sviluppo di un dissenso che si organizzi in consenso rivoluzionario.
3. Il potere giudiziario, esecutivo o in una parola statale può apparire debolissimo quanto a energia direttamente immessa nei circuiti sociali; ma sarebbe stolto seguire in proposito le suggestioni di un materialismo tanto meccanicistico quanto infine non solo ingenuo ma fallace. Entra qui in gioco il “principio di causalità”, che nelle scienze naturali ormai è diventato apolide (ci sono leggi e non cause, dice Comte), ma richiede una rivalutazione in sede di scienze sociali, con inclusione in queste ultime delle varie tecnologie: come ingegneria, medicina, economia, ecc. Se io giro l’interruttore della luce, sono io la causa del suo accendersi, anche se poi scateno delle energie esterne. Voglio spiegarmi meglio, giacché la cosa riveste un’importanza di principio. I soldati attraversano a passo cadenzato un enorme ponte di ferro e lo fanno crollare. La causa sono i soldati, ma l’energia che essi mettono in gioco è solo quella necessaria a far scatenare le enormi energie autodistruttive insite nella struttura stessa del ponte e che si liberano per risonanza. Altro esempio. Da ragazzo leggevo i racconti del terrore di Poe e finivo col non poter più dormire dalla paura. Qui l’energia trasmessami da Poe è nulla, dato che era morto da un bel pezzo. L’energia del non dormire dalla paura ce la mettevo tutta io, e tuttavia Poe rimaneva la causa della mia paura, dal momento che, se non avesse scritto quei racconti, io non avrei avuto quella paura. Ci siamo? Quel che voglio dire è che la causalità è (i) un “grilletto” o una trasmissione d’effetto “ínter”-sistemica, cioè esterna ai sistemi o a distanza; (ii) che l’energia è un quantum “intra”-sistemico, interno a esso e (in tal misura) autonomo; e (iii) che l’effetto si trasmette (al limite) anche senza tramissione d’energia, o per lo meno trascurando quella implicita nel fatto stesso della comunicazione, che nel senso detto è una quantità trascurabile. Che cosa se ne deduce? A mio parere, un mucchio di cose. Per es., che un sistema (anche se) puramente informativo può produr effetti di 10 alla n volte più potenti delle energie di cui dispone direttamente se agisce su grilletti adeguatamente predisposti allo scopo; che gli imperativi non sono che un caso particolare di comunicazioni informative, dato che il loro particolare senso normativo (o coazione a eseguire, a obbedire o anche solo a inventarsi una scusa) dipende da introiezioni intrasistemiche già predisposte allo scopo nei singoli individui, o nei gruppi, ecc., e che scattano al telecomando apparentemente solo informativo; o che il feedback dagli effetti scatenati al senso di responsabilità di chi preme il grilletto, là dove agisce perché può agire liberamente e non è stato messo a terra, opera molto più lentamente e in condizioni d’insicurezza, proprio perché non esiste un sottosistema di alternative già predisposto entro una vigile coscienza critica, né poi si vede come potrebbe esistere… E qui mi fermo. Spero di aver reso l’idea.
4. A questo punto si vede come il potere statale tragga il suo indispensabile rinforzo da quello informativo, più la predisposizione di un’infinita molteplicità di sistemi (individui, gruppi, settori, ecc.) sintonizzati alle sue direttive. Che poi in condizioni di comunicazione imperfetta si dia un margine molto ampio di trasgressione alle norme, è questione che entro certi limiti di allarme importa abbastanza poco; purché però si appronti allo scopo un sottosistema di recupero di questo genere: (a) colpevolizzazione generale dei trasgressori, piccoli e grandi, in modo da ricaricare gli effetti di risonanza; (b) emarginazione dei trasgressori più gravi, vulnerabili o recidivi, e loro relativa espulsione nel non esserci dell’extrasociale: prigione, morte o tacitazione perpetua; (c) recupero oculato e parziale dei pentiti, in modo da ottenere un effetto destabilizzante sull’organizzazione del dissenso e sulla coscienza rivoluzionaria. Non è difficile ottenere questi risultati; tutta la civiltà fonda su di essi il processo di acculturazione. Ma ciò sposta il discorso su un elemento che fin qui la scienza sociale ha considerato a torto una quantità trascurabile, voglio dire l’individuo con la sua coscienza singola e le sue reazioni non prevedibili né classificabili in anticipo.
5. Certo, l’energia disponibile da ciascuno di noi è molto limitata. Ma molto più limitata e anzi trascurabile è quella che ci vien trasmessa via informazione. Tuttavia quest’ultima è in grado di provocare un effetto di risonanza collettivo, quando ciascun di noi è ben sintonizzato in merito, tale da rendere la nostra energia cumulativa, in sede di software, di un ordine di grandezza di tutto rispetto. Nessuno ha mai calcolato l’energia di una siffatta alternativa democratica, che in teoria è immensa, anzi incommensurabile nel senso che non si saprebbe come limitarne il tetto. E tuttavia, se il suo effetto deve dipendere da un’accumulazione collettiva, noi possiamo già da questo arguire che il suo ordine di grandezza non potrà esser molto superiore, per non dir subito inferiore a quello totalizzato dalla classe lavoratrice mondiale nel periodo 1880-1930, cioè al culmine del conflitto proletario in senso marxista.
Ma chi ha detto che l’effetto causale, per essere efficace, debba essere cumulativo come somma di energie e collettivo come unanimità d’intenti? In realtà, di qui si determina non una sola alternativa, ma parecchie. Solo, non sappiamo come concepirle né tanto meno utilizzarle. Basterà per il momento non cedere al ricatto sinergetico ed entropico delle leggi della termodinamica riprodotte per omologia naturalistica sul campo del sociale.