di Lucio Angelini
[I ricordi di Andersen non sono inventati da L.A., ma tratti di peso dalla sua stessa autobografia. Qui tutte le puntate di questo romanzo on line]
Cap. VII
“Intanto crescevo buono e ingenuo, senza darmi pensiero dei bisogni e delle privazioni a cui ero sottoposto. E benché i miei genitori vivessero, come si suol dire, alla giornata, a me pareva di nuotare nell’abbondanza. Anche nel vestire credevo di essere elegante, perché una vecchia mi adattava gli abiti smessi di mio padre. Tre o quattro grossi ritagli di seta della mamma mi venivano appuntati sul petto l’uno sull’altro, a mo’ di panciotto. Intorno al collo mi veniva legato un panno con un grosso nodo a fiocco, la testa mi veniva lavata col sapone, i capelli arricciati ed eccomi in ghingheri. Cosí acconciato andai per la prima volta a teatro con i miei genitori.”
“A teatro???”
“Sí! A Odense c’era un bellissimo teatro, originariamente costruito per la compagnia del conte Trampe o del conte Hahn, non ricordo bene. La prima rappresentazione che vidi fu ‘Il politico dilettante’ di Holberg, trasformato in opera. Non ho mai potuto accertare di chi fosse la musica, ma sono certo che il testo venne usato come libretto da cantare in tedesco. Il teatro divenne ben presto una sorta di luogo magico, per me, ma dato che potevo andarci solo una volta all’anno, d’inverno, divenni presto buon amico di Peter Junker, l’uomo incaricato dei manifesti. Lui mi dava ogni giorno una locandina, e io, in cambio, provvedevo a distribuire una parte dei manifesti in giro per il quartiere, cosa che facevo molto coscienziosamente. Cosí, anche se non potevo andare a teatro, potevo starmene a casa in un cantuccio con la locandina, e immaginare un’intera commedia secondo il titolo del lavoro e i nomi dei personaggi che vi figuravano. Fu proprio questo, anzi, il mio primo, inconscio lavoro di composizione.”
Cap. VIII
“Le passeggiate di mio padre nel bosco divennero sempre piú frequenti. Non aveva pace. Era tutto preso dai fatti della guerra in Germania, che seguiva con avidità sui giornali. Napoleone era il suo eroe e la sua ascesa dal nulla il piú bell’esempio da imitare. In quel periodo la Danimarca si era alleata con la Francia e non si parlava che di guerra. Mio padre, allora, si arruolò soldato, confidando di poter tornare a casa tenente. La mamma piangeva, i vicini scuotevano le spalle e dicevano che era una follia andare a farsi ammazzare per niente. A quell’epoca i militari erano considerati poco piú che dei pària. Il giorno in cui la compagnia di mio padre doveva mettersi in marcia, lo udii cantare e chiacchierare allegramente, ma aveva il cuore in tumulto, come mi accorsi dal violento trasporto con cui mi baciò accomiatandosi. Avevo il morbillo e me ne stavo a letto tutto solo. Udii i tamburi suonare. Mia madre accompagnò piangendo il babbo fino alla porta della città. Piú tardi venne da noi la nonna, che mi guardò con i suoi occhi miti e disse che sarebbe stata una fortuna se fossi morto in quel momento, ma che forse era meglio confidare nella volontà di Dio, che decideva sempre per il meglio. Quello fu uno dei primi giorni di dolore che ricordi.”
“E tuo padre riuscí a diventare tenente?”
“Macché. Il suo reggimento non andò oltre l’Holstein. Venne conclusa la pace, il volontario tornò al suo solito deschetto e tutto ricominciò come prima. Io giocavo con le mie marionette e recitavo sempre in tedesco, perché i lavori teatrali a cui avevo assistito erano stati rappresentati in quella lingua.”
“Sapevi parlare in tedesco?”
“Macché. Il mio tedesco, in realtà, era un guazzabuglio di mia stessa invenzione. La sola parola corretta era ‘Besen’, che avevo colto al volo tra i diversi termini che mio padre aveva riportato dall’Holstein. ‘Hai ricavato un bel guadagno dal mio viaggio!’, mi diceva scherzando. ‘Dio sa se arriverai mai cosí lontano, ma dovrai riuscirci, ricordatelo, Hans Christian!’. La mamma ribatteva che, finché lei avesse avuto voce in capitolo, sarei rimasto a casa, senza andare a rovinarmi la salute come aveva fatto lui. E in effetti la sua salute era ormai compromessa, minata dalle marce e dalla vita di guerra. Una mattina si svegliò delirando. Credeva di stare prendendo ordini da Napoleone, che lo istigava ad assumere il comando. La mamma mi mandò subito a cercare aiuto, ma non dal medico, bensí da una cosiddetta ‘donna sapiente’, che abitava a mezzo miglio da Odense. Quando arrivai, la donna mi fece parecchie domande, poi prese un filo di lana, mi misurò le braccia, tracciò su di me alcuni segni misteriosi e da ultimo mi pose sul petto un rametto verde dello stesso albero, cosí mi assicurò, che era stato utilizzato per la crocifissione di Nostro Signore. ‘Ora torna a casa lungo il fiume’, disse alla fine. ‘Se tuo padre deve morire, incontrerai la sua ombra!’. Puoi immaginare il mio terrore, superstizioso e suggestionabile com’ero!”
“E come andò?”
“Naturalmente non incontrai nessuno, come riferii, trafelato e sconvolto, alla mamma. Ma la terza sera mio padre morí. Il cadavere giaceva sul letto, io stavo con la mamma fuori della stanza, ascoltando un grillo che continuò a cantare per tutta la notte. ‘È inutile che canti, non lo avrai. Se l’è preso la vergine dei ghiacci!’, sbottò mia madre a un certo punto. E allora mi ricordai che l’inverno precedente, in un giorno in cui le finestre erano gelate, mio padre ci aveva mostrato un disegno sul vetro: una specie di fanciulla con le braccia protese. ‘Vuole prendermi!’, aveva detto scherzando. Adesso che giaceva morto, anche la mamma se ne ricordò. Venne sepolto nel cimitero di San Canuto, fuori dalla porta laterale, a sinistra dell’altare. La nonna piantò delle rose sulla sua tomba. In seguito, in quello stesso luogo vennero seppelliti degli altri morti, e l’erba crebbe alta anche su di loro.”
Cap. IX
“Dopo la morte di mio padre mi ritrovai praticamente abbandonato a me stesso. Mia madre andava a lavare fuori e io restavo solo in casa, col teatrino costruito da mio padre. Preparavo costumi per le mie marionette e leggevo testi di teatro. Ero già molto alto, decisamente troppo per la mia età, con una gran massa di capelli biondo chiari, quasi gialli. Giravo sempre a testa scoperta e con gli zoccoli ai piedi. Vicino a noi abitava la signora Bunkeflod, vedova di un pastore, insieme a sua cognata. Mi invitavano spesso ed erano assai buone con me, perciò passavo la maggior parte della giornata da loro. Fu quella la prima casa di persone colte in cui fui ricevuto con gentilezza. Il defunto pastore aveva scritto poesie e si era fatto un nome nella letteratura danese. Le sue ‘Ballate per filare’ erano sulla bocca di tutti. Fu in quella casa che udii pronunciare per la prima volta la parola ‘poeta’ con la reverenza dovuta a qualcosa di sacro. Mio padre mi aveva letto le commedie di Holberg, ma lí si parlava soprattutto di versi, di poesia. ‘Mio fratello, il poeta!’ sospirava la vecchia sorella di Bunkeflod, e le luccicavano gli occhi. Da lei appresi, dunque, che essere poeti è qualcosa di sublime, di magnifico. Nella stessa casa lessi per la prima volta anche Shakespeare, benché in una cattiva traduzione, ma le sue ardite descrizioni, i fatti eroici, le streghe e i fantasmi dei suoi drammi corrispondevano perfettamente al mio gusto, per cui non tardai a inserire le tragedie di Shakespeare nel repertorio del mio teatro di marionette. Vedevo lo spettro di Amleto e vivevo con il re Lear nella landa. Quanti piú morti c’erano in un dramma, tanto piú interessante esso appariva ai miei occhi. In quel periodo scrissi io stesso una tragedia, il mio primo lavoro, dove, naturalmente, morivano tutti.”
“E come si intitolava?”
“ ‘Abor ed Elvira’. Per la trama mi ero ispirato a una vecchia ballata su Piramo e Tisbe, ma poi l’avevo arricchita con un eremita e suo figlio, che amavano entrambi Tisbe e si uccidevano alla sua morte. Per le battute dell’eremita, invece, avevo attinto alla Bibbia, e in particolare a vari passi riportati nel libretto del catechismo nella sezione ‘Doveri verso il prossimo’. Tutti coloro ai quali la lessi mi dettero una gran soddisfazione, ma quando fu la volta della nostra vicina, lei osservò che, anziché Abor ed Elvira, avrei fatto meglio a chiamare i due protagonisti Pertica e Merluzzo.”
“E perché?”
“Era un gioco di parole con ‘Aborre’, che in danese significa, appunto, ‘pertica’. La sua ironia mi sconvolse. Sentii che si faceva beffe di me e della mia creazione, pur lodata da tutti gli altri, e raccontai inviperito il fatto alla mamma.”
“E lei che cosa ti disse?”
“Di non prendermela. ‘Parla cosí solo perché non l’ha fatto suo figlio!’, mi assicurò. Consolato, misi subito mano a un nuovo lavoro di stile piú solenne, giacchè vi facevo comparire anche un re e una principessa. Sapevo bene che in Shakespeare questi personaggi altolocati parlano come gli altri uomini, ma non mi era sembrato del tutto giusto. Domandai alla mamma e a diversi vicini come parlassero i re, ma non me lo seppero dire con precisione: erano passati troppi anni dall’ultima volta in cui un re era stato a Odense, dissero. Tutto quello che ricordavano era che parlava una lingua straniera. Allora mi procurai una specie di prontuario lessicale con parole in tedesco, francese e inglese affiancate dalla traduzione in danese, e questo mi fu di grande aiuto. Presi l’abitudine di infilare qualche parola delle diverse lingue in ogni frase pronunciata dal re e dalla principessa. Una delle battute, per esempio, era: ‘Guten Morgen, mon père! Avete ben sleeping?’. Ne risultava una lingua babelica, che consideravo l’unica appropriata a personaggi cosí elevati. Tutti dovettero ascoltare il mio lavoro, che recitavo beatamente, sicuro di poter deliziare ogni tipo di uditorio.”
Cap. X
“Il figlio di una nostra vicina si era impiegato in una fabbrica di tessuti e guadagnava una piccola somma settimanale. Io, invece, a detta di tutti, perdevo tempo e non combinavo nulla, perciò la mamma decise di far lavorare alla fabbrica anche me. ‘Non è per il guadagno’, diceva, ‘ma perché cosí saprò dove passa il tempo.’ La nonna mi accompagnò sul luogo rattristata: non credeva di vivere fino a vedermi finire cosí, tra i ragazzi poveri. In quella fabbrica lavoravano molti garzoni tedeschi, che cantavano e chiacchieravano allegramente. Qualche scherzo volgare veniva accolto con esultanza, e anch’io stavo a sentire, ma con animo del tutto innocente. A quell’epoca avevo una voce da soprano molto bella e acuta, che conservai fino a quindici anni. Sapevo che alla gente piaceva sentirmi cantare, e quando alla fabbrica mi chiesero se conoscessi qualche canzone, presi subito a cantare con grande successo. Del mio lavoro vennero incaricati gli altri ragazzi. Dopo aver cantato, rivelai che sapevo anche recitare, e mi esibii in intere scene da Holberg e da Shakespeare, che conoscevo a memoria. I garzoni e le donne mi facevano cenni amichevoli, ridevano e battevano le mani. In questo modo trovai i primi giorni nella fabbrica molto piacevoli, ma una volta, sul piú bello di una mia canzone, mentre si parlava della purezza e dell’altezza della mia voce, uno dei garzoni esclamò: ‘Non è un ragazzo, è una femmina, ne sono sicuro!’, e mi afferrò per spogliarmi e verificare. Io mi misi a strillare e a protestare, ma gli altri garzoni, che trovavano quella volgarità divertente, mi afferrarono per le braccia e per le gambe, mentre gridavo a perdifiato. Alla fine, spaurito come una bambina, fuggii dall’edificio e mi precipitai a casa dalla mamma, che mi promise di non farmi piú mettere piede là dentro. Cosí tornai a visitare la signora Bunkeflod, nella cui casa udivo leggere o leggevo io stesso, oltre ad esercitarmi a cucire, cosa indispensabile per il mio teatro di marionette. Ricordo che, per il compleanno della signora, confezionai un magnifico portaspilli di seta e da grande, parecchi anni dopo, lo vidi ancora là conservato.”
Cap. XI
“Mia madre sposò in seconde nozze un artigiano, la cui famiglia, a dire il vero, la giudicò un cattivo partito, tanto che né lei, né io fummo mai ricevuti in casa loro.”
“Che tipo era il tuo patrigno?”
“Era un uomo giovane, di carattere tranquillo. Aveva occhi scuri e vivaci, ed era sempre di buon umore. Dichiarò di non volersi minimamente immischiare nella mia educazione e mi lasciò fare quello che volevo. Vivevo, perciò, esclusivamente per il mio teatro di marionette e per il gioco della prospettiva. La mia piú grande felicità, come ti ho detto, consisteva nel raccogliere stracci colorati, che poi tagliavo e cucivo per farne costumi. La mamma lo considerava un buon esercizio per la professione di sarto. ‘Guarda come sta bene il signor Stegmann, il miglior sarto della città!’, asseriva. ‘Abita nella Korsgade, ha le finestre coi vetri grandi e tiene i garzoni alla sua tavola. Se solo tu potessi diventare uno di loro!’. Intanto, avevamo cambiato abitazione. Ci eravamo trasferiti nella strada fuori dalla porta del Mulino dei Frati. Adesso avevamo un giardino, benché molto piccolo e stretto, una sorta di lunga aiuola con siepi di ribes e uvaspina. Dava su un sentiero delle medesime dimensioni, che portava al fiume di Odense, esattamente dietro il Mulino dei Frari. L’acqua precipitava muovendo tre grosse ruote, che si fermavano di colpo quando le porte delle chiuse venivano serrate. Allora il fiume restava in secco e scopriva il fondo. I pesci guizzavano nelle pozze e io potevo afferrarli con le mani. Dal mulino uscivano grossi ratti d’acqua, che venivano a bere sotto le ruote, ma se le chiuse venivano riaperte, l’acqua ricominciava a precipitare schiumando e rombando e i ratti scomparivano, il letto del fiume si colmava e io mi affrettavo a guazzare a riva. Amavo stare ritto su una delle pietre che la mamma usava come asse per lavare i panni e cantavo a gola spiegata tutte le canzoni che conoscevo, spesso senza melodia o senso definiti, libere cantilene capricciose. Il giardino vicino al nostro apparteneva al consigliere Falbe. Sua moglie era stata attrice e aveva impersonato Ida Münster in ‘Herman von Unna’. Sapevo che, quando in quel giardino c’era gente, tutti si fermavano incantati ad ascoltarmi. Dicevano che avevo una voce bellissima, e che con essa avrei fatto fortuna. Spesso mi domandavo in che forma questa fortuna mi si sarebbe presentata, e poiché per me le fiabe erano realtà, mi aspettavo le cose piú stupefacenti. Un giorno una vecchia che sciacquava i panni nel fiume aveva detto che l’impero della Cina si trovava esattamente sotto il fiume di Odense, perciò non ritenevo affatto impossibile che, in una notte di plenilunio, mentre stavo in quel luogo, un principe cinese salisse fino a noi dall’altra estremità della terra, mi udisse cantare e mi portasse nel suo regno, facendomi diventare ricco e famoso, per poi concedermi di tornare a Odense, dove avrei abitato in un castello. Passavo intere serate a disegnarne il progetto. Ero proprio un bambino, e lo ero anche parecchi anni dopo, quando, a Copenaghen, declamavo e leggevo le mie poesie, giacché mi aspettavo ancora che tra gli uditori ci fosse una sorta di principe che potesse udirmi, comprendermi e aiutarmi.”
Cap. XII
“La mia passione per la lettura, le numerose scene drammatiche che sapevo recitare a memoria e la mia voce intonata e acuta risvegliarono una certa curiosità in diverse famiglie di Odense, che presero a invitarmi con frequenza. La mia singolare figura destava il loro interesse. Tra i molti dai quali andai, vi fu il colonnello Hoegh-Guldberg, che mi dimostrò una genuina benevolenza e decise di parlare di me al principe Cristiano, il futuro re Cristiano VIII. A quel tempo il principe risiedeva nel castello di Odense, dove un giorno Guldberg mi portò con sé. ‘Se il principe ti chiede quali siano i tuoi desideri’, mi disse, ‘rispondi che la tua aspirazione maggiore è frequentare il ginnasio!’. Cosí feci, quando il principe mi interrogò.”
“E il principe ti aiutò?”
“Mi rispose che cantare e declamare versi è molto bello, ma non per questo segno di genialità. Non dovevo dimenticare che la via degli studi è lunga e costosa, ma promise comunque di prendere a cuore le mie sorti, purché mi scegliessi un mestiere, ad esempio quello di tornitore. Io non ne avevo nessuna voglia, e tornai a casa tutt’altro che soddisfatto. Quando, tuttavia, col tempo, vennero alla luce le mie doti, il principe si dimostrò pieno di cortesia e di bontà verso di me.”
“Che altro successe?”
“Che crebbi e divenni un ragazzone. La mamma non poteva piú permettermi, disse, di oziare tutto il giorno. Allora presi a frequentare la scuola dei poveri annessa all’Ospizio, dove si studiavano soltanto religione, scrittura e aritmetica, quest’ultima abbastanza male. Non conoscevo l’ortografia esatta di quasi nessuna parola. Non avevo nemmeno bisogno di studiare le lezioni a casa, perché mi bastava impararle durante il tragitto da casa a scuola. La mamma lodava la mia grande facilità d’apprendimento, che contrapponeva alle difficoltà del figlio dei vicini. ‘Quello là legge dalla mattina alla sera e non capisce niente’, diceva, ‘mentre il mio Hans Christian non guarda mai il libro, eppure lo sa!’ Agli altri ragazzi raccontavo storie bizzarre, di cui naturalmente mi spacciavo protagonista, e qualche volta ridevano di me. Anche i monelli della strada avevano sentito i loro genitori parlare della mia insolita personalità e delle ‘famiglie distinte’ dalle quali ero ricevuto. Un giorno, perciò, mi seguirono in branco lungo una via, canzonandomi: ‘Guardate il commediografo!’. Allora corsi a casa a nascondermi in un angolo, dove piansi e pregai.”
[Lucio Angelini, uno dei migliori autori italiani per ragazzi, ha pubblicato per EL, Emme, Panini Ragazzi, Il Capitello, Loescher, Flammarion-Castor Poche eccetera]