Jason Starr è uno dei migliori autori hard boiled della scena mondiale. E’ giovane ma si è già fatto le ossa: la sua bibliografia comprende almeno quattro capolavori contemporanei di genere, quali sono Nothing personal, Cold caller e Hard feelings, oltre al romanzo di cui qui parliamo, Fake I.D., genialmente intitolato, in edizione italiana, Piccoli delitti del cazzo. A meridianozero, l’editore italiano di Starr, dobbiamo già parecchio, per l’opera di intrusione dal basso verso l’alto che sta compiendo con indefettibile strategia, siringando nel panorama editoriale italiano nomi e titoli che meritano inchini e ringraziamenti: da Derek Raymond a Franz Hellens fino ai contemporanei più interessanti, come lo stesso Starr, Pagan, Françaix. Su Jason Starr, ambliopico feroce e ridanciano, possiamo puntare tutto e lo facciamo a cuor leggero: è nel ristrettissimo novero degli eredi di quell’autentico eversore della crime novel noto al mondo col nome di Elmore Leonard.
Se c’è una costante nella tradizione Usa del racconto criminale, bisogna individuarla nella violenta dialettica che si sviluppa tra Sogno Americano e Incubo Americano. Una dialettica che concerne non soltanto il sisma delle sicurezze individuali o dei protocolli giuridici che dovrebbero riflettere un sistema etico risalente ai Padri, ma anche la vocazione a imporre il disordine esistenziale a vantaggio di un Potere ineffabilmente aereo e pervasivo, che si incarna anche nel labirinto in cui l’individuo si perde e/o si ritrova, e che però esprime tutta la sua potenza nell’ambizione metafisica di imporsi quale imperativo categorico planetario. La carica universalistica della crime novel, a prescindere dalle sue declinazioni in storia acida o sarcastica o propriamente cupa, indica un’essenza inquietante della civiltà americana. E non è un caso che la critica di genere abbia individuato, quale piano privilegiato dell’assalto che l’hard boiled dà alla letteratura tutta, l’efficacia nel denunciare le storture sociali e politiche del Sistema, l’angolo di penetrazione del proiettile alienativo con cui una società votata al controllo collettivo tenta di governare e di autogestirsi.
In questo discrimine che, a priori, si sostanzia di pericolo e, più ancora a priori, del conflitto teologico tra Vizi e Virtù, Jason Starr si inserisce con una naturalezza stupefacente. La velocità e la composizione dell’intreccio, la rapidità del dialogato, il tentativo di andare propriamente in culo all’attesa dello scioglimento della suspence – ecco i mirabolanti componenti dell’irresistibile cocktail shakerato da questo promettentissimo barman del genere nero.
Piccoli delitti del cazzo è la storia di Tommy Russo, uno dei personaggi più irritanti della letteratura di questi anni: attore fallimentare con il vizio delle puntate sui cavalli, Russo diventa il protagonista di una scalata al bel mondo newyorkese, sorta di autentico passaggio di casta, che permette a noi lettori di apprezzare l’immondizia antropologica e l’ipocrisia automatica irradiata da questa enorme illusione dell’apparato wasp americano: la trasformazione definitiva della lotta di classe nella sua stessa volatilizzazione, nella sua ipotetica messa in ambra, nella museizzazione del divenire sociale messo sottovetro. Tommy Russo, prodigioso quanto inconsapevole apparatcik di questo Sistema che vive di menzogna e criminalità organizzata (dall’alto, a fini di controllo di massa), attraversa vicende che dipingono un antilounge tutto americano, che ha il suo padre nobile in Scott Fitzgerald. Il tutto, però, viene reso proprio in senso atmosferico, utilizzando i canoni del genere scelto da Starr per dare voce all’universa ambiguità della specie americana (una specie ormai separabile teoreticamente dal resto dell’umanità). Un passo emblematico del dinamismo hard boiled di Jason Starr:
Nel corso del notiziario mattutino passò un servizio da Marine Park, Brooklyn. Il cadavere di Debbie, coperto da un lenzuolo bianco, veniva infilato in un’ambulanza da alcuni portantini muniti di barella. L’inquadratura seguente si soffermava sul bar O’Reilly’s. L’autore del servizio spiegò che Debbie O’Reilly era la moglie del proprietario del locale, e disse anche che la notte del sabato qualcuno aveva trafugato il montepremi della lotteria del Super Bowl. Il reporter aggiunse che la polizia era sulle tracce del figlio di Frank O’Reilly, Gary, sospettato di essere l’autore del furto.
Per intenderci quanto al dinamismo di cui questo autore è capace: in poche righe Starr accenna a un omicidio, a un furto, a due drammi familiari, alla cronaca nera liminale al noir letterario, all’ossessione collettiva della vincita alla lotteria quale salvezza dalla povertà e retribuzione in terra della grazia di Dio, all’ossessione collettiva della partecipazione illusoria allo sport che il Super Bowl rappresenta per ogni americano, al passato di emigrazione dall’Irlanda, alla sostituzione automatica dell’investigatore col reporter, all’idea funebre unica che ormai l’America si consente in forma di lenzuolo bianco e ambulanza visti in piccolo schermo. In poche righe, tutto.
Leggete Piccoli delitti del cazzo e, insieme a noi, puntate tutto su Jason Starr: questo scrittore continuerà a sorprendervi, ma non per i banali escamotage con cui spesso tentano di sorprendervi i lancieri anglosassoni della letteratura hard boiled.
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