NOTE SULLO STATO DELLA LETTERATURA DI GENERE

di Tommaso De Lorenzis

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La vera Restaurazione

Sono risuonati, negli ultimi tempi, roboanti proclami contro l’età della Restaurazione, epoca dominata dalla dittatura plutocratica dei dati di vendita e ignara dei tanti Kafka, Joyce, Proust che nascono a frotte e che la cecità delle burocrazie editoriali non permette di strappare alle tenebre dell’anonimato. Abbiamo letto invettive contro il pervertimento della “cultura”, allusioni a presunte pratiche censorie, prediche oziose su sottili meccanismi di auto-censura, pronunciamenti isterici contro i processi di «convergenza» che agiscono sulla letteratura, disponendola alle influenze contraddittorie di altri mezzi espressivi. Il discorso è rimasto astratto, cupa profezia di un’apocalisse senza millennio. Soprattutto, sono rimaste oscure tre cose che andavano dette chiaramente e senza giri di parole: ovvero quale istituto — o regime — sarebbe stato reintegrato nelle sue funzioni, dopo quale periodo di vacanza si sarebbe consumato il re-insediamento e quali opere rappresenterebbero la letteratura della Restaurazione. Visto che niente di tutto questo è stato detto, è consentito ribaltare il piano e offrire un’altra versione.

Chiamiamo «restauratori» gli ayatollah dell’autonomia letteraria, i sostenitori di una scrittura orientata verso se stessa e verso la sufficienza delle sue ricerche linguistiche. Appelliamo «reazionari» gli avversari dei «generi» eredi del feuilleton, i nemici della «letteratura ferroviaria» e «culinaria», delle canzonacce da taverna e delle «forze» popolari. Definiamo «vandeani» gli oppositori delle tensioni eteronome che mischiano i linguaggi, aprono la letteratura a intenzionalità altre e creano spazi discorsivi nelle zone di frontiera che separano la pagina scritta dalla celluloide delle pellicole e dai ripetitori televisivi. Consideriamo ultras i nostalgici legionari dell’aura dell’Opera e dell’Autore, i partigiani fanatici di una creazione intesa come sofferta e incompresa «intuizione» che non deve confondersi mai con le tecniche di un sapere artigiano avvezzo al gioco di clichés, archetipi e modelli narrativi. Diciamo «restauratori, reazionari, vandeani, ultras» i divulgatori della «fine del romanzo», massimo grado di «auto-intenzionalità» masturbatoria della letteratura.
L’età che costoro vorrebbero restaurare è quella del bel tempo andato. Quale sia questo tempo non è dato sapere. Forse l’evo degli antropofagi pulp? O l’epoca degli altri libertini? O il periodo neo-sperimentale degli invisibili? O i fasti del realismo? O — ancora meglio — gli anni in cui editori-strozzini imponevano contratti-capestro a Dostoevskij? Non lo sappiamo, ma sappiamo che il mito dei bei tempi andati è aria fritta. Nel tempo e nella storia, la grandezza e la miseria degli uni, degli altri e degli stessi, si con-fondono.

«Era il 25 ottobre e mancavano esattamente dieci minuti alle sette. Fu allora che Mario Pannunzio, direttore del Mondo, si avvicinò al gruppo scorrendo un manoscritto. Senza alzare gli occhi, entrò nella conversazione, con una voce calma che aumentò l’inesorabilità delle sue parole: “Io credo che il romanzo sia morto”, egli disse». Scriveva così Gian Carlo Fusco in un esilarante divertissement sulle polemiche tra «romanzisti» e «antiromanzisti». Impossibile non notare quel riferimento all’orario con cui lo scrittore spezzino ironizza sulla profetica e ieratica dichiarazione di Pannunzio. Quasi a dire: perché proprio in quel momento e non due minuti prima o quattro giorni dopo?
Era l’autunno del ’52, o del ’53. Dunque, tutto già visto. Tuttavia — da quei remoti anni Cinquanta —un paio di buoni romanzi sono anche stati scritti. La Restaurazione, quella vera, quella di chi vuole condannarci a massacranti sgroppate su pagine che si concludono nella gloriosa apoteosi di un ciclopico sbadiglio, è di là da venire. Ci auguriamo — con entrambe le mani sugli attributi — di non vederne mai l’avvento.
Invece, ciò che si è consumato è un Termidoro prima strisciante e poi manifesto. Parliamo di un processo regressivo, di una contro-spinta normalizzatrice interna alla letteratura di genere, che taglia trasversalmente la produzione di alcuni autori e ci costringe a un discorso preciso, concentrato su distinzioni chiare e non fraintendibili.

Crisi di sovra-produzione

Che strano paese quello in cui non c’è mai IL «genere» — che presupporrebbe lettori e scrittori di noir, gialli, fantascienza, horror, finanche di western — ma sempre e soltanto UN «genere». La stagione della fantascienza costituisce un perfetto esempio della dialettica tra riproduzione scolastica e tradimento virtuoso dei canoni che accompagna — e segna — il manifestarsi di una certa letteratura. Sviluppatasi ben oltre i confini del fenomeno letterario, la fiction fantascientifica è stata un vero e proprio processo sociale. Libri, “inediti” mezzi di comunicazione, elementi di costume, cinema hanno fatto di un «genere» un vasto ambito eteronomo capace di produrre profonde ricadute sulla realtà e sugli stili di vita. L’industria culturale venne dopo, quando la sussunzione reale sottopose l’intelligenza collettiva a una capillare estrazione di plusvalore. Così, una smania di profitto facile produsse quell’irragionevole aumento dell’offerta che generò la crisi di sovra-produzione. I mercati furono invasi di fantascientifica merce, la domanda crollò e i titoli si rivelarono per quello che erano: pezzi di carta senza valore. La carta in questione era quella di brutti e pedissequi romanzi cyberpunk. È l’esito inevitabile dell’argentinizzazione libraria, il destino delle «bolle» di finanza editoriale.
Che capitalismo straccione quello che ogni dieci anni cerca di imporre — contro la complessa ricchezza della letteratura — uno standard, al fine di creare un settore di rendita. E — tanto per essere chiari — quando parliamo di complessa ricchezza della letteratura, ci riferiamo a quella presente in libreria e non ai capolavori — senza dubbio strabilianti — che la loggia coperta di giornalisti culturali complici, consulenti editoriali proni, scrittori venduti al culto del dio denaro e critici affiliati all’orecchio di tenebrosi maestri non consente di pubblicare.
Oggi, è la volta di un generico e vago macrofilone criminale, gigantesca corte dei miracoli in cui è impossibile distinguere qualcosa. Un macrofilone edificato su un processo di «convergenza» viziosa, all’interno del quale giornalismo accomodante, noiosa letteratura e cattiva televisione concorrono — in un tempo unico — alla definizione del prodotto. Questo «bazar criminoso» ha perso da tempo le sue determinazioni cromatiche. Esso non è né giallo, né nero. Esso scimmiotta — in forme invertite — la benefica interazione tra molteplici campi energetici che rende l’inquietudine nera, gli schemi della detection o la forza muscolare dell’hard-boiled tensioni sempre presenti nella storia della letteratura, flussi capaci di agitare e scuotere — prima della Trilogia nera e di Continental OP — libri come I demoni e Il grande Gatsby.

Termidoro

Termidoro si preparava da tempo. Montava nella nera-tv da intrattenimento. Si manifestava attraverso le buffe comparsate dei serial-killerologi. Cresceva nelle sceneggiature di fiction sempre pronte a recepire caratteri bloccati, ruoli codificati e temi stantii. Traeva alimento dallo smantellamento del racconto della lunga notte della Repubblica, dal volontario depotenziamento di un giornalismo che comincia con l’idea di rifare Zavoli e finisce — o poco ci manca — a «rossi e neri tutti uguali».
Soprattutto, Termidoro covava in una stanca ripetizione. Si organizzava nella fiacca riproduzione delle principali serie del polar nostrano. Termidoro era visibile ne Il corriere colombiano di Massimo Carlotto. Non occorreva aspettare Il Maestro di nodi. E non smetteremo mai di rimpiangere quel proiettile con cui, in Nessuna cortesia all’uscita, uno sgherro di Tristano Castelli avrebbe dovuto mettere fine ai travagli di Marco Buratti e chiudere la serie nella forma simbolica di un trittico. Come non smetteremo mai di rimpiangere quel definitivo congedo dalla polizia che, ne Il giro di boa, Salvo Montalbano avrebbe dovuto prendersi senza indugi.
Vecchia storia quella dell’impoverimento delle concatenazioni seriali, evidente perfino nelle pagine di Simenon e Malet anche se parzialmente contenuta da programmi più solidi: dal progetto urbano alla Eugène Sue sviluppato nei romanzi di Burma e dalla lucida costruzione del polar para-freudiano, dialettico, psicologico e anti-deduttivista di Maigret. Ma la sostanza non cambia, e la questione non si riduce a un problema di date. Nemmeno quelli erano tempi strabilianti, consentivano soltanto sperimentazioni più immediate e legittimavano interpretazioni più naturali.

Al giro di boa

Si è fatto un gran parlare della versione televisiva de Il giro di boa. Una destra senza più argomenti ha attaccato. A quanto pare, la televisione pullulerebbe di comunisti. Ammettiamo la distrazione: non ce n’eravamo accorti.
Come si fa a non capire che proprio le accuse rivolte da quel commissario ai vertici di polizia sono uno spot sopraffino per le forze dell’ordine? Quello sì che è un romanzo “edificante” per le questure italiane. Pareggia i conti: per uno schifo immondo (Genova 2001), un riscatto letterario (storie di immigrazione in Sicilia). E quell’«anticchia» di cazzoneria di Salvo è la stessa, simpatica, affabile, gioviale coglioneria che si dispiega su una gamma di gradazioni distinte e arriva fino al Decimo Tuscolano di Distretto di polizia e alla Procura di Lecce, frequentata — di recente — dal giudice Mastrangelo. Un umorismo buontempone — da sciocco stereotipo dialettale e da barzelletta regionalistica — è la prima istanza letteraria evocata a difesa di una Legge, umana troppo umana, che può sbagliare e redimersi, e rimane — comunque — capace d’un bel sorriso.
Non sempre il motto di spirito accompagna l’azione innovativa.

La “crisi” di Montalbano si consuma nello spazio di mezzo libro e viene declinata attraverso il motivo dell’urgenza sempre presente, costantemente differita e poi dimenticata. Montalbano le dimissioni non le dà. Per molto meno — e senza “Diaz” — Fabio Montale liquida la polizia di Marsiglia e si ritira a mare, e là rimarrebbe — torrente di Lagavulin e sigaretta infinita — se Gélou, in Chourmo, non lo costringesse a rimettersi in gioco. Un altro canone narrativo che, insieme all’umorismo e all’ossessione gastronomica del cosiddetto «noir mediterraneo», concorre ad animare la processione termidoriana di poliziotti perplessi e magistrati pieni di dubbi, e a lavare il sangue da divise su cui bisognava sputare e narrativamente affondare. Senza esitazioni.
E tutto questo si consuma in nome dell’«interesse generale», di una comunità nel complesso sana, di cui i tutori dell’ordine fanno parte a pieno diritto. Siamo davanti a un macrogenere criminale pronto a diventare macrogenere sbirresco enfio di vetero-piccismo mentale: realismo edulcorato e incapace di mordere, cofferatismo letterario, progressismo d’accatto con gli uomini delle istituzioni al posto della classe operaia (dalla fabbrica al pubblico impiego?), «genere» statolatrico di una crepuscolare «compromissione storica» che viene da lontano e vuole andare lontano.
Abbiamo mestamente imboccato la via giudiziaria alla letteratura di genere.

Termidoro trova il suo compimento in Crimini, antologia che riduce la misteriosa e irrazionale inquietudine del noir a un annacquato trittico tematico composto dai motivi della «corruzione patrimoniale», della paura per lo straniero e dell’«ossessione per il successo». Insomma, ecco l’enciclopedia di un modesto, vago, girotondista «genere» antiberlusconiano che ci impone il cinismo ultra-legalitario dell’ispettore Campagna, la commozione per la morte dei confidenti dei questurini, una versione — fiabesca e natalizia — del noir al confronto della quale i gremlins sembrano Léo Malet, e altre amenità.

Il resto

Ma se la serialità letteraria e televisiva annega in una funesta riproposta, imponendo la prospettiva degli apparati di pubblica sicurezza contro il punto di vista dei rei, occorre sottolineare il valore di romanzi che assumono e innovano la lezione del «genere». Si tratta di opere scritte spesso dagli stessi autori che — su altri versanti — lavorano per Termidoro. La presa di Macallè, Arrivederci amore, ciao, L’oscura immensità della morte, Romanzo criminale sono espressioni riuscite di noirceur, di potenza hard-boiled e dinamismo western. Parliamo di libri pronti a mettere in scena l’abominio e l’orrore, la sordida grandezza della miseria e l’inesorabilità del destino, il rovello psicologico e la perversione sessuale, la pulsione di morte e il tenebroso dominio delle ossessioni, l’assenza di una purezza originaria e il meschino intrecciarsi degli interessi.

Tuttavia, la stessa serialità può conoscere sbocchi differenti, a condizione di leggere le tendenze, rinunciare alla trita retorica di una mimesi a tesi e praticare un sistematico tradimento dei canoni. Le inchieste colitico-caffeiniche del sergente Sarti Antonio rimangono un sarcastico monumento alla sfigata ottusità delle burocrazie repressive e rappresentano una straordinaria lente attraverso cui osservare — in anticipo sulla realtà — le trasformazioni di uno spazio urbano. Ed è un fecondo adulterio quello consumato da Evangelisti in Antracite, romanzo che costituisce una frontiera, varcata la quale la saga fantasy-western di Metallo urlante vira verso il noir-storico di Noi saremo tutto, mentre la fosca epica metallurgica conosciuta da Pantera anticipa l’epopea sindacal-portuale dell’immondo e ributtante Eddie Florio.

In conclusione: il consorzio criminal-sbirresco ha esaurito l’azione del noir; il «crimine» è un cartello semantico da cui emerge un’idea accomodante della realtà e una mimesi priva di spinta critica; la televisione — in quanto settore economico trainante — svolge una funzione centrale nella riproduzione delle pratiche termidoriane; un’altra televisione e un’altra letteratura di genere sono senza dubbio possibili a condizione di praticare un consapevole tradimento dei canoni e un continuo slittamento nell’applicazione dei modelli; all’inverso, un piatto impiego degli schemi determina la caduta nello standard conformistico; l’umorismo non desacralizza bensì nobilita le istituzioni; la Restaurazione, quella vera, si combatte combattendo Termidoro.