di Giuseppe Genna
Chi è uno scrittore? Sembra una domanda oziosa, inutile, priva di futuro e colma di filtraggi, ambiguità e, insomma, di molta noia. Poi, proseguendo nel tentativo di rispondere, viene fuori che quella domanda si porta dietro una sequenza impressionante di ulteriori quesiti: chi vede il mondo?, cosa sarebbe il mondo?, cos’è il fenomeno umano?, la memoria è una traccia?, la scrittura è psicoterapica o psicopatologica?, le storie che scrivono gli scrittori che cosa sono in definitiva?, l’epica e la lirica e il genere nero e il gotico hanno un qualche senso rispetto alla percezione globale che l’uomo ha della terra, dei cieli e dello spazio che ci circonda?
Se si dovesse compiere l’ozioso esercizio di trovare a tutti i costi una materia tematica al nuovo romanzo di Paolo Nori, I quattro cani di Pavlov (Bompiani, 14.50 euro), le succhieste domande sarebbero tale materia. La verità, in questo caso, è che la materia del libro è la finzione, in toto, affrontata come cerbero implacabile: come cane che ostacola il passaggio – come cane di Pavlov.
Sarebbe questo, tra le molte altre cose, un libro sul triplo. E’ noto, a chi segua un minimo la narrativa italiana contemporanea, che fino a un certo punto Paolo Nori utilizzava, nei suoi romanzi, un doppio: Learco Ferrari, dapprima scrittore e magazziniere (come Nori, del resto), e poi scrittore e traduttore (idem). Questo doppio era un doppio certamente scomodo, e per l’autore e per i lettori. Moltissimi titoli di Nori, pubblicati in pochi anni, hanno per protagonista o inserto fondamentale il doppio Learco Ferrari. La critica che sentivo muovere più spesso (e che io stesso ho mosso) all’iperproduttivo Paolo Nori era: non se ne può più di Learco Ferrari! Learco Ferrari è uno che, oltre a inventare, descrive: descrive quasi sempre quanto càpita a Paolo Nori. Il risultato che sortiva da questa carica dei libri learchici di Nori era che il suo stile straordinario (siamo a vette metrico-prosodiche elevatissime, qui la lingua è un momento fondamentale e lo è perché è una lingua bellissima) rischiava il birignao per colpa della persistenza monotematica e monovocale e ormai “proverbiale” di Learco.
Poi, all’improvviso, Learco Ferrari è sparito. E’ spuntato un Paolo Nori che con Pancetta e con Ente Nazionale della Cinematografia Popolare ha mostrato capacità di svolta non soltanto strutturale e tematica, ma addirittura stilistica (la frammentazione e il mutamento di assertività gnomica dell’Ente è quasi il contrario del monologare depressivo con cui l’autore parmigiano ha esordito ed è maturato). Ci si trova di fronte a esplosioni di fantastico, di alterità terrestri (nonostante non esista un libro di Nori che non sia impegnato in una sorta di ricerca metafisica: meditativa, per la precisione, meditativa senza oggetto), di invenzioni che mettono in gorgo esotismo, storia, comicità, follia, assoluto. Il trattamento riservato al grandissimo Chlebnikov in Pancetta, per esempio, resta a mio parere una delle prove più importanti del nostro romanzo recente.
Tutto, a questo punto, mi sarei atteso da Paolo Nori, tranne che un balzo devastante nel cuore vero di se stesso e della sua scrittura, un Ok Corral dove lo scrittore affronta se stesso, l’uomo contro l’autore, contro la vocazione e gli esiti della vocazione. I quattro cani di Pavlov, che riprende moduli da entrambe le produzioni di Nori, è il libro della ferocia e del reclamo dell’esistenza di sé a fronte della nullificazione a cui la finzione espone chi scrive – nullificazione che Nori simbolizza, mette in figura e conforma secondo quelli che ormai, più che stereotipi, sono archetipi nazisti. Insieme all’io scrivente e al doppio Learco, questo è infatti un romanzo in cui si appalesa un triplo, cioè un nuovo doppio, pronto a sostituire Learco Ferrari. Proveniente da un’ucronia che l’autore ci lascia immaginare fornendoci appoggi che sono storici e simbolici (il nido d’aquile, il quartier generale, l’arianità, l’essere “acciaiati”), questo triplo compie un’accelerazione prodigiosa verso un misticismo nazista “di scarto”, essendo la sua missione quella di colonizzare l’immaginario dello scrittore e di impulsarlo a pubblicare libri per una nascente epoca neonazista, in cui strabismi azzeccatissimi (ebrei da spedire in Nuova Zelanda, il centro oscuro e misteriosofico di Asunciòn) lasciano intendere a quali mondi paralleli sia in grado di accedere lo scrittore Paolo Nori. La vicenda del triplo è interlacciata, oltre a quella dello scrittore, detto “singolo”, a quella del doppio per antonomasia, cioè Learco, distrutto dalla pubblicazione di libri a firma Nori in cui lui non c’è.
La trama, o le molte trame, sono comunque secondarie. C’è da stare tranquilli: nonostante le neghittosità di Nori, questo è un libro le cui pagine si voltano per vedere cosa succede nella pagina successiva, un po’ come nell’opera mondo che ha in mente di creare il doppio, in questo caso avendo per riferimento I tre moschettieri, il che dovrebbe fare comprendere, a chi accusa Nori di certo elitarismo linguistico, quale grande letteratura abbia in mente questo autore.
Oltre la trama, però, c’è qualcosa di fondamentale, ed è la spietatezza con cui lo scrittore mette a nudo il proprio cuore: cuore che lo scrittore stesso non sa più se gli è interno alla cassa toracica oppure pompi sangue macchinalmente dall’esterno del corpo. Personalmente, era dai tempi di Fiction di Giulio Mozzi e degli Alphaville di Evangelisti che non incontravo un assalto così prepotente, così acutamente portato al centro pulsante della finzione e del rapporto tra verità e scrittura. C’è una risposta implicita fornita da Nori alla questione su chi scriva e cosa siano le storie scritte, da dove vengano e se, nel caso, abbiano qualche utilità. Questa risposta è implicita perché sta nel titolo. Tre sono gli scriventi, gli inventori, i creatori, i protagonisti di questa piccola saga dell’anticerebralità: il singolo, il doppio e il triplo. E allora perché i cani di Pavlov (a cui tutti e tre i personaggi sono a un certo punto accostati) sono nel titolo quattro?
Quest’estate ho preso il motorino e sono andato in un posto allucinante, a vedere uno spettacolo su Pancetta di Paolo Nori. Prima che Nori montasse sul palcoscenico, mi ha detto che sarebbe uscito per Bompiani, ma non ha fatto accenno al libro che avrebbe pubblicato. Un mese fa, in una sala enorme che sembrava la bara di Indro Montanelli vista dall’interno, mentre accanto a noi passavano Mario Cervi e Luca Goldoni, Paolo Nori mi ha detto: “Il nuovo libro parla del triplo”. Mentiva. Il nuovo libro, I quattro cani di Pavlov, parla del quarto. Che cos’è questo quarto elemento? E’ tutto. E’ l’antifiction. E’ lo scrittore che non si afferra, l’occhio che non vede se stesso, che per vedersi al massimo deve usare quel Learco Ferrari che è lo specchio. Il quarto è il buco bianco che si sporge sull’infinità dei mondi possibili da cui entrano nel nostro universo umano le storie, le saghe, le invenzioni, le fantasticherie e, in somma, tutta la letteratura. Il quarto è coscienziale. E’ talmente coscienziale da sfiorare certe pratiche di annichilimento della mente che pensa dualisticamente di matrice buddhista. Riprendo un passo che è evidenziato anche in quarta di copertina (ma ne aggiungo righe non riprese):
“Ma qual è il momento che dalla pioggia, si passa alla non pioggia? Dove è il punto che un millimetro più in là piove, e un millimetro più in qua non piove. Esiste? mi ero chiesto, e poi avevo sentito addosso una gran stanchezza come se la contemplazione del mondo a me mi toglieva le forze…”
Il che equivale, per l’appunto, a una pratica di contemplazione del mondo che non fa altro che condurre la mente al “non so” e, quindi, al silenzio. Nella prima parte del romanzo c’è un pezzo esilarante sullo studio che il singolo scrittore compie del Tractatus di Wittgenstein, per giungere alla celeberrima proposizione per cui, di ciò di cui non si può parlare bisogna tacere. Il pezzo è comico e tragico, perché avviene un confronto col nonno dello scrittore, l’ombra di una tradizione contadina che, si pensa, avrebbe dato per scontata un’affermazione del genere e non ci avrebbe scritto un trattato logico per giungere alla dimostrazione di una scontatezza. Poi, all’improvviso, Nori rovescia tutto e dice che il nonno non avrebbe reagito così. Quell’asserzione sul silenzio, che è il primo passo verso una contemplazione non religiosa del mondo, un misticismo ubiquitario che è una verità metafisica, una verità vuota, non è scontata nemmeno per la cultura che precede la nostra e, soprattutto, impone fatica se viene praticata.
E la finzione? La finzione è, in questo romanzo e in generale, parlare di ciò di cui non si potrebbe. Sfida ambigua. Se da un lato lo scrittore è grande, si tratta di un esercizio di coraggio prometeico, che strappa ai cieli del fantastico le grandi storie che testimoniano della totalità dell’umano. Se invece la finzione è operata alla leggera, cresce il rumore insopportabile dell’antiumano, che è il rumore del doppio ulteriore, il triplo vergognoso, censurabile, schierato per un ordine precostituito e vòlto all’abolizione di quell’ambiguità di specie che chiamiamo libertà. E il protagonista di questo dramma, l’uomo sul discrimine finzionale, è lo scrittore stesso, l’uomo che può iniziare a covare l’odio per il suo personaggio seriale, per il suo doppio che, mentre dà, toglie, così come diceva di Maigret lo stesso Simenon, dopo 72 romanzi dedicati al suo commissario: avrebbe voluto ucciderlo.
I quattro cani di Pavlov è un romanzo in cui Nori fa esasperatamente pensare, ma riesce a esasperare (come sempre) anche il nostro riso e la nostra commozione, qui sollecitata da un’entrata in campo personale di assoluta e continua tenerezza. Non si può prescindere, oggi, da quanto Mozzi in Fiction, Evangelisti negli Alphaville e Nori ne I quattro cani di Pavlov, lungi dal mettersi a scrivere un saggio o ad andare a pattinare su metalivelli letterari, hanno scritto della finzione. Per questo, l’ultimo romanzo di Paolo Nori è fondamentale per noi e una svolta per lui. Si attende l’esito della svolta: la persistenza del quarto cane di Pavlov, non visto, sotto gli occhi di tutti i lettori.