di Giuseppe Genna
Come sempre, quando Alberto Bevilacqua pubblica presso Einaudi un romanzo (o un iper-romanzo, vedi il Viaggio al principio del giorno, a oggi uno dei testi più avant-pop d’Italia), alla nostra letteratura contemporanea si aggiunge un evento di acume, grande prosa, straordinaria memorialistica e passione civile. Con Il Gengis la passione civile viene fatta esplodere a livelli di indignazione (e, per contrario, di dignità) che devasta il panorama attuale. Bevilacqua non prende per il culo Silvio Berlusconi con un breve romanzo, come qualcuno ha sostenuto. Piuttosto acquisisce per dato (ma non dato per sempre) un sottoarchetipo del Potere che coincide, per sintomatologia e fisiognomica, con l’attuale premier italiano in scadenza. Non è una fenomenologia, non è una satira: è una fiaba nera, composta con multipli registri linguistici e immaginali, in cui viene ribadito lo strapotere della letteratura rispetto all’arco breve di qualunque operazione d’interesse politico.
Il Gengis saccheggia la vita di Tommaso che, a suo modo, è un artista: disegnatore e vignettista, peraltro assunto nel giornale di proprietà dell’imprenditore Gengis. Imprenditore che, dopo il ratto da stasimo greco a cui sottopone l’esistenza di Tommaso, esalta le proprie potenzialità e ambizioni, trasformandosi in leader politico della nazione. Il ratto è quello di Pupe, la donna di Tommaso, madre di Duccio, di cui il disegnatore è affettuoso patrigno. Pupe è l’alter ego femminile del Gengis, una musa sbagliata o, meglio (qui Bevilacqua raggiunge il primo affondo alle profondità vertiginose che sono implicite in questo romanzo), la Musa Perfetta: la crudele, colei che può soltanto muovere il genio dell’artista e non sostenerlo o, peggio, identificarsi con lui e svolgere per lui il suo faticoso lavoro. Il Gengis si appropria della Musa e di un’opera umana che non dipende da Tommaso, il piccolo Duccio, che nel corso del libro diverrà un’emblema della totipotenza dell’infanzia ma anche della fragilità di una collettività intera, disposta a essere riplasmata nei suoi legami civili, a essere immolata a un’operazione di ricondizionamento psichico che ricorda da vicino alcuni meccanismi basali delle false democrazie in era mercantilista.
Siccome sono interessato a discutere apetti centrali del romanzo, dirò poco o niente della trama: dopo una caduta nell’apatia che dura mesi, Tommaso trova un’alterità femminile duplice, un’amica/amante e l’anziana madre, che lo spronano dapprima a uno sfregio vendicativo (una memorabile vignetta sul giornale del Gengis, che ha per soggetto il Gengis stesso), per poi avvicinarsi sempre più all’occhio del ciclone e ordire qualcosa che non ha più nemmeno i connotati della vendetta, bensì del parto: del parto dell’opera.
Ciò che più mi ha colpito dello spazio realmente fabulistico del romanzo di Bevilacqua (e parlo di una favola metropolitana che, a uno cresciuto a forza di Rodari, rimanda a certe atmosfere Sessanta/Settanta còlte, che so?, in Favole al telefono) è l’incredibile slittamento dei tempi che questa prosa, che considero in assoluto la migliore in Italia insieme a quella di Arbasino, è in grado di miscelare in un miracolo di atmosfere in fusione l’una nell’altra. E’ chiaro che si parla dell’oggi, ma certi inserti si avventurano addirittura in un futuro da Philip Dick marmorizzato ed esposto al Foro Italico, mentre una bruma vaga e padana (la cifra inconfondibile di Bevilacqua) è in grado di fare vibrare decenni trascorsi del Novecento, tutti in un medesimo colpo. Le parabole da ligera della Bassa, che si articolano intorno alla leggendaria madre del protagonista, Moretta, sono al tempo stesso qualcosa che rimanda a una civiltà che si estingue sotto i trilli dei telefoni bianchi, ma proprio per questo, perché ricordate ora e con questa carica di assalto al presente, configurano un’epica possibile e spalancano la porta del futuro. Poiché ciò con cui ha a che fare la madre del protagonista è l’universalità, il massimalismo della specie (amore, morte, caos, necessità, destino), e la dura lezione che deve apprendere Tommaso, che non a caso è inizialmente un mezzo artista, è quella di fare subentrare la fantasmagoria all’adesione o alla semplice distorsione di sé e della realtà. La fantasmagoria come canale intercettivo dell’universale: tema che poetiche storiche hanno sviluppato, ma che Bevilacqua sa da sempre radicare in un vissuto carnale, storico, materiale. In questo senso, Il Gengis è un libro su e contro il materialismo incerto (un materialismo non assoluto, solo assolutorio), scritto da uno scrittore che conosce in tutti i suoi pertugi la materia e la ama così visceralmente da conoscere il segreto di un materialismo radicale, che è la coincidenza con uno spiritualismo adogmatico, che esprime una nescienza stupefatta.
In questo movimento di accerchiamento a un presente condizionato da un patetico sintomo della micragnosa povertà di un tempo, Bevilacqua arriva letteralmente a prendere per il collo il sintomo stesso, che egli disegna in forma paraumana, grottesca, patafisica (la scena iniziale del Gengis che, frugando nell’armadio in casa di Tommaso, si infila addosso un costume da clown, che gli va stretto e squarcia, è davvero degna di uno Jarry semantizzato politicamente), vomitando addosso a questa forma inerte, che si spaccia per umanità definitiva, la potenza della memoria e, soprattutto, dell’invenzione: invenzione della carne e della psiche superiore, che governa i miracoli di amore e odio, di guerra e pace, di azione e inazione, come in un trattato di epoca ficiniana, definendo per immagini mobili ma afferrabili le virtù e i vizi, secondo l’antica tecnica iconologica che tradusse l’affabulazione in letteratura prima e in sapienzialità di ritorno poi.
Il Gengis è uno dei libri più politici che io abbia letto in questi anni. Non è né un’allegoria né una metafora: le cose stanno proprio così, direttamente così, come Bevilacqua le scrive, con quella sua prosodia incantatoria, pluriritmata, sinuosa e crudele come tutte le favole sanno e devono essere.
Alberto Bevilacqua – Il Gengis – Einaudi – 17 euro