di Girolamo De Michele
In un breve saggio (On Bullshit, tradotto da M. Birattari: Stronzate. Un saggio filosofico, Milano, Rizzoli, 2005; ma il manoscritto è in realtà del 1986), il filosofo Harry G. Frankfurt si è domandato quali sono le proprietà che definiscono questo particolare tipo di enunciato. Che cos’è una “stronzata”? Perché sentiamo il bisogno di differenziarla da altri enunciati, come ad esempio la “menzogna”? E che cosa rende chi dice una “stronzata” diverso dal mentitore consumato? Dato per acquisito il fatto che lo studio della mente umana deve necessariamente comprendere un’analisi dei prodotti della mente — tra i quali sono (non necessariamente in posizione predominante) gli enunciati linguistici —, dal momento la “mente” è un oggetto che sfugge ai sensi, non sembra utile rinunciare allo studio di atti linguistici apparentemente secondari: anche perché questi atti forse secondari non sono affatto.
È bene precisare che Harry G. Frankfurt (nella foto) è una figura degna di interesse nel panorama della filosofia americana contemporanea. Partito dallo studio del pensiero di Descartes (dal quale afferma di aver appreso il metodo della ricerca della distinzione tra il vero e il falso), Frankfurt è giunto ad affermare che la moralità non è in grado di sostenere l’intera impalcatura della “normatività pratica”. Conseguentemente, Frankfurt si è dedicato allo studio di una facoltà complessa e sfuggente (ma decisamente cartesiana) quale il volere — nel cui ambito il filosofo fa convergere la coppia libertà-determinismo — e di un altrettanto sfuggente ed ambiguo oggetto del volere quale l’amore: semplificando, potremmo dire che per questo autore l’amore è un oggetto di un volere nel quale non è rilevante l’importanza o il valore in sé dell’oggetto che sentiamo di volere [per saperne di più leggi qui].
Chiarito il personaggio, veniamo alla sua riflessione, che appare guidata, oltre che da Descartes, da Wittgenstein, peraltro fugacemente nominato. Potremmo dire che questo libretto risponde alla domanda: che tipo di gioco linguistico è la stronzata? L’autore ha buon gioco nel dimostrare l’inadeguatezza di un approccio che consideri la stronzata una sorta di menzogna. Esemplare è infatti una citazione da un personaggio di Eric Ambler, che nel romanzo Dirty Story riporta l’insegnamento del padre di un personaggio, il cui cognome è, curiosamente, Simpson (e davvero ci si aspetterebbe che il padre del piccolo Arthur Abdel sia l’Homer dei cartoons): «Mai dire una bugia quando puoi cavartela a forza di stronzate». E tuttavia l’esame della menzogna — meglio: del mentitore — ha portato a distinguere (sulla scorta di Agostino d’Ippona), sulla base dell’intenzione dell’enunciatore, tra l’impostore abietto (il mendax), che prova un intimo piacere nel mentire «godendo della falsità della cosa stessa», dal mentitore (mentiens), cioè da chi, in un determinato momento, per effetto di particolari circostanze, produce un enunciato falso, ossia non-vero. Combinando la coppia certo-falso e l’intenzione dell’enunciante, Frankfurt arriva a una definizione accettabile di “stronzata”: se tanto il sincero quanto l’impostore hanno al cuore dei propri enunciati il valore della “verità” — questo per negarla, quello per affermarla — chi dice una stronzata è del tutto indifferente alla verità o falsità del suo enunciato. In altri termini, nella stronzata il contenuto di verità non è rilevante, e nell’animo dell’enunciante non c’è la volontà di giocare al gioco della verità: «Uno che mente e uno che dice la verità giocano in campi opposti, per così dire, allo stesso gioco. Chi racconta stronzate ignora completamente tali esigenze (p. 57)». L’autore di queste performances linguistiche si trova determinato a dire stronzate «ogni volta che le circostanze obbligano qualcuno a parlare senza sapere di cosa si sta parlando (p. 59)», manifestando col suo dire «l’assenza di qualunque legame significativo tra le opinioni di una persona e la sua comprensione della realtà (p. 60)». Proponiamo un esempio, per capirci: la celebre tesi del “Platone totalitario” avanzata da Karl Popper e ripresa da Marcello Pera. Per sua stessa ammissione, Popper la elaborò senza avere a disposizione i testi di Platone, sulla sola scorta delle sue reminiscenze universitarie (e Popper, ricordiamo, era un filosofo della scienza, non uno studioso del pensiero antico). Al buon conoscitore di Platone questa tesi appare, giustamente, una stronzata.
Nelle pagine finali Frankfurt si chiede cosa voglia dire «la contemporanea proliferazione delle stronzate». Per il filosofo si tratterebbe di un effetto delle diverse forme di scetticismo contemporaneo che, negando la possibilità di accedere a una realtà oggettiva, hanno favorito la sostituzione delle strategie orientate alla ricerca dell’esattezza con il perseguimento dell’ideale della sincerità. Ma, ribadisce Frankfurt, non è affatto detto che sia più facile raggiungere la conoscenza di sé, né è affermabile con certezza che ciò che sappiamo di noi stessi sia più resistente della conoscenza del mondo esterno alla dissoluzione dello scetticismo: «le nostre nature sono, anzi, elusivamente inconsistenti. E se questo è vero, la sincerità è in sé una stronzata (p. 62)». Fin qui Frankfurt, il cui testo ci sembra aprire molti più problemi di quanti ne chiuda — e questo è il maggiore dei suoi meriti. Restiamo sulla conclusione, cioè sulla contrapposizione tra sincerità ed esattezza, che rappresenta qui un modo intelligente e disincantato di riproporre in chiave attuale un tema tipicamente cartesiano (un Descartes lettore dei maestri del sospetto, potremmo dire). Di questa conclusione va sottolineata la disgiunzione tra il giudizio “inquisitorio”, incentrato non su ciò che viene detto, ma sull’intenzione intima di chi dice (la “sincerità”), e il giudizio “probatorio”, basato sull’“esattezza” di ciò che viene detto: Frankfurt, coerentemente con la matrice puritana che ha prodotto il diritto probatorio in alternativa al rito inquisitorio, sta con l’esattezza contro la sincerità. E fa bene: ogni volta che si manifesta la pretesa di indagare, con pretese normative, nell’animo si sente odore di Santa Inquisizione, Sant’Uffizio e carni bruciate. Insomma, Frankfurt sembra volerci mettere in guardia da chi ritiene di poter fondare sulla sincera conoscenza di sé i propri comportamenti: come se noi potessimo davvero scrutare fino in fondo le intenzioni, i movimenti, i reali scopi del nostro agire; come se potessimo fondare la nostra vita sulla sincerità delle nostre passioni, come accade con chi interpreta la propria vita come una missione. «La passione permanente è una condizione di orgasmo e di spasimo, che determina inettitudine all’operare», scrive Gramsci nelle sue Note sul Machiavelli. Detto altrimenti, lo spirito missionario è una forma di autoconvincimento col quale si infiora come missione l’alienazione (che si è incapaci di riconoscere) del proprio essere nel proprio fare: con le parole di Frankfurt, lo spirito missionario è una stronzata, o qualcosa di molto simile ad essa.
Cos’è allora l’esattezza? Un uso accorto e regolato di quegli strumenti, per natura imprecisi e aleatori, che sono le parole. Non precise parole, ma uso preciso delle parole: l’esattezza di cui scrive Calvino nelle Lezioni americane. Un esempio pratico: la relazione causale. Se dico che «A è causa di B», sto dicendo che l’evento B è interamente compreso in A. Nella sequenza di eventi: /il contadino usa il trattore per arare e concima il campo arato con sostanze contenenti fosfati che provocano danni all’ambiente e alla salute/, la causa di questi danni è la decisione di usare del concime chimico, non certo l’uso del trattore (come invece sosteneva Laura Conti (nella foto), che ne deduceva la fallibilità del metodo sperimentale, dal momento che nessun esperimento dimostrerà mai — e come darle torto? — la relazione tra il trattore e le alterazioni dell’ambiente e della salute). L’uso improprio della relazione causale – dell’inclusione inesatta e incontrollata di una conseguenza in una causa -, tipico di quasi tutte le teorie dei complotti globali (dai Protocolli dei Savi di Sion al Priorato di Sion) è la matrice di un gran numero di stronzate che affliggono le nostre orecchie e fanno patire le nostre menti.
Torniamo alle conclusioni conclusioni di Frankfurt, che suscitano ulteriori problemi. Il primo dei quali è la definizione stessa di “verità”. Nietzsche la riteneva «un mobile esercito di metafore, metonimie e antropomorfismi»: la constatazione che l’essere umano, oltre ad affermare il mondo, può non solo negarlo (come già sapeva il Platone del Sofista), ma altresì fare affermazioni prive di relazioni col mondo rafforza la tesi che il linguaggio non sia un veicolo naturale per il conseguimento della “verità”, e che in ultima analisi non esista alcuna “verità” da cui farci illuminare, ma solo verità umane, troppo umane da costruire giorno per giorno. La verità dipende quindi dalle strategie pratiche con le quali maturiamo valori pratici, li contrattiamo in diverso modo, e ne cerchiamo le modalità di attuazione, sempre nella prassi. Perché, se è vero che la stronzata abita un territorio che confina con la verità e la menzogna, è anche vero che non ci sembra esser l’unico abitante di questa landa. La stessa sproporzione tra ciò che viene detto e la competenza di chi dice ci sembra che indichi quantomeno una più ampia questione: in una società complessa, dove la mole di informazioni non è padroneggiabile dall’uomo medio, non c’è il rischio che ogni affermazione sia, da un certo punto di vista, una stronzata? Forse sarebbe meglio considerare la stronzata come uno degli enunciati nei quali il valore e l’intenzione di verità non sono rilevanti, e considerarla un utile punto di riferimento per indicarne altri.
Ci limitiamo qui a tre.
Il primo è il nonsense, quella forma di comicità che spazia da Groucho Marx a Bergonzoni, e che a dispetto dell’assenza di requisiti di esattezza consegue effetti performativi (infatti ci fa ridere). Ma il nostro vicino che, mentre ci sbellichiamo, resta serio e scuote la testa non sta forse pensando: «Che stronzata!»? In questo caso direi che è il ricevente dell’enunciazione che stabilisce, sulla base di una propria interpretazione del gioco linguistico, se ciò che ha ascoltato è una stronzata oppure no. Vale a dire che è la prassi, e non una teoria fodata sulla “verità”, a determinarne lo status.
Il secondo caso che citiamo è quello dello scambio di enunciati che dovrebbe esprimere quella corrispondenza tra le aspettative e le offerte di prestazioni in cui i teorici del libero mercato ci dicono consistere la funzione regolativa del libero mercato. Ma se è vero (e lo è, come dimostra da ultimo Stiglitz) che la differenza di intenzioni e la diversa quantità di informazioni possedute dai diversi soggetti collocati su ruoli diversi (l’acquirente e il venditore, per banalizzare) determina una sproporzione strutturale tra l’aspettativa di chi compra e l’aspettativa di chi vende, non dovremmo concludere che la prassi ci indica un livello di relazioni tra il dire e l’oggetto detto molto prossimo alla stronzata? Quanto prossimo, di nuovo, è solo una pragmatica che può indicarcelo.
Infine, lo scambio politico tra desideri e promesse. Qui la stronzata può addirittura configurarsi come un trasformatore tra la menzogna e la verità. L’intenzione del promettente ha per oggetto non ciò che in concreto è possibile fare, ma ciò che il destinatario dell’enunciazione, cioè l’elettore, si aspetta (o desidera) che venga fatto, e quando quest’ultimo palesa una volontà di credere che non ha una relazione stringente con ciò che è possibile realizzare — ma che nondimeno, come volontà di credere, esiste: dov’è qui il confine certo tra menzogna, verità e stronzata? Nella sua analisi della demagogia boulangista (dietro la quale è facile individuare non solo il fascismo, ma anche, per noi, il berlusconismo), Gramsci indicava alcune linee di analisi che sarebbe sensato seguire: il contenuto sociale della massa che aderisce al movimento, la funzione di questa massa nell’equilibrio di forze in via di trasformazione, le rivendicazioni presentate dai dirigenti del movimento e la qualità del consenso ottenuto, la conformità dei mezzi al fine proposto. «Solo in ultima analisi e presentata in forma politica e non moralistica si prospetta l’ipotesi che tale movimento necessariamente verrà snaturato e servirà a ben altri fini da quelli che le moltitudini seguaci se ne attendono». Se invece la critica politica prende le mosse dall’ultimo punto, «essa appare come un’accusa moralistica di doppiezza e di malafede o di poca furberia […]. La lotta politica così diventa una serie di fatti personali tra chi la sa lunga, avendo il diavolo nell’ampolla, e chi è preso in giro dai propri dirigenti e non vuole convincersene». Insomma, la discussione politica affonda nella triste palude delle stronzate. Ciò dimostra, mi sembra, come opporre la verità (cioè il contrario della falsità) non sia sempre una strategia adeguata a combattere la stronzata: più utile potrebbe essere quello di produrre mondi concreti nei quali sia più chiara la distinzione non tra verità e menzogna, ma tra verità e stronzata.
E quando, infine (ma questo “infine”, più che enunciarlo, bisogna costruirlo!), la promessa politica è enunciata da un mentitore che crede alla verità delle proprie menzogne?
[versione estesa e riveduta dell’elzeviro pubblicato su Liberazione, 18 gennaio 2006]