di Franco Fortini (da L’Espresso, 31 agosto 1986)

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Questo articolo di Fortini, apparso in occasione del decennale della morte di Mao, può aiutare chi è nato dopo il 1970 a comprendere quella che, a giudicare da una pubblicistica pseudo-storica sempre più fastidiosamente assillante, sembra essere stata una ondata di follia collettiva ispirata da un dittatore feroce quanto perverso.
Per chi volesse poi approfondire l’argomento, consigliamo il volume collettivo, curato da Tommaso Di Francesco
“L’assalto al cielo. La rivoluzione culturale cinese quarant’anni dopo” edito da Manifestolibri, che contiene saggi di Alain Badiou, K.S. Karol, Edoarda Masi, Angela Pascucci, Rossana Rossanda, Alessandro Russo. (R.S.)

1 Non ho dimenticato gli ammicchi e i trionfi giornalistici dei miei concittadini e di tanti europei quando, dieci anni fa, sepolto Mao, fu assestato il colpo definitivo alla cosiddetta “Banda dei Quattro”. Non erano solo le “destre” ad applaudire; erano soprattutto le “sinistre” e gran parte delle Nuove Sinistre, già da più anni rientrate nell’area del Pci, che esultavano per la conferma storica del primato dello”sviluppo”, come oggi parlano di Chernobyl quale virile esempio dei sacrifici necessari al progresso.

Nulla, nella mia educazione e formazione, mi aveva disposto, tra quelli della mia generazione, a interessarmi delle vicende dell’Estremo Oriente. Dieci anni dopo la fine della guerra, quella cinese era una cultura a me sconosciuta e le sole immagini che ne avevo erano state mediate dalla Storia della rivoluzione d’ottobre e da La condizione umana di André Malraux. Ed ho poi sperimentato che questa mancanza di interesse l’avevo in comune anche con molti, più giovani di me, e miei vicini nelle discussioni dei cosiddetti marxisti critici, tra il 1956 e il 1966. Non posso dimenticare che quasi tutti coloro che ebbero a che fare con le riviste che hanno anticipato il 1968 (“Ragionamenti”, “Officina”, “Opinione”, “Quaderni Piacentini”, “Quaderni Rossi”) non avevano né reale interesse né strumenti intellettuali adeguati ad avvicinare i temi della Cina comunista. Tanto la tradizione social-libertaria e anarco-sindacalista quanto le posizioni di origine trotzkista indussero i più, allora, a considerare la rivoluzione cinese qualcosa di simile alla lotta nazionale di colonizzati e il prestigio dell’Unione Sovietica, nonostante lo stalinismo, aveva ancora, per la rivoluzione degli oppressi del mondo intero, significato e prestigio grandissimi un decennio dopo Stalingrado.
L’assenza della Cina e di Mao dall’immaginario di Pasolini, ad esempio, è molto significativa in questo senso. Nella figura della Cina era impossibile trovare l’arcaico che è, per noi, India, Africa e, almeno in parte, America Latina. La Cina non ispirava né affetto né entusiasmo. Le sue qualità visibili erano di tipo anglosassone. La lotta alle mosche faceva ridere. Gli amici nostri non trovavano né in Lukacs né in Adorno nulla che li disponesse a comprendere il fenomeno cinese. E quando Brecht mi disse, nel 1956, pochi mesi prima di morire, che aveva usato nelle prove del Coriolano il saggio di Mao Sulla contraddizione, «perché è come Hegel ed è più chiaro», non poteva sapere che quel saggio sarebbe stato, vent’anni più tardi, ampiamente sbeffeggiato dai filosofi.
Un punto di riferimento nuovo parve la Cina solo quando risultò chiaro che il fiancheggiamento della politica internazionale sovietica induceva il partito comunista italiano, sotto la guida di Togliatti, a prendere le distanze dalle esigenze rivoluzionarie dei popoli impegnati nella lotta anticolonialista e nazionale, proseguendo così la linea che nel 1935 proprio Togliatti aveva formulata.
Per questo, che il Partito Cinese, nella persona di Mao, avesse scelto proprio il compagno Togliatti per esporre le sue”divergenze” con i sovietici, fu per molti di noi un lampo e una rivelazione. Mao divenne l’ anti-Stalin, anche quando recitava il rispetto alla memoria del georgiano. Le tesi di Mao rimettevano in moto quel che cinque o sei anni prima il XX Congresso del Pcus aveva malamente ingessato. E, in Vietnam, il generale Giap dimostrava che si poteva resistere alla più grande potenza mondiale.

2. Ho conosciuto dei maoisti italiani, anzi membri di gruppi, che si contendevano il diritto al marchio d’origine controllato. L’aspetto infantile o ridicolo non era peggiore di quello che si mostra di solito nelle passioni che chiamiamo fanatiche. E il danno che ne venne fu, press’ a poco, pari a quello che, tra il 1968 ed il 1983, fu patito nella Nuova Sinistra da questa o quella delle frazioni o gruppi che la dividevano e tuttavia più grave, quanto maggiori erano le pretese ideologiche. I maoisti italiani, da questo punto di vista, non hanno provocato i guai dei “Maos” francesi con certi letterati come Philippe Sollers, nella rivista “Tel Quel” (e non li si confonda, di grazia, con Sartre!). Lo dico perché è proprio la frazione francese dei “Maos” quella che ha fornito negli scorsi anni più numerosi pentiti e più illimitati apologeti di Deng. Più che da Mao, erano stati sedotti dagli aspetti tra terrificanti ed incomprensibili della Rivoluzione Culturale. A leggere quel che scrivono oggi, sembra che abbiano trasferito in inni al corso recente della politica e dell’ economia cinese la medesima mancanza di prudenza critica che avevano avuto quindici anni fa.
Appartengo ai relativamente pochi italiani che da trent’anni guardano con interesse e passione all’universo che chiamiamo Cina, da quando, ventinove estati or sono, ebbi l’occasione di trovarmi tra i primi che in quel paese si recarono, pochi anni dopo la fine della guerra contro Ciang Kai Shek e l’instaurazione della Repubblica Popolare. Ma non sono un conoscitore, neanche dilettante, di quella cultura e di quella società. Eppure, da quanto ho letto e saputo, mi sono sempre parse presenti due condizioni estreme, in Occidente, quando di Cina si parli: la prima tende ad esagerare la incomunicabilità ed indecifrabilità, come proprie di una struttura, di ieri e di oggi, irriducibile alle nostre misure; la seconda rifiuta radicalmente la prima, applica a quanto reca il nome di cinese, i propri criteri, e (perché no?) i propri pregiudizi negando misteri ed indecifrabilità.

3. Samir Amin deve avere ricordato in Avenir du maoisme (1981) che, a differenza del leninismo, gli errori del maoismo non hanno mai condotto a situazioni irreversibili, fino a che non è stato, come sembra, rovesciato. E aggiunge che il maoismo si fonda: sulla uguaglianza tra città e campagna, dove la “base” è l’agricoltura; sulla gerarchia salariale che riflette la qualità ineguale dei diversi tipi di lavoro, escludendo però ogni altra differenziazione; sulla scienza, per uno sviluppo nazionale autonomo, dove i rapporti con l’estero sono integralmente sottomessi alla logica dello sviluppo interno: sulla gestione dell’economia e della società attraverso i lavoratori e non imposta in nome della”efficienza” e della “scienza”. L’attuale direzione cinese sembra, punto per punto, invertire tutti questi principi. Ma: è davvero possibile? Certo non sono mancati e non mancano quelli che nelle due massime rivoluzioni socialiste, (la russa e la cinese), vedono solo pervertite rivoluzioni borghesi, astuzie della ragione storica per attingere lo stadio di un maturo capitalismo mondiale. Su tali interrogativi possiamo anche lasciare questa valle di lacrime.

4. Non so se qualche lettura storica su quel che è accaduto in Cina nei trent’anni che vanno dalla metà degli anni Venti alla guerra di Corea potrebbe impedire o rallentare le più comiche manifestazioni di infantilismo o quelle, repulsive, dell’ aggiornato cinismo. Non è inutile neanche oggi, poiché l’analfabetismo non è una virtù, ricordare che il cosiddetto maoismo è teoria e pratica politica,che si sviluppa lungo trent’ anni di lotta e guerra, dal leninismo degli anni Venti alla costruzione del socialismo negli anni Cinquanta; e non soltanto nel decennio della Rivoluzione Culturale e di un Mao ultrasettantenne.
La rivoluzione avrebbe dovuto continuare in regime socialista come conflitto motore interno al sistema, per ininterrotto configurarsi di «contraddizioni in seno al popolo». Di qui il diritto alla rivolta («ribellarsi è giusto»). Il partito non era più l’istanza suprema, la sede e la forma assunta dall’autocoscienza; era una delle due fonti della legittimità, l’altra delle quali era la forza, anarchica, delle masse. Un amico mi dice che Mao è divenuto, in dieci anni, lontano come Diocleziano o Carlo V; ma mi chiedo se questa medesima distanza non abbia colpito tutta la prima metà del nostro secolo. Se tanti giovani universitari Usa ignorano chi sia stato Napoleone, se Hitler è quasi sconosciuto a tanti italiani, trovo giusto che”servire il popolo”, ossia lo slogan che tanti giovani europei portarono sui loro striscioni quindici anni fa, possa essere oggi assunto come quello di una catena di “fast food”. Ognuno può come crede onorare o disonorare o ignorare il suo proprio passato. La guerra che oggi si combatte nel mondo è anche tra infinite schiere di spettri.

5. Mai, in un solo momento, negli anni Sessanta – e credo di averlo scritto più volte – mi venne meno la coscienza che l’esperienza cinese e l’impresa maoista contenessero un nucleo irriducibile di diversità che vietava un rapporto emotivo o intellettuale simile a quello che avevo sempre potuto intrattenere con una cultura, la sovietica, che ha le nostre medesime radici culturali. In ogni parola di Mao, anche in quelle apparentemente aforistiche e univoche, del “Libretto rosso”, avvertivo un alone stilistico, come una tensione, come uno sterminato extra-testo, con un sistema di riferimento a me sconosciuto o noto solo per frammenti minimi e luoghi comuni. In questo senso la formulistica degli scritti e dei documenti di propaganda di partito era agghiacciante non solo perché ossificata, modulare, ripetitiva, ma, per quel che lasciava intuire o sospettare di fluido, di equivoco, di inafferrabile.
Quanto più la prosa di Mao, a detta degli specialisti, è uno splendido esempio di energia ed immediatezza, che recupera i valori della tradizione letteraria e insieme quelli della parlata popolare, più essa può apparire come irriducibile alle esigenze di coerenza e di verificabilità dei documenti ideologici e filosofici dell’Occidente. Quelli che liquidano come semplificazioni o sciocchezze le scritture etico-politiche di Mao, al massimo concedendogli qualche brutale qualità suasoria e retorica, sono quei medesimi che mal sopportano i miti platonici, le parabole evangeliche, la aforistica di Pascal o la saggistica di Kraus; o che le ammirano solo come effetti di ornato.

6. Certo, negli anni Cinquanta, divenne palese in .Italia il fallimento dell’ipotesi leninista e gramsciana di una trasformazione rivoluzionaria fondata sull’alleanza tra la classe operaia e contadina; e abbiamo vissuto, in quel periodo, la prima radicale distruzione degli ambienti socioculturali del passato. E fu proprio questo che rese possibile l’impatto della formula cinese, nel primo quinquennio degli anni Sessanta, delle campagne che assediano e conquistano le città, ossia dei meno sviluppati che mettono fine al dominio dei sovrasviluppati a colpi di rivolte e di secessioni. Ma oggi, dopo che siamo stati irrisi come piccolo-borghesi nostalgici di non si sa quale autenticità arcaico-contadina, .ci si avvede che un ventennio è stato sufficiente per rivelare catastrofico il tipo di sviluppo tecnocratico-scientistico. Sono scienza e tecnica ad avere scelto la strada della distruzione della ragione.

7. Concludendo, l’interpretazione autobiografica degli anni Sessanta, dirò che nel nome della Cina (e del Vietnam) si posero allora alla coscienza politica di una parte importante della gioventù italiana gli interrogativi a cui il decennio successivo non avrebbe dato risposta: lo sviluppo tecnologico è la via dello sviluppo umano? Il socialismo può esistere senza uno sforzo collettivo e volontario? La divisione del lavoro manuale da quello intellettuale, come si pone in una società ad alto sviluppo industriale? Che cosa può significare realmente il «lavorare meno, lavorare tutti»? Quali i punti immediati e gli strumenti collettivi di quella trasformazione del costume, della comunicazione e del sapere che è uno dei perni della inevitabile “rivoluzione culturale” (scuola, editoria, audiovisivi, relazioni interpersonali)?

8. Conosciamo le risposte: sono state date nella forma più perentoria dai fatti, quando la Tv ha mostrato gente, in una città cinese, fare la coda per uno sperimentale mercato azionario, il messaggio inviato dai gestori ideologici della nostra televisione era chiarissimo: la Cina, il paese che per tradizione (come l’America Latina) è quello delle innumerevoli lotterie, torna – dopo decenni e decine di milioni di morti al gioco, dove si guadagna sul lavoro altrui e dove «sale chi su un altro sale». Benissimo. L’uomo sia dunque lupo all’uomo. Insegniamolo allora nelle chiese e nelle scuole; come neppure negli Stati Uniti si fa. Si scoprirà che nessuno l’ha detto cosi chiaro e forte come chi ha pensato anche, e detto, che questa Grande Legge della oppressione e del mercato universale può essere distrutta. Che i vinti hanno, nella loro sconfitta, la possibilità di una vittoria. «Grande la confusione sotto il cielo; la situazione è eccellente».

9. Se un giovane, cui la gioventù dei genitori – fino a quando non sappia davvero ripensarla – è necessariamente più indecifrabile ed odiosa della propria medesima infanzia, mi chiedesse che cosa mai, uno come me, avesse potuto, trenta e venti anni fa, scorgere di affascinante nel gran faccione del Presidente, non gli risponderei distinguendomi, come pur feci allora con ogni energia – dai gruppi che mi parevano debolmente, cioè sentimentalmente fanatici; e neanche mostrandogli che cosa fu la Lunga Marcia di diecimila chilometri o narrandogli, col libro del Myrdal, quali fossero i modi di vivere e di morire di un villaggio cinese, o, con André Malraux e Lu Xu e Edgar Snow, quale il quarantennio cinese dal 1919 alla rivoluzione nazionalista e al 1949 della Repubblica popolare; e neanche le immagini e le parole di Mao a Yenan. Gli risponderei, invece, come l’antico greco: «Sei sicuro di capire, se ti rispondo?».
Per capire questa risposta bisogna credere qualcosa che nell’educazione dei ventenni è stato per dieci anni revocato in dubbio – non nel senso degli atti di fede, sebbene questi ultimi non debbano essere esclusi facilmente, ma in quello di constatare conoscere e valutare – che le società umane possono intervenire nel proprio destino; costituire movimenti ed armare lotte di ogni ordine e qualità che rovesciano quel che sembra per sempre immutabile e che gli interessati assimilano ad un fato naturale; che l’utopia e la speranza sono forze “materiali” che spostano le montagne e possono rendere meno ingiusta l’esistenza e meno insensata la morte.
Ma- anche bisogna saper guardare a tutto quello che nega quelle possibilità, alle sconfitte, alle beffe della storia, alle sofferenze inutili (o che tali ci sembrano), alla vigliaccheria ed alla mediocrità che sembrano avere sempre il sopravvento, almeno se si vuol credere al Leopardi: «Se si riesce a tenere insieme queste due serie di verità che paiono escludersi a vicenda può darsi che si configurino a un tempo necessarie, sebbene non inevitabili e si facciano via di salvezza a sé e agli altri, non affidandosi solo ai singoli, ma neanche demandando tutto agli dei o al fato. Questa unità di scetticismo e di fede, di intelligenza e di intuito, di poesia e di pratica, e anche di amore e di crudeltà, di violenza e di grazia…».
Ma qui l’interlocutore interromperebbe l’abbrivio dell’eloquenza e del pathos, «Possibile», direbbe, «che per spiegare il significato del maoismo e dell’Europa negli anni Sessanta si debba mobilitare tutte le figure allegoriche dell’esistenza umana?», «Sì, carissimo», gli risponderei, «te l’avevo pur detto che se è facile porre certe domande, è difficile accettare le implicazioni delle risposte, Quello che chiamiamo “maoismo” prende nome, è vero, da un personaggio morto dieci anni fa e ora mummificato in uno squallido mausoleo del suo paese; ma dietro a quel nome c’è uno sconvolgimento ed un conflitto che ha impegnato per decenni un essere umano ogni quattro e che ha mutato la sorte di più generazioni e si è posto come esempio alla parte più oppressa e più umiliata del mondo. Certo, nessuno è costretto a riconoscerne la grandezza; ma l’errore di Tolstoi non è quello di avere la scorta dell’umile mugik russo e di contrapporlo alla rinomanza di Napoleone, ma di avere avuto bisogno, per questo, di rappresentarci Napoleone quale non fu davvero, ossia un vanitoso imbecille».
«Sì», continuerei: «quell’unione di forze contraddittorie che Mao vedeva senza posa riprodursi nella storia delle nazioni e delle società, scindendosi e poi ricomponendosi di continuo, accade che si manifestino, in particolari circostanze, in modo eminente, in gruppi umani o frazioni di popoli o di classi, parti, partiti e che costoro od altri diano a quella unione sempre minacciata e sempre in se stessa divisa, il nome di un uomo solo; anche con i rischi del culto, della tirannia, del monumento, Ma se quel pugno d’uomini o quel singolo avevano saputo vedere se stessi come un episodio di qualcosa che deve superarli e temporaneamente travolgerli e (come disse un grande scrittore cinese parlando dei poeti sovietici suicidi) “cantare a se stessi il proprio inno funebre”… Cominci ora a capire? Lo sapevi o no che Mao aveva detto e scritto che la “borghesia” era “nel” partito e che avrebbe tutto fatto per riprendere il potere?».

10. È stato detto e ripetuto mille volte che in Mao si urtavano e si sovrapponevano la cultura tradizionale cinese e quanto, della occidentale, era convogliato nella filosofia classica tedesca e nel marxismo. Ora è sapere comune che il segno più profondo di una parte importante dell’ ethos cinese, quello confuciano, consiste nel valore assoluto assegnato alla norma, alla forma, al segno, sicché la realtà si presenta come un impenetrabile sistema di convenzioni che irride al cristianesimo e al romanticismo degli occidentali sempre preoccupati della coscienza e della autenticità. Di qui l’estrema flessibilità, almeno apparente, dei cinesi, di fronte all’autorità, e la facilità di contraddirsi e di fare coincidere verità e potere.
In Unione Sovietica, le “confessioni” dei processi staliniani erano frutto di violenza e di torture o erano tragiche recite di un supremo servizio alla causa. Non così in Cina; o non sempre; non istituzionalmente; non giustificata in sede teorica o morale. Dunque, tanto più straordinario l’oggettivo insinuarsi nella Cina del dopo Mao l’eccezione a questa regola: la vedova del Presidente che contrattacca ed accusa. Il dirigente operaio di Shangai, uno dei Quattro, processato, invece non parla. Questo rifiuto di «stare al gioco» (chi rammenta il silenzio di Saint-Just dopo Termidoro) è l’atto politico di chi sa che a quel silenzio è affidata una eredità, quando che sia. Una verità, di cui «non si può dare testimonio se non morto», come disse un eretico toscano del ‘400 sulla via del rogo. Non il cristianesimo delle chiese, ma il cristianesimo implicito nel marxismo ha recato in Cina la potenziale separazione della “Chiesa” dallo “Stato”, della coscienza dal rito.
Mentre l’America reaganiana proclama che dio è americano, la millenaria identità di potere e di verità è forse oggi minata, più in profondo, dove era regola il consenso al potere. Esso potrà esserci ancora e potrà essere reale o ipocrita, ma non sarà sentito più come doveroso. Trent’anni di educazione maoista possono cominciare a dare i loro frutti nel senso di una contraddizione tra l’ossequio esteriore ai nuovi poteri e il rifiuto o la bestemmia, interiori; avere radicato nel cuore di un continente pragmatista la cattiva coscienza e la tensione a disfarsene. Le, forse, molte migliaia di quadri politici che sotto nome di stupratori o ladri il regime succeduto a Mao ha mandato alla fucilazione nell’ultimo decennio, sotto il naso di nuovi e vecchi filosofi occidentali, hanno probabilmente scelto di tacere e di non pentirsi: a futura memoria.