di Valerio Evangelisti

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E’ uscito un libro di un’importanza decisiva per chiunque si interessa alla narrativa di genere e alle sue problematiche. Si tratta di Jean-Patrick Manchette, Le ombre inquiete. Il giallo, il nero e gli altri colori del mistero, a cura di Doug Headline e François Guérif, ed. Cargo, Napoli, pp. 338, € 16,00. Il titolo originale era Chroniques. Si tratta della raccolta delle note critiche che Manchette scrisse, su varie testate, dal 1976 al 1995, anno della sua morte: in prevalenza recensioni librarie, ma con incursioni nel cinema e continui riferimenti alla vita politica e sociale.
Non ci sono parole sufficienti per raccomandare questo libro. Dalle sue pagine emergono la statura intellettuale di Manchette, l’estrema coerenza che ne improntò la vita, il rigore che ispirò la sua visione della letteratura e, più in generale, della società. Pungente, disincantato, aggressivo, sempre ironico, Manchette offre una lezione tuttora preziosa a chi si occupa di scrittura, non necessariamente di genere.

Degno complemento a questa raccolta sarebbe The Hidden Files di un altro grande, Derek Raymond, non a caso tra i migliori amici di Manchette. Purtroppo non è ancora stato tradotto in italiano.
Propongo un breve assaggio de Le ombre inquiete: le battute finali dell’intervista a Manchette che apre l’antologia. Si ritroveranno temi che Carmilla ha trattato più di una volta, anche di recente. Va solo precisato che il bravo traduttore, Marco Bellini, non ha potuto far altro che tradurre con “giallo” il francese “polar”. In realtà, nella lingua originale il termine ha valenze più complesse, e non indica solo il romanzo d’indagine, tanto da includere, almeno in parte, anche ciò che oggi si usa chiamare noir.

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Cosa pensa dei nuovi giallisti francesi, visto che spesso vengono paragonati a lei?

Escono molti libri, che alcuni (io per primo) chiamano neogialli e che vengono paragonati occasionalmente ai miei per il contenuto: perché vengono uccisi preti, borghesi, poliziotti, perché i cattivi sono promotori finanziari, industriali eccetera. È chiaro che sono libri di sinistra dal messaggio esplicito; ma questo non basta a fare un buon libro. È la moda, il mercato: qualunque libro violento, di sinistra e scritto in un francese passabile trova un editore, ma ho l’impressione che la maggior parte sia robaccia: gli autori saranno anche simpatici dal punto di vista politico, ma credo che si tratti soprattutto di carta straccia, come diceva mia nonna…
Secondo me non è sufficiente che quelli di destra siano i cattivi e quelli di sinistra i buoni per fare un buon libro, è evidente. D’altra parte, ritengo che il pubblico dei neogialli sia molto esiguo. Invece, sta succedendo qualcosa che mi sembra interessante, anche se non mi appassiona: la contaminazione del giallo con la letteratura alta, la fusione dei generi… Per esempio, Vautrin che scrive come Queneau o come Céline; anche Prudon ha uno stile molto elaborato. Non è il mio genere, ma è interessante…
Possiamo prendere Nada come punto di riferimento, ma a parte che si tratta di una cosa un po’ fortuita, anche Alain Fournier andava nella stessa direzione, per quanto sia un erede di Simonin; e Raf Vallet, Bastid e altri ancora, specialmente Siniac che, anche se non è decrepito, è una specie di Grande Antenato del giallo “da letterati”.

Cosa pensa del giallo in quanto genere e in rapporto al neogiallo?

Ci ho riflettuto molto. Cos’è il giallo? Cosa significa scrivere un giallo? Sono un inguaribile intellettuale, e non me ne vergogno. Rifaccio come i grandi americani; ma rifare i grandi americani significa fare un’altra cosa rispetto a loro: è il problema di Pierre Ménard, autore del Don Chisciotte! Cosa succede quando si rifà qualcosa a distanza di tempo e non è più il suo momento? L’epoca del giallo all’americana c’è già stata. Scrivere nel 1970 voleva dire tener conto della nuova realtà sociale, ma anche del fatto che la forma del giallo era sorpassata, perché la sua epoca era tramontata: riutilizzare una forma sorpassata significa adoperarla come riferimento, onorarla criticandola, esagerandola, deformandola per gli scopi più diversi. Anche rispettarla implica il deformarla, è quanto cercherò di fare in futuro: rispettare fino all’eccesso, rispettare la forma del giallo al duecento percento, per così dire. In confronto a questo aspetto, che riguarda l’estetica, la questione dei contenuti di sinistra, che i critici pasticcioni vogliono far passare per la questione essenziale, rivela tutta la sua inconsistenza.

In conclusione?

Continuiamo, gli uni e gli altri, nel nostro artigianato, anche se siamo braccati dal mercato, dalla critica e da duemila anni di cultura ammucchiati sulle nostre teste. Si può morirne o restarne menomati. Si può anche impazzire, è più moderno. La mia prognosi è decisamente sfavorevole.