di Lucio Angelini
[I ricordi di Andersen non sono inventati da Lucio Angelini (nella foto a sinistra), ma tratti di peso dalla sua stessa autobografia.
Qui tutte le puntate di questo romanzo on line]
Cap. XVII
“Fin dalla piú tenera infanzia credevo che quanto avvenisse a Capodanno fosse un presagio di ciò che sarebbe accaduto per tutto l’anno. Il mio desiderio piú ardente per l’anno nuovo era di ottenere una parte in un lavoro teatrale e di presentarmi alla ribalta. In secondo luogo veniva la paga. Era appunto Capodanno e il teatro era chiuso, ma l’ingresso al palcoscenico era aperto, sorvegliato da un portiere vecchio e mezzo cieco. Gli sgattaiolai davanti con il cuore in tumulto e mi ritrovai tra le quinte e il sipario. Avanzai sul palcoscenico verso l’orchestra e caddi in ginocchio, ma non riuscivo a ricordare nessun verso. Eppure dovevo pronunciare qualche parola, se desideravo tornare lí a recitare. Allora scandii a voce alta il ‘Padre Nostro’ e scappai via, certo che nel corso dell’anno nuovo avrei recitato una parte.”
“E il desiderio si avverò?”
“La voce mi tornò, piú forte e sonora di prima. Il signor Krossing, fratello del poeta, direttore della scuola di canto corale, mi sentí cantare e mi offrí un posto nella scuola. Ottenni varie parti in scena, ora come guerriero, ora come marinaio e cosí via. Il teatro era tutto il mio mondo. In esso vivevo e sognavo. Per esso trascuravo anche la grammatica latina, tanto che un giorno Guldberg mi rimproverò severamente. Mi venne persino l’idea di scrivere una tragedia da presentare al teatro reale e in soli quattordici giorni completai e trascrissi ‘I masnadieri di Vissenberg’.”
“E venne accettato?”
“Purtroppo no. Non solo l’opera venne respinta, ma ricevetti anche un’orribile lettera d’accompagnamento.”
“Perché orribile?”
“Perché c’era scritto che non si desiderava ricevere lavori che, come quello, tradissero la mancanza della cultura piú elementare.”
“Davvero poco incoraggiante. E tu come reagisti?”
“Scrissi una nuova tragedia, ‘Alfsol’, tratta da un racconto di Samsoe. La feci leggere al traduttore di Shakespeare, l’ammiraglio Wulff, e nella sua famiglia trovai presto un vero focolare. Mi presentai anche a H.C. Oersted, il celebre fisico danese scopritore dell’elettromagnetismo. Una sorta di ispirazione divina mi guidava verso gli uomini migliori e piú valenti. Anche Oersted seguí poi le mie vicende fino alla sua morte, con una simpatia crescente, sfociata in vera e propria amicizia. Fu la persona che per la mia intera carriera poetica mi sostenne moralmente, mi incoraggiò e mi predisse il futuro riconoscimento anche in patria. La sua casa divenne la mia casa, dove trovai i miei amici piú fedeli. Alla stessa epoca risale la mia conoscenza del consigliere segreto Jonas Collin, il direttore del teatro reale, l’uomo che sarebbe diventato per me un vero padre, e i suoi figli altrettanti fratelli. Collin perorò la mia causa presso il re Federico VI, che si degnò di concedermi una somma per il mio mantenimento per diversi anni. La direzione delle scuole classiche mi offrí, infine, l’istruzione gratuita presso il liceo di Slagelse. Lo stesso Collin mi avrebbe versato ogni trimestre i denari necessari al mio mantenimento. Con tutto il cuore avrei voluto che mio padre e la vecchia nonna vivessero ancora per udire la notizia che finalmente entravo al liceo!”
“Tutto risolto, dunque?”
“Solo in parte, purtroppo. Intanto dovevo lasciare Copenaghen e trasferirmi a Slagelse. A scuola, poi, fui inserito nella primissima classe, tra i bambini, perché non sapevo assolutamente nulla. Ero veramente come un uccello selvatico in gabbia. Avevo la miglior volontà di apprendere, ma mi smarrii quasi subito. Mi sentivo come chi venga gettato in acqua senza saper nuotare. Andare avanti era per me questione di vita o di morte, ma un cavallone seguiva l’altro: si chiamavano matematica, geografia, grammatica. Il preside Meisling, già fortemente incline allo scherno, trovò in me un ottimo appiglio per le sue derisioni, tanto da gettarmi in un abisso di avvilimento. Quando, in uno dei primi giorni, a una mia risposta errata dichiarò che ero irrimediabilmente stupido, riferii il fatto a Collin, esprimendo il mio timore di non meritare quanto egli aveva fatto per me. Ma Collin mi persuase ad avere pazienza e a tirare avanti.”
“E al tuo paese non eri piú tornato?”
“Ci tornai nelle vacanze estive. Passai il Belt e proseguii a piedi da Nyborg fino a Odense, con la mia roba in un fardello. Quanto piú mi avvicinavo alla città e scorgevo l’alto campanile dell’antica chiesa di San Canuto, tanto piú forte avvertivo l’emozione. Riconobbi la protezione di Dio e scoppiai in pianto. La mamma fu felice di rivedermi. Dovevo assolutamente visitare tanti suoi conoscenti e ‘persone per bene’, sia commercianti, sia impiegati. Mi accorgevo che nelle viuzze la gente spalancava le finestre per vedermi, giacché tutti sapevano che avevo fatto fortuna e che adesso studiavo a spese del re. Mia madre mi riferí che in giro si diceva: ‘Non era poi cosí sciocco Hans Christian, il figlio di Maria del calzolaio!’.”
“Ma il grande successo doveva ancora arrivare, vero?”
“Altroché! Per il momento, al mio ritorno a Slagelse, mi aspettavano solo le derisioni del preside, che finirono per diventare una vera e propria tortura.”
“Non c’era nessun divertimento a Slagense?”
“Slagelse non era Copenaghen. Lí non succedeva mai nulla. Anzi no! Ricordo un avvenimento che pose tutto il villaggio a rumore: l’esecuzione di tre condannati a Skjelskjör. Una giovinetta, figlia di un ricco agricoltore, aveva spinto l’innamorato a ucciderle il padre, colpevole di essersi opposto alla loro unione. In questo erano stati aiutati dal garzone, che mirava a sposare la vedova. Tutta Slagelse andò ad assistere alla loro esecuzione, e quello fu come un giorno di festa. Il preside diede vacanza all’ultima classe e dovemmo andare anche noi, giacché secondo lui un simile spettacolo ci avrebbe giovato. Viaggiammo per tutta la notte in una carrozza scoperta. All’alba arrivammo nei pressi di Skjelskjör. Non dimenticherò mai l’impressione provata nel veder condurre i condannati al luogo del supplizio. La giovinetta era mortalmente pallida e teneva il capo appoggiato al petto dell’innamorato. Il garzone sedeva livido e scarmigliato dietro di loro, salutando di tanto in tanto con la testa qualche amico che gli gridava: ‘Addio!’. Giunti al patibolo, si fermarono accanto alle loro bare e cantarono un salmo insieme al prete. La voce della fanciulla si levava alta sopra quella degli altri. Le gambe mi reggevano a stento. Quei momenti mi scossero piú che l’attimo stesso della morte. Vidi un povero infermo al quale i genitori superstiziosi, per guarirlo istantaneamente, fecero bere una coppa del sangue dei giustiziati, dopo di che si dettero alla fuga col malato, che, però, stramazzò al suolo. Un cantastorie, intanto, vendeva la sua malinconica canzone, in cui a parlare erano i malfattori stessi. Tutto l’episodio mi si impresse cosí vivamente nella memoria da ossessionarmi per lungo tempo anche nei sogni. A distanza di anni ogni cosa continuava a sembrarmi viva e recente come se fosse accaduta il giorno prima… ma in linea di massima, ripeto, a Slagense i giorni trascorrevano monotoni e senza mutamenti. Simili fatti erano piuttosto rari.”
Cap. XVIII
“Lo stesso preside Meisling si stancò di Slagelse e chiese di essere trasferito al liceo di Helsingör, dove si era liberato un posto. L’ottenne, e, con mia grande sorpresa, mi propose di seguirlo. Mi avrebbe fatto studiare privatamente con lui e mi disse che in un anno e mezzo sarei potuto arrivare all’Università. Mi avrebbe ospitato per la stessa somma che pagavo altrove, a patto che mi fossi occupato dei suoi bambini. Non mi restava che scrivere a Collin per ottenerne il permesso, e lo feci immediatamente. Fu cosí che mi trasferii a Helsingör. Durante il viaggio vidi per la prima volta il Sund, il braccio di mare che separa la Selandia dalla Svezia, pieno di navi, delle montagne di Kullen e di tutto ciò che ne costituisce il meraviglioso paesaggio. Anche ad Helsingör, tuttavia, il preside ricominciò a disconoscere quasi quotidianamente ogni mia qualità e a trattarmi da incurabile idiota. Furono tempi ben tristi. Passai cinque trimestri in casa sua, quasi soccombendo a quel trattamento sempre piú duro. Ogni sera pregavo il Signore di allontanarmi quel calice, oppure di non farmi vivere un solo giorno in piú. A scuola si divertiva a motteggiare sulla mia persona e a parlare della mia mancaza di doti spirituali. Terminate le lezioni, ero poi costretto a ritrovarmi a casa sua. In quel periodo scrissi le due poesie ‘Notte di capodanno’ e ‘Il bambino morente’. Una signora, che pur mi voleva bene, commentò: ‘Non si metta in testa, per carità, di essere poeta per il solo fatto di scrivere qualche verso! Potrebbe diventare in lei un’idea fissa. Che ne direbbe se io mi figurassi di essere l’imperatrice del Brasile? Non sarebbe follia? Cosí è della sua convinzione di esser poeta!’. E tuttavia la poesia rappresentò per me una vera luce in quei giorni bui, un conforto insostituibile.”
“E come andò a finire?”
“La mia posizione a casa di Meisling continuò ad aggravarsi di giorno in giorno. Fu il periodo piú triste e oscuro di tutta la mia vita, e gli altri miei insegnanti se ne accorsero. Uno di questi, il pastore Werliin, che ci insegnava ebraico, ne parlò a Collin, il quale prese subito la decisione di farmi tornare a Copenaghen a continuare gli studi privatamente. La notizia fece montare il preside su tutte le furie. Quando mi accomiatai da lui per ringraziarlo di quanto aveva fatto per me, mi congedò dicendo che non sarei mai arrivato all’Università e che quand’anche i miei versi fossero stati stampati, sarebbero serviti al massimo come carta straccia o sarebbero rimasti ad ammuffire nel ripostiglio di qualche libraio, mentre io sarei finito senz’altro in manicomio. Lo lasciai profondamente turbato.”
Cap. XIX
“Il mio contegno, a partire da quel periodo, cominciò a contrastare con la mia piú vera natura: avevo piacere non dico a irridere i miei sentimenti migliori, ma a scherzare con essi, a considerare l’intelligenza come la cosa piú importante al mondo. Questa mia nuova maniera d’essere era una fase necessaria. A scuola il preside Meisling aveva misconosciuto totalmente il mio carattere candidamente sentimentale, e le mie effusioni erano sempre state disapprovate e respinte. Ora che mi sentivo finalmente libero da quel giogo, assunsi un orientamento di pura affettazione. La mia timidezza si trasformò non già in spigliatezza, ma in una malintesa ambizione ad apparire diverso da quello che ero. Ridevo del sentimento, volevo convincermi di averlo ripudiato, ma ero capace di rimanere tutta una giornata triste, addirittura infelice, per aver incontrato un volto scuro, quando ne avevo aspettato uno cordiale. Diedi titoli parodistici e ritornelli scherzosi a tutte le poesie che avevo scritto tra le lacrime, con l’animo esacerbato. Ero proprio cambiato. L’arbusto intristito era stato trapiantato e cominciava a emettere nuovi germogli. La figlia maggiore dell’ammiraglio Wulff, Enrichetta, incoraggiò lo spirito umoristico che andava facendosi luce nelle mie nuove poesie.”
“E riuscisti, comunque, a iscriverti all’università?”
“Certo, ma a prezzo di grandi dolori. Ricordo il mio certificato di maturità: ‘Hans Christian Andersen si è presentato nell’ottobre del 1828 all’esame di maturità e, sulla base dei singoli voti riportati in composizione in lingua, in latino, in composizione latina, in greco, in ebraico, in religione, in geografia, storia, aritmetica, geometria, tedesco, francese… ha riportato il voto complessivo di SUFFICIENTE’. Entrai all’università ventitreenne. Proprio in quell’anno ne era rettore enschläger. Stampai a mie spese ‘Viaggio a piedi dal canale di Holm al capo orientale di Amack’, libro umoristico e bizzarro di cui, poi, l’editore acquistò i diritti per procedere a varie ristampe. Tutta Copenaghen lo lesse. Tra i miei compagni di università cominciai a godere di una certa stima. Furono giorni spensierati. Il mio vaudeville umoristico ‘L’amore sulla torre di S. Nicola’ venne applaudito a teatro. Uscí la mia prima raccolta di poesie con grande successo di pubblico e di critica. La vita, insomma, cominciò ad aprirsi luminosa davanti a me. Nell’estate del 1830 viaggiai nello Jutland fino al Mare del Nord e visitai tutta la Fionia. Nella primavera del 1831 intrapresi il mio primo viaggio fuori di Danimarca e vidi Lubecca e Amburgo. A Dresda conobbi Tieck, uno dei maggiori poeti romantici tedeschi. A Berlino il romanziere Adalbert von Chamisso, di origine francese, ma naturalizzato in Germania. Dal re Federico VI ricevetti, infine, una borsa per un viaggio.”
“Ma non avevi un amico speciale, un amico del cuore?”
“Certo! Fu Edvard Collin, uno dei figli dell’influente consigliere di stato. Edvard era cresciuto libero e felice, e possedeva quell’arditezza e decisione che a me difettavano totalmente. Avvertivo la profonda simpatia che lo legava a me, e poiché non avevo mai avuto un amico di gioventú, mi accostai a lui con umile affetto. Edvard faceva contrasto con il mio carattere quasi femmineo: era lui il ragionatore, il pratico, e benché piú giovane d’anni di me era il maggiore per giudizio, colui che mi guidava e che decideva, come del resto era logico nelle circostanze. Aspirava a infondere nel mio animo arrendevole una parte della sua indipendenza e della sua forza di volontà. Nella vita pratica mi era di aiuto concreto. Mi aveva aiutato nei compiti di latino durante il liceo e mi assistette anche in tutte le successive transazioni con editori e stampatori, fino alla correzione delle bozze. Fu per me un vero amico in tutti quegli anni, per tutto il mio svolgimento spirituale, da quando mi piegavo e tolleravo pazientemente ogni cosa fino a quando riuscii a conquistarmi la mia libertà di spirito, di volere e di opinione.”
“E in Italia venisti mai?”
“Eccome!”
“Quando, la prima volta?”
“Nel 1833. Avevo visitato la Germania e Parigi. Entrai in Italia negli stessi giorni in cui, quattordici anni prima, ragazzo bisognoso, avevo fatto il mio ingresso a Copenaghen. Passai il Sempione per la valle del Rodano. Vidi Domodossola, il lago Maggiore, il duomo di Milano, Genova… Ah, che fiabesca serata trascorsi a Sestri Levante! La locanda era vicinissima al mare, e una forte risacca la lambiva. Nel cielo le nuvole erano di fuoco, e sui monti si alternavano i colori piú vivi. Visitai, poi, Carrara e le cave di marmo, Pisa, Livorno. A Firenze fui particolarmente colpito dalla ‘Venere dei Medici’. Il 18 ottobre entrai in Roma, dove andai a trovare lo scultore danese Thorvaldsen, che l’aveva eletta a sua residenza. Proprio in quei giorni ricevetti da Collin, purtroppo, la notizia della morte di mia madre. Quell’annuncio mi impedí di godere il carnevale e la luminaria. Mi spinsi, quindi, fino a Napoli, dove il Vesuvio era in piena attività. Visitai Pompei ed Ercolano, Paestum, Amalfi e Capri. Tornai a Roma il 20 marzo 1834 per la Pasqua. Il 2 aprile festeggiai il mio compleanno a Montefiascone. Proseguii per Siena, Firenze, Bologna, Ferrara e vidi, infine, Venezia.”
“E che impressione ti fece?”
“Mi deluse un po’. Dopo aver visto Genova con i suoi splendidi palazzi e Roma con i suoi monumenti, dopo aver goduto il sole ridente di Napoli, Venezia, devo confessare, rappresentò una sorta di ‘triste vale’ nel lasciare l’Italia. Già Goethe aveva descritto il senso funereo suscitato dalla gondola veneziana, velocissima cassa funebre natante, nera, con frange, nastri e tendine nere. Ricordo che salii su una di esse presso Fusina e arrivai nella città silenziosa tra file continue di pali. L’impressione che mi fece fu quella di un cigno morto sull’acqua fangosa. Unici elementi di vita erano la piazza San Marco davanti alla chiesa variopinta e orientaleggiante, il fiabesco palazzo Ducale con i suoi tragici ricordi, le Prigioni e il Ponte dei Sospiri. C’erano greci e turchi seduti a fumare le loro lunghe pipe, e centinaia di colombi volavano intorno ai piloni trionfali dove sventolavano i gonfaloni. Mi sentivo come sul relitto di un vascello fantasma, soprattutto di giorno. Doveva venire la sera e spuntare la luna perché tutta la città si animasse: allora i palazzi si stagliavano piú imponenti e Venezia, la regina dell’Adriatico, acquistava animazione e bellezza.”
“Strano che Venezia dovesse sembrarti un cigno morto.”
“Devo confessarti che in quei giorni una puntura di scorpione a una mano mi rese particolarmente doloroso il soggiorno. Tutte le vene mi si gonfiarono fino al braccio e mi venne la febbre. Lasciai Venezia senza rimpianti sulla nera gondola funebre per andare in un’altra città di tombe, Verona, dove riposano gli Scaligeri e dove si trova il sepolcro di Romeo e Giulietta. Risalii le Alpi e mi fermai un intero mese a Vienna, poi vidi Praga e finalmente rientrai a Copenaghen. Ma l’esperienza italiana mi avrebbe suggerito il romanzo ‘L’improvvisatore’.”
“Non tornasti piú a Venezia?”
“Ci tornai nel 1854, arrivandovi in battello da Trieste. Se la mia prima impressione della città era stata quella di un funebre relitto galleggiante, adesso che vi tornavo sofferente per le maree dell’Adriatico non mi parve nemmeno di scendere a terra, ma di trasbordare da un vascello a un altro piú grosso. L’unica consolazione fu scoprire che adesso, grazie al ponte della ferrovia, la città era stata collegata alla terraferma. Venezia al chiaro di luna è certo qualcosa di stupendo, un sogno meraviglioso che bisogna provare. Le gondole scivolano come barche di Caronte tra gli alti palazzi, che si specchiano nell’acqua. Ma di giorno era un brutto spettacolo. Nei canali sporchi galleggiavano torsi di cavolo, foglie d’insalata e rifiuti d’ogni genere. Dalle crepe delle case uscivano i ratti d’acqua, e il sole ardeva tra i muri. Fui lieto di fuggire da quell’umida tomba. Sulla terra ferma la vite pendeva in tralci e i cipressi nereggiavano contro il cielo azzurro. Ero di nuovo diretto a Verona. Curiosamente, anche questa volta fui punto da uno scorpione e di nuovo il dolore e la febbre mi spinsero oltre.”