di Valerio Evangelisti (da 8 1/2 n. 12, settembre 2013)
Il cinema italiano ha realizzato uno dei migliori film che io abbia visto nell’ultimo decennio: L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti. Dunque, si direbbe, gode di ottima salute. Non è così, e lo sappiamo tutti. Esistono film “alti” ed esistono porcate. Manca, a mio parere, un buon cinema medio che faccia da raccordo, come esiste quasi ovunque. Perché altrove sì e in Italia no? Mi sbaglierò, ma io attribuisco la colpa al sistema di produzione.
Scarseggiano i produttori, forniti di capitali adeguati, disposti a investirli e a rischiare sull’opera cinematografica come merce (non scandalizzi il termine) innovativa. A parte pochissimi, i più preferiscono battere strade sicure, con un risultato assicurato al botteghino. Di qui il prevalere di un genere soltanto, la commedia – spesso una pura successione di barzellette più o meno triviali – che di tutti è il meno esportabile. Altri non sono nemmeno produttori in senso proprio, visto che di capitali quasi non ne hanno, e contano di riceverli da Rai e Mediaset. Così si finisce nel cuore dell’abisso: lo strapotere della televisione in campo cinematografico.
Ovviamente le tv, pur investendo con larghezza, hanno bisogno di un certo tipo di prodotto: allineato, salvo rare eccezioni, ai “valori” dominanti, o per meglio dire ritenuti tali dalla classe politica; fruibile da ogni tipo di pubblico; con bersagli, se ce ne sono, scontati e condivisi a livello universale (per esempio, la mafia), o assolutamente generici. Se il tema è invece scomodo, protestano i partiti; ai quali partiti sono invece “regalati” film costosi che a loro stanno a cuore, come i film in costume o ispirati al “revisionismo storico” di un regista particolarmente inetto. Flop clamorosi al botteghino, ma d’altra parte votati a un altro tipo di successo: l’utilizzo televisivo a fini propagandistici. Alla fin fine sono quindi i partiti a condizionare indirettamente il cinema attraverso la televisione. A quella pubblica, peraltro, rimangono un po’ di soldi da distribuire tra produzioni meno conformiste, destinate, nel 90% dei casi, a non raggiungere mai le sale.
Sia chiaro: non è in sé un male che la televisione finanzi il cinema. A livello europeo, Canal+ ha svolto a lungo una funzione preziosa. Bisogna però vedere di quale televisione parliamo. Sarebbe mai possibile in Italia una serie televisiva come Breaking Bad, totalmente anticonformista e perturbante? Chiaramente no: da noi è tutta un’inflazione di storie di santi, di preti, di poliziotti coraggiosi e senza macchia. Persino Mad Men sarebbe troppo oltraggioso. Una televisione senza nerbo produrrà un cinema fatto a sua immagine (ripeto, con eccezioni, però rarissime). Peggio: sfornerà nuovi registi, attori, sceneggiatori addestrati al mezzo televisivo e incapaci d’altro linguaggio. Non è un caso se certe star nostrane si ritrovano in produzioni internazionali ridotte al rango di comparse. Paradossalmente, ciò non viene vissuto dagli interessati come una vergogna, ma come un riconoscimento.
Dato che è improbabile che un Carlo Freccero divenga un giorno presidente Rai, e che a un Marco Mûller sia affidato il settore cinema di Mediaset, dobbiamo ipotizzare un futuro con rare case produttrici capaci di resistere come altrettanti Fort Apache in mezzo al dilagare di battutacce da trivio, doppi sensi, peti, più qualche horror o thriller squinternato fatto con due soldi. Nonché a un mancato ricambio tra leve di professionisti, come già è avvenuto tra generazioni di attori.
Può la letteratura venire in soccorso di un cinema italiano agonizzante? Non credo. Intanto il mestiere dello scrittore è completamente diverso da quello dello sceneggiatore, che fa parte di un collettivo e scrive in tutt’altra maniera (anche quando è all’origine scrittore). Ora, se il collettivo è inserito in un sistema che scricchiola dai vertici alla base, poco importa che attinga alla narrativa. Banalizzerà o, fin dall’inizio, attingerà dai testi letterari più consoni alla visione conformista che lo ispira.
Non mi vedo romanzi ricchi di problematica come quelli di Lorenza Ghinelli (Il divoratore, La colpa) diventare film, anche se costerebbero poco: troppo sottili. O le ambigue storie di Vittorio Giacopini (ultimo di una serie stupenda: Nello specchio di Cagliostro). O i gialli polemici dell’italo-francese Serge Quadruppani (per esempio Saturno). O le riflessioni profonde di Michele Mari. Del resto, conviene a questi e ad altri autori tenersi fuori dal cinema italiano mainstream, se possono, e lasciare la scena ad autori più mediatici.
Non vorrei però sembrare troppo pessimista. E’ in corso una rivoluzione clamorosa. Oggi chiunque può filmare con uno smartphone o una telecamera a basso costo. Si trovano su YouTube e Vimeo, sapendo cercare, autentici gioielli, firmati anche da giovani italiani. Il mio consiglio è frugare da quelle parti. Forse è lì che sta fermentando il cinema italiano che verrà.