di Filippo Violi
Filippo Violi, Cronache da un campo di battaglia, Imprimatur Editore, 2014, pp. 216, € 15 – 12,75 on line [Di seguito una sinossi e l’introduzione al libro di Francesco Rocco Picone].
Cronache di un campo di battaglia si inserisce in uno spazio d’azione che rende visibile il lavoro sottopagato e dequalificante della pubblica amministrazione. Un lungo zoom senza alcuno stacco porta i protagonisti a misurarsi su un piano frequenza. Si parte dalle galassie indistinte di un modo divenuto preda della globalizzazione sfrenata che ha quasi cancellato del tutto i tratti caratteristici di ogni singola civiltà, conducendoci ad una circumnavigazione della storia, in una macchina del tempo che va si avanti, ma che ci sta riportando dietro, ai tempi del baratto. Lo zoom restringe pian piano il suo campo, fino ad un microcosmo locale, altrettanto indistinto dove i protagonisti della storia sono costretti ad operare come anelli di ingranaggio di una macchina burocratica che inghiottisce e divora denaro pubblico. Si scavano linee di fuga sotterranee tra una rete fittissima di pubbliche relazioni, oleata da consulenti, funzionari, politici e dirigenti.
Tutto viene annotato sul diario di bordo con l’intento di produrre un sapere storico di lotta da consegnare alle future generazioni. Un piccolo ufficio, immerso nel ventre della pubblica amministrazione, ubicato in una zona periferica del sud-Italia, in Calabria e precisamente nella cittadina di Crotone, diventa, grazie ai protagonisti dell’opera, il quartier generale dove si catturano tutte le informazioni di giornata e dove si organizzano minuziosamente spazi di resistenza che si tramutano in offensive contro il potere burocratico. L’autore, uno dei protagonisti del romanzo, veste i panni di subcomandante del piccolo esercito di liberazione burocratica, affiancato dal Cica, il genio dell’economia e da Franziska la volpe bionda, audacia combattente sul campo di battaglia. Nel tortuoso peregrinare i tre guerriglieri incontrano Pixon, da subito nominato generale che dal fortino della torre di Scilla (RC) sovraintende alla battaglia. Sul diario di bordo, in stile danza immobile, in un flash continuo che va avanti e indietro nel tempo, si annotano i disastri combinati negli ultimi 20 anni dai governi nazionali ed europei che si sono succeduti vicendevolmente, entrambi artefici di quella miseria che i protagonisti vivono tutti i giorni e di quel sistema d’ arroganza di potere che vige in fieri tanto negli enti regionali quanto negli enti provinciali e comunali.
Introduzione di Francesco Rocco Picone
La lotta: un percorso sotterraneo per il cambiamento
Quante volte ci siamo lamentati -o abbiamo sentito lamentarsi chi ci stava attorno- della monotonia, della rassegnazione, del disfattismo espressi con l’espressione: “Qui va sempre così, non cambierà mai nulla?”. Lo diciamo subito: questo libro fornisce una testimonianza diretta che, nella sua eloquente narrazione, vuole costituire una risposta a quella domanda, a una sorta di malattia oramai cronica che sembra avvolgere il Paese e, ancor di più, la nostra terra di Calabria. Uno stato d’animo diffuso, cui la crisi economica mondiale che stiamo attraversando fa da ulteriore catalizzatore.
Quello che state per leggere è un diario di ciò che accade dietro i portoni pesanti e dorati (ma l’oro ha cominciato a scrostarsi) della politica intesa come mezzo di potere. I fatti narrati sono la rappresentazione nuda e cruda, nei suoi aspetti tragicomici, dei meccanismi burocratici di una Regione Calabria “strappata”, come le tasche delle giacche dei potenti di turno. Cosa e come fare dunque, per fermare questo ingranaggio malfunzionante e farlo ripartire?
Semplice: basta un granello di sabbia, una scheggia, un piccolo frammento in grado -pur con le sue ridotte dimensioni- di rompere la linearità della storia così come l’abbiamo subita finora; di spezzare un continuum di rassegnazione ed accettazione passiva della volontà altrui. Ma quale granello può essere in grado di inserirsi all’interno di questa struttura burocratica e di minarne la natura servilista?
Ci vuole uno strumento che sia in grado di spingersi in profondità in modo efficace, ma che sia allo stesso tempo in grado di ramificarsi, conservando però una riserva che garantisca sempre il riprodursi di nuove cellule capaci di continuare il lavoro di “sminamento”, in un ciclo continuo. Insomma, serve qualcosa che si comporti come in natura fa il rizoma, una semplice radice. E’ questa radice che può penetrare -da direzioni e con i modi più diversi- nelle maglie più profonde e inaccessibili della burocrazia, e abbatterne gli schemi consolidati, cristallizzati dopo quarant’anni di bagordi incontrollati.
Per rinnovare questa struttura malandata, è necessaria un’opera certosina che consenta di scavare -ecco qual è il compito del rizoma- e far così mancare il terreno sotto i piedi, l’humus nel quale è cresciuto e ha prosperato fino a oggi il potere fine a sé stesso, vigliaccamente nascosto dietro la maschera di una finta democrazia.
“Il cambiamento lo auspichiamo costruendo i nostri percorsi sotterranei” – scrive l’autore. Sono i percorsi che conducono alla ristrutturazione della struttura democratica, che deve avvenire attraverso una demolizione controllata dei fantocci costruiti negli ultimi vent’anni e spacciati per riforme. Non è necessario buttar via tutto, radere al suolo, come invece vorrebbero i moderni predicatori del web.
Perché sia efficace, questa ristrutturazione non può essere isolata, ma deve armonizzarsi e procedere di pari passo con il mutamento di una democrazia e più ancora di una politica europea basata solo e soltanto sul capitale.
Ecco perché il diario è anche un continuo intrecciarsi tra le vicende calabresi e quelle europee; un continuo salto dal presente al passato, specialmente l’ultimo ventennio. E’ un procedere schizofrenico, perché racconta di una realtà schizofrenica, nella quale tutto viene deformato, alterato.
E nel periodo attuale, chi dimostra le alterazioni e le deformazioni più drammaticamente più evidenti è proprio il cardine delle politiche dei Paesi “civilizzati”: il capitalismo. Contro di esso viene condotta una critica dura, spietata ma lucidamente motivata.
Quello di oggi, è un capitalismo malato, nel quale anche l’elemento primario di cui è costituito, cioè il capitale, fa la fine delle arance e delle clementine della Piana di Gioia Tauro: se ne manda al macero l’eccesso.
Un capitalismo la cui degenerazione, oltre alla schizofrenia dei mercati, ha provocato la morte degli apparati produttivi, così che anche la morte ha perso “il suo carattere di fatalità per diventare un fattore di razionalizzazione dei costi.“
Così, noi che viviamo in questo mondo disumanizzato, non siamo altro che il frutto di una repressione sociale. Quella repressione sociale che è palpabile: nell’aria, nei volti, nei ripetuti gesti quotidiani di coloro che vivono confinati nella struttura burocratica (una delle strutture sociali di cui il mondo si è dotato), la quale diventa la loro realtà. E’ il concetto filosofico dell’antiedipo.
Un concetto la cui colonna sonora, non a caso, è costituita dalla musica dei Doors, dalle canzoni di quel Jim Morrison che in “The End” ha reinterpretato il complesso di Edipo alla maniera di un folle (tale era ritenuto, secondo gli standard di quei tempi), di uno schizofrenico sospeso oltre le porte della percezione, in una sorta di anticipazione della teoria antiedipica che si sarebbe sviluppata pochi anni dopo.
E’ quando tutto sembra essere finito, quando la repressione arriva al punto limite trasformandosi in rassegnazione, “The End” appunto, è in quel momento che dobbiamo ritrovare il coraggio di desiderare. Ritrovare il desiderio di cambiare le cose e rimettere in movimento la storia.
Il desiderio è quello della ricostruzione delle coscienze, in primo luogo di quelle chiamate ad operare nelle istituzioni.
Il capitalismo malato e l’estrema materialità delle istituzioni malate sono la struttura sociale, l’ambito nel quale siamo chiamati a muoverci e operare, nell’intento di ricostruire una coscienza di uomini, lavoratori e cittadini liberi.
E’ questa la lotta che ci aspetta. Questo è il campo di battaglia per il cambiamento, nel quale il rizoma combatte la propria guerra, aspirando a distinguere la natura del genere umano dall’artificio subdolo e ricorrente..
Guerra e Pace
Guerra e Pace. Un binomio inscindibile nella storia dell’uomo, nel quale i termini devono stare in questo ordine rigoroso affinché assumano un significato compiuto. Collegarli è un gioco da bambini (o quasi), come nella canzoncina dell’asilo: “Per fare un tavolo ci vuole il legno…“
Ci vuole la guerra per fare la pace; ci vuole la pace per dare alla società un ordine governabile; per avere un governo ci vuole un potere, che ci consenta di vivere nella pace sociale, al sicuro, protetti dalle leggi, le regole della democrazia.
In definitiva, non c’è democrazia (la forma di governo meno peggiore [?] che l’uomo abbia sperimentato) se prima non c’è la guerra.
Ma la democrazia è tutt’altro che qualcosa di definitivo, cambia e si evolve (almeno dovrebbe) continuamente nel tempo. E perché possa farlo, deve farlo anche la guerra che la genera. E’ quello che abbiamo vissuto subito dopo l’attacco al World Trade Center di New York: a un atto di guerra nuovo, si è risposto con quelle che hanno chiamate missioni umanitarie, perché miravano a portare, a esportare la pace e la democrazia. Ma con la guerra.
E’ qualcosa che è avvenuto continuamente nella storia del mondo.
C’è voluta la più disastrosa e terribile guerra a memoria d’uomo perché il Vecchio Continente potesse ritrovarsi unito sotto la stessa bandiera. E’ un’unione ancora gracile, fragile, che si regge (per ora) su una sola gamba per lo più zoppicante: l’economia, frutto però del capitalismo malato.
Un’economia che diventa sempre più debole, retta da regole discutibili imposte -ironia della sorte- dalla Germania, ovvero dal Paese (uscito più disastrato dal secondo conflitto mondiale) che è riuscito a realizzare con le regole democratiche ciò che non gli era riuscito fare con regole antidemocratiche. Sono le rivincite della storia.
La guerra cambia, si evolve. Non si combatte più sul territorio ma al chiuso delle banche, che reggono e manipolano i mercati economico-finanziari, oppure da dietro un computer, attraverso le reti informatiche più o meno segrete.
Il conflitto è oggi tra l’Europa, gli Stati Uniti o l’occidente da un lato e la Cina o la Russia dall’altro. La nuova potenza asiatica ha a disposizione un capitale umano che costituisce -da solo- un arsenale formidabile con cui combattere la guerra moderna. Gli accordi commerciali stipulati e strombazzati sui media, non sono altro che trattati di pace sotto mentite spoglie.
La democrazia che abbiamo cercato di esportare con la guerra si esercita attraverso la politica, dunque è la politica stessa a essere guerra, il fuoco che la alimenta di continuo, vendendo illusioni spacciandole per certezze.
Come in ogni guerra che si rispetti, c’è però chi non fa parte dell’esercito regolare, chi non accetta di stare intruppato ma preferisce combattere contando sulla forza dell’intelligenza e delle proprie capacità piuttosto che sulla forza dei numeri.
E’ l’esercito irregolare, la guerriglia, a mettere in campo azioni di disturbo. Disturbo inteso non come intralcio, bensì come diversità rispetto a modi di pensare e agire fatti in serie, catalogati e privi di sostanza ma pericolosamente assurti a normalità.
La guerriglia combatte ancora sul territorio -i suoi mezzi informatici sono ridotti a un diario- con un obiettivo fondamentale: essere il rizoma, che scava e posa mine nei campi dove risiedono le certezze vendute come solide, ma in realtà pronte a sgretolarsi al primo alito di vento.
La guerriglia
La guerriglia è uno spazio dinamico, nel quale ciascuno svolge la propria funzione conservando la propria individualità, come le pietre delle “armacie”, i muri a secco della Costa Viola costruiti con le pietre libere, non cementate, dove ogni elemento ha la propria collocazione ma è sempre in rapporto con gli altri.
Per questo la guerriglia ha una struttura forte, resistente, in grado di dare nuova forma al territorio in cui opera, anche il più scosceso e difficile.
L’azione della guerriglia si svolge nella parte ionica della Calabria, ed esattamente nella Provincia e nella provincia di Crotone: la prima intesa come Ente, struttura dello Stato, espressione politica; la seconda come territorio.
Un territorio, il “far west” di Calabria, caratterizzato da paesaggi baciati dal mare e bruciati dal sole, dominati dalle colline del vento e da ampi tratti di deserto.
Lo stesso deserto che si ritrova nella città, appena varcata la soglia degli uffici del pachiderma burocratico, dove brulicano volti tristi che nulla concedono, facce aride -come il deserto appunto. Quel deserto che, dunque, costituisce l’unico elemento, l’unico punto di contatto tra il ventre del pachiderma e l’esterno, tra la politica e la realtà.
Ma la guerriglia crotonese raccorda la sua azione con quella di un altro “gruppo di combattimento” che opera sull’altra costa calabrese, a Scilla, in riva allo stretto di Messina, punto di passaggio obbligato e, anche per questo, punto di vista privilegiato della realtà calabrese.
E’ un taglio in diagonale, che attraversa la Calabria centro-meridionale da Nord-Est a sud_Ovest. E’ un segno, non solo geografica, ma che esprime un auspicio: tagliare in maniera netta con le logiche del passato, aprire uno squarcio di speranza in una terra dura per natura, che spesso ha indurito il cuore e l’anima di chi la abita.
La guerriglia è di chiara ispirazione Bolivariana, con velati ma chiarissimi riferimenti all’esperienza cubana. La forma stessa del racconto, il diario, non può non ricordare il diario del Che. Così come l’assonanza dei nomi dei due condottieri principali: il subcomandante Flix -il leader, alla Fidel Castro- e il Cica, l’esperto di economia e macroeconomia, alla Che Guevara, mentre il generale Roque richiama alla mente la figura di Camilo Cienfuegos.
Ma rispetto a quella cubana, la guerriglia crotonese presenta un elemento di novità, almeno nel personaggio: è Franziska, la volpe bionda. Con i suoi stratagemmi e la sua astuzia, unita a una straordinaria voglia di lottare, questa figura femminile, senza paura, riassume in sé -pur con le diverse caratteristiche fisiche- le donne che sulla Sierra maestra hanno contribuito, con il loro coraggio e il loro appoggio decisivo, al successo della rivoluzione cubana.
Il pachiderma
Ma cosa accade dentro il Palazzo, dentro il pachiderma burocratico?
La guerriglia studia la dislocazione delle truppe regolari, implotonate nelle loro marce lungo i corridoi, sui quali si affaccia un susseguirsi di stanze su stanze -inaccessibili se non a pochi eletti, ma spesso vuote degli “eletti” dal popolo – nelle quali giacciono istanze su istanze. Truppe sempre pronte a mettersi sull’attenti al passaggio degli Ufficiali, ma che giocano a fare gli Ufficiali con chiunque altro -esterno all’ambiente militare- abbia la sventura di doversi avventurare nel loro quartier generale, come fa il peggior caporale con le reclute al primo giorno di C.A.R.
Un luogo, il pachiderma, che è come un ginnasio. Lunghe riunioni in cui a spiccare su tutti sono le presenze assenti, nelle quali si passa il tempo a discutere di programmi operativi, linee d’intervento e azioni.
Un misto di geometria e fisica che -come dimostrano le statistiche regionali sulla gestione dei fondi europei- è in verità destinato a rimanere in larga parte inapplicato, inutile. Come la fisica e la geometria in un ginnasio.
E come direbbe Totò, dentro il ginnasio non possono mancare le ginnaste: atletiche donne che combattono la loro guerra personale: sospese su vertigini di tacchi, alla perenne e affannosa -quanto vana- ricerca di un equilibrio mentale prim’ancora che fisico.
Ma la guerra è tattica, strategia, azione. E’ continua applicazione pratica di concetti di geometria e fisica.
Se mancano -o sono deboli- questi due elementi, la guerra si rischia di perderla e la democrazia che scaturisce dalle sue macerie sarà una democrazia sempre più debole. Come dimostra di essere quella calabrese, indifesa e soggetta alle infiltrazioni di agenti patogeni parassiti che dapprima le si mettono a fianco, nell’ombra, in contiguità al corpo, poi lo aggrediscono fino a modificarlo, diventandone parte integrante e perciò indistinta.
Caleidoscopio
Il racconto, sotto forma di diario, è dunque la narrazione in diretta di ciò che accade all’interno del pachiderma crotonese (e calabrese).
E’ un percorso che richiama alla mente il viaggio all’interno del corpo umano fatto da Piero Angela a Superquark qualche decennio fa.
Ma mentre in tv il conduttore era proiettato in miniatura in un mondo virtuale, il cronista di questo diario, il subcomandante Flix e i suoi compagni sono lì, nella realtà antiedipica, dentro le viscere del pachiderma, come Ulisse dentro il cavallo di Troia.
Raccontano ciò che vedono da dentro la cittadella burocratica, chiusa in sè stessa.
Il diario è l’unico mezzo per far passare all’esterno ciò che accade, vale a dire ciò che non si racconta o si racconta in maniera deformata, a seconda delle convenienze, come in ogni guerra che si rispetti.
In verità, il diario è un caleidoscopio, racchiude in sé un insieme di forme narrative il cui corpo centrale, il denominatore comune, è la guerriglia e le sue tecniche attraverso la storia.
In un’ambientazione che ricorda -come detto- Troia assediata, le frasi brevi, nervose, quasi rubate di nascosto e trasmesse sullo schermo del computer, ricordano in un certo senso le azioni di sabotaggio delle linee telegrafiche poste in essere dai pellerossa nella loro lotta per la sopravvivenza contro l’esercito dei visi pallidi: messaggi intercettati, decrittati e ritrasmessi con frasi che a volte possono apparire a prima vista contorte, ma che in realtà nascondono un significato profondo e molteplice. Sono una sorta di codice, come i segnali di fumo utilizzati dalle tribù degli indiani d’America.
L’esposizione a volte stilisticamente cinematografica, fatta di piani sequenza “girati” in diretta e di ciak, di “campi lunghi” e di zoomate dal generale al particolare, richiama alla mente i filmati girati da John Houston sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale come operatore di guerra al seguito delle truppe americane.
Il diario di una lotta presenta nella costruzione sintattica dei periodi lo stile in uso nella seconda metà degli anni ’70. Fu, storicamente, uno dei periodi più delicati dal punto di vista politico-economico e la situazione attuale in parte lo richiama, se è vero com’è vero che all’instabilità politica si somma il fatto che tutti gli indicatori economici dicono che il livello dei consumi e, più in generale, la qualità della vita, è allo stesso livello del 1983, cioè del periodo immediatamente successivo a quello cupo e tristissimo degli anni di piombo.
Dignità
Non possiamo dunque permetterci di fare altri passi indietro. Dobbiamo fermare questa deriva -economica, politica ma soprattutto morale- che ci sta conducendo verso un nuovo Medioevo.
E questa atmosfera neo medievale è sottolineata più volte nel diario-racconto. I grandi mucchi di carte da bruciare ricordano i roghi di quel tempo. E fanno tornare alla mente un libro Fahenheit 451 -di Ray Bradbury.
Lì il protagonista fa parte delle squadre speciali dei pompieri, incaricati non di spegnere bensì di appiccare il fuoco ai libri. Nella società del futuro, infatti, non saranno necessari: il sapere unico sarà quello che ci propineranno la televisione e la tecnologia, che ci bombarderanno direttamente dalle pareti di casa.
Ma bruciare i libri è una noiosa automatica routine, un po’ come per le truppe regolari andare a strisciare, come il loro cartellino, in ufficio.
Il protagonista della storia ha quindi un sussulto, si accorge che quella “vita” fatta di roghi e di pire fumanti lo opprime fin quasi ad annullarlo. Allora, prima che sia troppo tardi, ha uno scatto che gli consente di reinventare la possibilità di una nuova vita: è il risveglio della sua dignità di uomo.
L’unica scelta per chi, come lui, ha ancora la dignità -elemento che distingue gli esseri umani dalle cose- è quella di abbandonare la città e rifugiarsi nella foresta, dove si unisce alla guerriglia, i cui membri hanno un unico scopo: imparare ciascuno un libro a memoria, così da riuscire a salvare i libri, gli strumenti che consentiranno agli esseri umani di rinascere nuovamente, come un’araba fenice dotata però della consapevolezza degli errori fatti.
Qui, allo stesso modo, il diario vuole rappresentare uno strumento che consenta alla lotta di rimanere “ancorata alla memoria storica attraverso la scrittura” e costituiscono -come afferma l’autore- un “piccolo manifesto da consegnare alle future generazioni“, le quali possano tornare a sfogliare i calendari di quest’epoca non come semplici orologi del passato, ma come testimoni, “monumenti di una coscienza storica“.
Il teatro tragico della guerriglia
Il finale, l’epilogo del diario, “il lascito d’opera dedicata al popolo”, è un coup de théâtre, .
E’ la rappresentazione a volo d’angelo dell’essenza filosofica della guerriglia. Una sorta di “Sei personaggi in cerca d’autore” in cui però i personaggi-persone, protagonisti reali del racconto sono destinati -almeno questo è l’auspicio- a diventare più di sei.
Come nel dramma pirandelliano si passa dall’”avere forma” all’“essere forma”, il guerriero non si accontenta mai di ciò che sembra ma va sempre alla ricerca di ciò che è.
Il guerriero non si accontenta della conoscenza fine a se stessa, non si accontenta di camminare sui binari di un percorso prestabilito dall’ortodossia educativa.
Ogni uomo (anche chi si professa anarchico o ateo) si muove lungo due binari paralleli che delimitano il suo ambito d’azione nella società: quello della vita civile e quello della religione, l’eterno binomio fede-ragione.
I guerrieri si muovono da spiriti liberi dentro queste regole del gioco, nello spazio tra questi due binari, in un percorso accidentato, fatto di ciottolame tagliente e appuntito e di traversine, ostacoli da superare.
A volte, spesso, saltano oltre i binari e volgono lo sguardo a chi è al di fuori dei binari, a chi sta in bilico, aggrappato al pendio della massicciata. Sono i poveri, gli emarginati, i sofferenti.
Sono loro a vivere al di fuori dei binari del sapere ortodosso. Loro le vittime di una legge che non li tutela perché non è uguale per tutti. Loro le vittime di una religione che ha inculcato in passato una morale bigotta che “inventa il pudore e punisce con il sacrificio, con la repressione” ed il cui risultato per la Chiesa è stato quello d’aver formato non dei timorati di Dio ma dei timorosi di Dio, assillati dal dubbio su quale sia la giusta rettitudine.
Ma un Dio che si è fatto uomo -come quello in cui crediamo- non può essere punitivo o repressivo, non può inculcare timore. Ad aver timore di Gesù Cristo erano i ben pensanti, i colti, coloro che esercitavano il potere, loro sì, in maniera punitiva e repressiva.
Viceversa, non aveva paura di Lui chi viveva ai margini, chi viveva nella sofferenza, sulla massicciata oltre i binari.
A guardali bene, ti accorgi che, in realtà, tutta questa umanità che vive ai margini non è aggrappata alla massicciata, bensì è essa stessa che la sorregge. Sono loro, i senza voce, a sorreggere la struttura civile e religiosa della nostra società.
Lo scopo della guerriglia è quello di farli camminare in trincea insieme a loro, di coinvolgerli in un obiettivo ambizioso, certo, ma non impossibile: modificare il percorso obbligato dei binari dell’ortodossia.
Ma non sabotando i binari, bensì addolcendo la pendenza di quella massicciata che oggi è troppo alta e ripida. Fare in modo, insomma, che quei due binari diventino accessibili anche per loro, per i senza voce.
Smisurata Preghiera
Questo, dunque, è un libro ottimista. Porta in sé l’ottimismo insito in ogni guerriglia, che procede compatta verso l’obiettivo prefissato.
Per raggiungerlo, questa “minoranza di strambi che gridano nel deserto” (come in Fahenheit 451), questi servi -sempre e solo delle Istituzioni, mai del potere!- che disubbidienti alle quotidiane pietre focaie della politica che alimenta la guerra, ovvero a quei meccanismi burocratici che hanno ridotto l’esercito regolare a un branco indistinto, avanzano faticosamente ma armati di quelle armi che il branco, invece, ha ormai perso: la dignità e l’ottimismo.
Con dignità e ottimismo la guerriglia avanza, e non può farlo in un altro modo se non come l’Angelus Novus raffigurato da Klee: “con le spalle rivolte al futuro e gli occhi ben saldi al passato“.
A noi che siamo calabresi, gente col mare nel sangue, navigatori esperti, gli unici a conoscere i segreti per sfidare anche il mostro marino di Scilla, piace però immaginare quell’Angelo come un vogatore, e le sue ali come dei remi.
Come l’Angelo, anche il vogatore guarda indietro mentre va avanti. E’ la posizione migliore, l’ideale per domare anche il mare più tempestoso, le correnti più insidiose.
I vogatori della guerriglia navigano così nel mare infuocato, perennemente in burrasca, della burocrazia. Avanzano con tutte le loro forze, con tutta l’anima, seppur in direzione ostinata e contraria, controcorrente rispetto alla maggioranza inanimata, proprio come nella Smisurata Preghiera di De Andrè.
La loro smisurata preghiera, consegnata alla storia attraverso questo libro, si eleva da Crotone e da Scilla, ovvero da luoghi conosciuti per due tra i belvedere più belli della Calabria: quello di Capo Colonna e la rocca del castello di Scilla.
E guardando oltre lo Stretto di Messina, proprio di fronte vi è l’Arcipelago delle Isole Eolie. Scilla, Cariddi, le Eolie. Tutti luoghi dove fantasia e immaginazione sono sconfinati nel mito.
Anche in questo libro, in fondo, fantasia e immaginazione diventano efficace metafora della realtà.
Piace allora immaginare questo piccolo avamposto guerriero un po’ come il corrispondente calabrese dell’Arcipelago Eoliano.
Ognuno dei componenti la guerriglia è un vulcano la cui attività stromboliana è continua, perché alimentata da un fuoco speciale: il fuoco della coscienza civile.
Mentre la loro testimonianza rimane impressa in questo diario, il loro fuoco continuerà ad ardere pure in silenzio, sarà come un magma, un rizoma di fuoco che si propagherà anche sottoterra. Fino alla vittoria finale.
Con questa certezza, i componenti dell’equipaggio guerriero continuano a lottare, a vogare, sicuri di raggiungere la meta, il porto, annunciato già da una luce alle loro spalle: la luce dell’avvenire.