di Lucio Angelini
[I ricordi di Andersen non sono inventati da L.A., ma tratti di peso dalla sua stessa autobografia. Qui tutte le puntate di questo romanzo on line]
Cap. V
“Un altro fatto che mi si impresse profondamente nella mente fu il soggiorno degli spagnoli in Fionia, nel 1808.”
“Che ci facevano, scusa, gli spagnoli da quelle parti?”
“La Danimarca si era alleata con Napoleone, che aveva dichiarato guerra alla Svezia, e prima ancora che la notizia si risapesse, un esercito francese con truppe ausiliarie spagnole entrò in Fionia per poi passare in Svezia al comando del generale Bernadotte, principe di Pontecorvo.”
“Eri già grande?”
“Ma no. Ti ho detto che sono nato nel 1805, per cui a quell’epoca non dovevo avere piú di tre anni. Eppure ricordo benissimo gli uomini bruni che schiamazzavano nelle strade, e le salve sparate sulla piazza del mercato o davanti alla sede vescovile. Vedevo i soldati stranieri sdraiati sul selciato o sulla paglia nella chiesa di San Giovanni, semidistrutta dal fuoco. Il castello di Kolding venne incendiato, e Pontecorvo giunse a Odense, dove soggiornavano sua moglie e il loro figlio Oscar. Nella campagna intorno le scuole erano state adibite a posti di guardia. La messa si celebrava nei campi, sotto gli alberi piú grandi, o per la strada. I soldati francesi erano considerati cattivi e arroganti, mentre quelli spagnoli pacifici e cordiali. Tra le due parti, comunque, correva un odio feroce. Un giorno un soldato spagnolo mi prese in braccio e mi premette contro le labbra un’immagine d’argento che portava sul petto nudo. Ricordo che mia madre montò su tutte le furie perché quella, diceva, era un’usanza cattolica, ma a me l’immagine piaceva, come pure lo sconosciuto, che si era messo a ballare in tondo con me, baciandomi e piangendo. Probabilmente gli ricordavo i suoi bambini, che doveva avere lasciato in Spagna. Vidi anche uno dei suoi compagni condotto al supplizio per aver assassinato un francese. Diversi anni piú tardi questo ricordo mi ispirò la breve poesia ‘Il soldato’.”
“Hai scritto anche delle poesie?”
“Eccome!”
“Io ne ho scritta una su un cigno e su un toro. Vuoi sentirla?”
“Come si intitola? Il brutto toroccolo?”
“Macché. Si intitola ‘Scherzi di natura’. Eccola:
C’era una volta
un brutto cigno.
Poveretto,
aveva il collo
taurino!
Un giorno
incontrò un toro
assai ridicolo:
poveretto,
aveva un collo
da cigno!
Il cigno
lo guardò
con aria arcigna,
poi prese il toro
per le corna
e disse:
‘Madre Natura
si è divertita
alle nostre spalle… ‘
‘Mi pare evidente’,
convenne il toro
con aria scornata.
‘Be’,’
disse il cigno.
‘Non prendiamocela.
Non ne vale la pena.
In fondo
siamo solo
degli innocenti
scherzi di natura!’
“Molto carina. Saprai che il tema della diversità ha sempre affascinato anche me. Sono sempre stato un ragazzo un po’ speciale, capisci? Alto e goffo, con grandi piedi e grandi mani, gli occhi piccoli e un naso importante. La mia felicità era raccogliere stracci colorati, che tagliavo e cucivo per farne costumi. La mamma credeva che fosse un buon esercizio per diventare sarto e diceva che secondo lei ero proprio nato per quella professione. Io protestavo, dicendo che volevo dedicarmi al teatro, ma lei si opponeva energicamente.”
“Come mai?”
“Perché nella sua concezione il ‘teatro’ era rappresentato dai danzatori sulla corda e dai guitti girovaghi, che stimava tutt’uno. ‘Prenderai le botte!’, mi ammoniva, ‘e farai la fame. Per conservare l’agilità e mantenerti snello, ti daranno da mangiare solo olio!’. No, decisamente avrei dovuto fare il sarto!”
“E a te l’idea non piaceva? In fondo cucire era la tua passione.”
“L’unico aspetto positivo che ci trovavo era che, facendo il sarto, avrei avuto abbondanza di cenci e ritagli per il guardaroba del mio teatrino.”
“E a scuola non andavi?”
“Per modo di dire. Andavo da una vecchia maestra, che teneva una cosiddetta ‘scuola infantile’. Fu lei a insegnarmi a sillabare e a ‘legger giusto’. Sedeva in una poltrona dall’alto schienale, proprio sotto la pendola dalla quale, al battere dell’ora, appariva un meccanismo con figure in movimento. La maestra teneva vicino a sé un grosso frustino, con cui distribuiva le punizioni all’uditorio circostante, costituito per lo piú da bambine. Era norma della scuola che si compitasse tutti insieme a voce spiegata. La maestra non osava battermi, perché mia madre glielo aveva proibito espressamente all’atto di iscrivermi, ma un giorno assaggiai anch’io il frustino.”
“E non protestasti?”
“Non dissi nulla, ma mi alzai istantaneamente e me ne andai con il libro a casa senza tante cerimonie.”
“E tua madre?”
“Le chiesi di farmi frequentare un’altra scuola e lei mi accontentò, iscrivendomi alla scuola per ragazzi del signor Carsten, dove, però, c’era anche una bambina. Era molto piccola, benché fosse maggiore di me, e facemmo subito amicizia. Lei mi parlava dell’utilità e dei vantaggi del trovare un buon impiego. Veniva a scuola soprattutto per imparare bene a far di conto, perché un giorno, cosí almeno le assicurava sua madre, sarebbe andata a lavorare nella latteria di una grande tenuta. ‘No, farai quel lavoro nel mio castello’, le promettevo io, ‘quando sarò diventato ricco!’. Lei rideva di me e mi chiamava ‘piccolo pezzente’. Un giorno feci un disegno che intitolai ‘Il mio castello’, e le giurai di essere nato da una famiglia ricchissima. Purtroppo, poi, ero stato scambiato nella culla, ma gli angeli del buon Dio venivano a parlarmi. Volevo stupirla come le vecchie dell’ospedale, ma lei, che non era altrettanto credulona, mi guardò in modo strano e disse a un altro ragazzo che ci stava accanto: ‘È matto come suo nonno!’. Quelle parole mi ferirono: le avevo inventato quelle bugie per sembrarle qualcuno, invece poi le carte si erano cambiate in tavola e adesso ero ritenuto infermo di mente come mio nonno. Non tornai piú sull’argomento, ma non fummo piú buoni compagni come prima.”
Cap. VI
“Un altro avvenimento che mi colpí profondamente fu l’apparizione della grande cometa del 1811, durante il mio sesto anno di età. La mamma mi aveva detto che essa avrebbe distrutto la terra, o che sarebbero comunque potute accadere cose terribili, com’era scritto nel libro delle ‘profezie della Sibilla’. Io ascoltavo esterrefatto tutto quanto la gente superstiziosa intorno a me andava dicendo, e per me era sacra verità. Stavo con mia madre e alcune vicine sulla piazza di fronte al cimitero di San Canuto, a guardare la tanto temuta sfera di fuoco dalla grande coda lucente. Parlavano tutte del cattivo presagio e del giorno del Giudizio. Sopraggiunse mio padre, che non condivideva affatto le loro idee, e offrí del fenomeno un’interpretazione del tutto normale e ragionevole, ma la mamma si mise a sospirare, le vicine a scuotere la testa, ed egli se ne andò ridendo. Il suo scetticismo mi terrorizzò. La sera la mamma ne parlò con la nonna, che non so come interpretasse il fenomeno. Di certo ricordo che le stavo in grembo e la fissavo negli occhi miti, aspettando che da un momento all’altro la cometa piombasse sulla terra per dare il segnale del giorno del Giudizio.”
“La figura di tuo padre mi è molto simpatica. Parlamene ancora.”
“Lui non frequentava molte persone. Preferiva passare il tempo libero per conto suo, o in mia compagnia, nei boschi. Il suo piú ardente desiderio era di vivere in campagna. Proprio in quel periodo avvenne che in una tenuta della Fionia si cercasse un calzolaio, che avrebbe dovuto stabilirsi in un villaggio vicino e godere di alloggio gratuito, con tanto di giardinetto e pascolo per la mucca. Quelle comodità, insieme con il lavoro sicuro per la tenuta, ci avrebbero consentito una vita decorosa. Mio padre e mia madre non parlavano che della fortuna di poter ottenere quel posto. Dalla casa padronale fu inviato un lavoro di prova, consistente in un pezzo di stoffa con il quale mio padre avrebbe dovuto confezionare un paio di scarpe da ballo, aggiungendo di suo il cuoio. Per un paio di giorni non pensammo ad altro. Io provavo una gioia immensa all’idea del giardino che avremmo avuto, con fiori e piante. Avrei potuto starmene lí al sole ad ascoltare il canto dei cuculi, e pregavo il Signore che esaudisse il nostro desiderio. Sarebbe stata la piú grande fortuna che potesse capitarci. Finalmente le scarpe furono pronte. A casa le guardammo con solennità, perché da esse dipendeva tutto il nostro futuro. Mio padre le avvolse in un grosso fazzoletto e si avviò. Noi ci sedemmo ad aspettare il suo ritorno, fiduciosi di vederlo comparire con il volto raggiante.”
“E superò la prova?”
“Macché! Tornò pallido e sconvolto. Madama la padrona non aveva nemmeno voluto provare le sue scarpe, che aveva subito guardate con scontento. La seta, aveva detto, era rovinata e il posto, di conseguenza, non gli sarebbe stato concesso.”
“Immagino la delusione di tuo padre.”
“Disse solo: ‘Lei ci ha rimesso la seta e io dovrei rimetterci il cuoio?’. Si cavò il coltello di tasca e tagliò le suole. Insomma la nostra speranza di vivere in campagna naufragò.”
“Che sfortuna!”
“Piangemmo tutti e tre, e io pensai che a Dio non sarebbe costato nulla accontentarci, se solo l’avesse voluto. Non capivo che, se l’avesse fatto, sarei divenuto un contadino, e il mio futuro sarebbe stato del tutto diverso. Lo vedi? Probabilmente il Signore negò ai miei genitori la loro ora di felicità proprio a causa del mio avvenire.”
[Lucio Angelini, uno dei migliori autori italiani per ragazzi, ha pubblicato per EL, Emme, Panini Ragazzi, Il Capitello, Loescher, Flammarion-Castor Poche eccetera]